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lunedì 11 luglio 2016

Archeologia. Gli etruschi oltre Mantova (Mantua): la Stele Leponzia di Vergiate, incontro di riti e culture, di Sergio Murli

Archeologia. Gli etruschi oltre Mantova (Mantua)
di Sergio Murli

Stele Leponzia di Vergiate, incontro di riti e culture
Questa volta parliamo di quell'area chiamata Parco del Ticino, parecchio a nord della nostra Italia, nella cui zona è stato trovato, molti anni fa, il reperto che ci permette in tutta umiltà di “aggiornare” le idee, frutto di conoscenze molto approssimative, perché forse superficiali, sulla espansione del popolo etrusco a nord, molto più a nord di dove indicano le cartine storiche dell’Italia antica su pubblicazioni evidentemente non specializzate.
Dunque, su certi testi si parlava di Mantua (Mantova) come ultimo insediamento con prove archeologiche – edifici e reperti – della penetrazione, pacifica, delle popolazioni d’Etruria.
Invece, non è così, è storia già datata, si parla addirittura del febbraio del 1913. Ci è sembrato, cari Lettori, fosse il caso di illuminare i tentativi degli Antichi, di intavolare intese, alleanze, trattati di pace con reciproco interesse negli scambi di esperienze, modi di vita, e spesso di costumi.
In questo caso, esistono documenti incisi nella pietra che hanno portato addirittura alla creazione di una scrittura, in origine etrusca, ma diventata poi “leponzia”: incredibile come gli abitanti dei secoli V – III prima di Cristo, fossero così malleabili e pronti; probabilmente il motivo stimolante è l’apertura di nuovi mercati che avrebbero portato benessere a tutta l’area.
Ripetiamo qui il nostri ruolo che è quello di semplice cronistorico, che nulla vuol togliere ai meriti, lodevoli, degli Studiosi che, con le loro ricerche e applicazioni, ci permettono di dire la (piccola) nostra.
Intanto primo… intoppo: per chi non sapesse di Leponzi – saranno sicuramente pochi – ecco qualche ripassatina: era un’antica popolazione (latino, Lepontii) che abitava la zona alpina tra l’alta valle del Ticino, il Lago di Como e la val d’Ossola; fu sottomessa in parte a Roma all’inizio del II a.C.. Probabilmente il centro più importante era Oscela, la odierna Domodossola. 
Ora parliamo del Lepontico o Leponzio, era la lingua in uso nel territorio ed è documentata da alcune iscrizioni in una varietà dell’alfabeto nord-etrusco (capito?); probabilmente affine al ligure con implicazioni e varianti dei popoli confinanti a nord, leggi insediamento di “germani”… ma qui per pudore ci fermiamo. 
E di seguito, ecco l’apporto altamente qualificato della Dott.ssa Daria Banchieri, Conservatore del Museo Civico Archeologico di Villa Mirabello, Varese, quello della chicca, che si è gentilmente prestata ad illuminarci con il testo di Alessandro Morandi su pannello nella sala 9 del Museo: “Il celtico più antico.
Nel campo indo-europeo più prossimo a noi non c’è lingua che per continuità ed estensione territoriale possa paragonarsi al gruppo celtico, le cui testimonianze più antiche, di fine VII- prima metà del VI secolo a.C., provengono dall’area “golasecchiana” dal territorio compreso tra gli
insediamenti protourbani di Castelletto Ticino – Sesto Calende – Golasecca. Da qui, con tre piccoli vasi di impasto inscritti rinvenuti a Sesto Calende (una coppa e un bicchiere) e a Castelletto Ticino (un bicchiere) comincia la storia dei Celti, giacché un popolo si manifesta nella sua esistenza e identità quando ci parla, sia pure con la modestia di un messaggio di poche parole. Celti che in seguito, designati come Leponzi e Galli, progredirono eccezionalmente in tutti gli ambiti civili a cominciare proprio dalla scrittura che divenne addirittura monumentale come nel caso della straordinaria stele di Vergiate. Ciò è potuto avvenire grazie ai costanti e intensi scambi commerciali e culturali con la vicina area etrusca dalla quale deriva l’alfabeto in uso in questi antichissimi manufatti.
La stele leponzia di Vergiate, con iscrizione sinistrorsa entro rotaie a ominide, della fine del VI-inizi del V secolo a.C., oltre a testimoniare la presenza di un’aristocrazia golasecchiana, dimostra, insieme alla notevole qualità di realizzazione del testo, l’elevato grado di specializzazione di lapicidi locali. Significato:  Teu ha costruito/fatto costruire il monumento di Pelkui; Isos ha fatto ed eretto la stele iscritta.
Teu è un nome che esprime la devozione antica verso una divinità maschile corrispondente al dio greco Zeus; Pelkui è un nome confacente a uomini dediti all’esercizio delle armi, dunque verosimilmente appartenente a una élite guerriera”.
La civiltà di Golasecca, prende il nome dal centro lombardo omonimo, sulla riva sinistra del Ticino ed è un complesso culturale dell’età del ferro della Val Padana Centrale, fiorito dall’VIII secolo a.C. fino alla romanizzazione. È caratterizzata ed evidenziata dal copioso materiale rinvenuto nella grande necropoli detta, appunto, di Golasecca, costituta da migliaia di tombe in massima parte ad incinerazione, distribuite su un vasto territorio ai due lati del Ticino, un po’ a sud della sua uscita dal Lago Maggiore. 
Dopo la fase più arcaica, vengono distinti vari momenti successivi che si differenziano per tipologia dei prodotti ceramici e motivi decorativi. Nel Golasecca I sono tipiche le urne cinerarie a globo con ornamenti incisi a denti di lupo. Il Golasecca II si distingue per le urne e i vasi situliformi, anche di influenza atestina, a stralucido e da quella stampigliata, determinata dai villanoviani. Il Golasecca III, più recente appartiene alla fase storica, e vede prevalere il rito inumatorio, nettamente, sul precedente della cremazione. 
È, appunto, la Stele incisa in una lingua “nuova”, fatta di etrusco e celta, probabilmente testimone di una lega culturale che avrà portato certamente a proficui scambi commerciali e a penetrazioni verso nord, probabilmente anche in territori cosiddetti “germanici”, per una espansione etrusca inimmaginabile, prima dei recenti studi e conseguenti scoperte. Altro che Mantua, lo sguardo dei Tirreni è andato oltre, fino a chissà dove…
Un altro apporto per la cortesia del Dott. Matteo Scaltritti, Presidente della Società Gallaratese per gli Studi Patri, che ci ha inviato questo testo di Raffaele C. de Marinis, “Alle origini di Varese e del suo territorio”: “Nel febbraio 1913 in un fondo di proprietà Guglielmo Balzarini posto nelle vicinanze della chiesetta di San Gallo di Ronchi, minuscolo comune di Vergiate, fu occasionalmente rinvenuto alla profondità di 80 cm dal piano di campagna un lastrone di micascisto di colore grigiastro …. Venne alla luce una fossa di 2x0.6m piena di cocci di anfore e di tegole e verso il fondo la stele con l’iscrizione. Subito accanto verso ovest sarebbe stato portato alla luce un acciottolato. La zona del ritrovamento era lambita da un ruscello, la cui sorgente si trova a breve distanza dalla chiesetta. Quindi non vi possono essere dubbi sul fatto che la stele sia stata rinvenuta in giacitura secondaria, ma il luogo in cui originariamente era eretta non deve essere stato molto distante dal prato a valle della chiesetta di S. Gallo.
Lo studente Giorgio Nicodemi di Gallarate – futuro direttore dei musei di Brescia e poi soprintendente capo agli archivi e ai musei del Castello Sforzesco di Milano – riuscì a far donare la stele alla società Gallaratese di Studi Patrii, nella cui sede venne trasportata. Prima del trasporto, durante il quale la parte iscritta della stele subì dei danni, il Nicodemi aveva fatto due apografi, mentre altri due ne fece successivamente, tutti poi trasmessi assieme a due fotografie. In seguito, nel 1914, probabilmente per disposizione del soprintendente Giovanni Patroni, la stele fu trasferita al Museo Archeologico del Castello Sforzesco di Milano e in questa occasione venne eseguito il calco tuttora conservato al Museo di Gallarate… 
Il lastrone, lungo 2,23 e largo 0,70 m, ha una spessore di circa 23 cm e presenta una lacuna nella parte inferiore del lato sinistro. Reca un’iscrizione in alfabeto di Lugano racchiusa tra due rotaie ripiegate a U. Si tratta senza dubbio di una stele sepolcrale, come dimostra anche il contenuto stesso dell’iscrizione, e doveva essere infissa in posizione verticale nel terreno, forse in cima a un tumulo. Il fatto che sul monte Ferrera e sull’adiacente monte Bonella fossero presenti recinti funerari di un tipo frequente nel VIII – VII secolo a.C., lascia fondatamente presumere che lungo le pendici vi fossero nuclei di tombe di età più recente (Golasecca II, VI secolo a.C.. Dopo la prima edizione di E. Lattes, l’iscrizione fu studiata dai più importanti linguisti che si interessavano alle cosiddette iscrizioni leponzie, da J.Rhys a J. Whatmough. In epoca più recente fu ripresa e commentata da V. Pisani, M.G. Tibiletti Bruno e M. Lejeune). 
La datazione attribuita alla stele in tutti questi studi è molto bassa, verso il II – I secolo a.C..In un memorabile studio apparso nel 1988, Giovanni Colonna affermava decisamente che la stele di Vergiate doveva essere collocata all’inizio della serie delle iscrizioni leponzie su stele di pietra, anziché alla fine e metteva in evidenza da dove e per quali vie provenivano i modelli culturali all’origine di questo monumento. La tipologia della stele funeraria con iscrizione piegata a ferro di cavallo compresa entro rotaie è tipica dell’Etruria settentrionale, in particolare dell’area senese-volterrana, in età orientalizzante. Da qui il modello è arrivato da una parte a Busca nel Piemonte meridionale, dall’altra nel cuore della civiltà di Golasecca a Vergiate. Tuttavia, G. Colonna datava la stele al IV secolo a.C., ritenendo che soltanto a partire da quell’epoca si fosse affermato nell’alfabeto leponzio il sigma a tre tratti. In seguito, chi scrive, ha dimostrato che il sigma a tre tratti era già presente nell’alfabeto leponzio arcaico di VI e V secolo. Purtroppo per molti anni nel secondo dopoguerra è rimasta abbandonata nei sotterranei del Castello Sforzesco in posizione orizzontale …. Chi scrive l’ha potuta osservare in queste condizioni verso la metà degli anni’60. La superficie iscritta, già di lettura non sempre agevole in alcuni punti, ha subito un grave ulteriore deterioramento. 
A causa delle difficoltà di lettura di alcuni segni lungo il lato sinistro, che era già parzialmente rovinato fin dal momento della scoperta come appare anche dal calco, sono state proposte letture leggermente divergenti, in questa sede accoglieremo la proposta di Filippo Motta (2000), basata su un rilievo pubblicato da chi scrive: ‘pelkui: pruiam: teu: kharite: išos: kharite: palam’ L'iscrizione presenta due proposizioni paratattiche che hanno in comune “kharite” il predicato, “pelkui” è un dativo singolare in –ui che indica il dedicatario, Pelkos o meglio Belgos (cfr. l’etnico belgae). “teu” è il soggetto di un tema in –on (teon-), e “pruiam” l’oggetto della prima proposizione. Karite è un verbo di III persona singolare, la cui radice indo-europea ker- si ritrova nel sanscrito, nel lituano, nell’antico scandinavo e nel latino (cfr. It. Cr-eo), il suo significato è “fare”, “costruire”. Pruiam è stato avvicinato al germanico bruuio- > bruggio- e al gallico briva, col significato originario di costruzione in tavole di legno, poi anche di ponte (cfr. ted. Brücke). Quindi potrebbe indicare una camera funeraria formata da tavole di legno. Nella seconda proposizione il soggetto è un pronome, di nuovo išos < itsos < istos, ‘egli stesso’, l’oggetto è palam, termine ricorrente nelle iscrizioni leponzie su stele di pietra nella zona di Lugano e indicante la stele sepolcrale. Pala appartiene al lessico pre-indoeuropeo ed è stato incorporato nella lingua celtica delle iscrizioni leponzie.
Quindi la traduzione dell’iscrizione potrebbe essere: ‘ Belgo Sepulcrum Teos fecit, ipse fecit stelam’, Teo ha fatto la tomba per Belgos, lo stesso ha fatto la stele.”
Se per caso, vi trovaste in difficoltà, nessuna paura: la paratassi è la disposizione di proposizioni in rapporto di coordinazione. Si dice perciò paratattico di proposizioni unite da un rapporto, appunto, di paratassi…
Come vedete, cari Lettori, c’è da scegliere fra varie proposte di lettura; ma ciò che conta, secondo il nostro modesto parere, è la grandissima importanza di questo monumento, che, come dicevamo, getta luce nuova sui movimenti delle genti di 2500 anni fa per l’Europa, fino a conoscere i costumi e i riti delle popolazioni che una manciata di secoli dopo, a loro volta, sono scesi verso la nostra penisola, portando, anche con la forza delle loro armi, i loro costumi e le loro abitudini. 
Come dice qualcuno, il fuoco che brucia il bosco, poi porta nuova vita e nuovi germogli.
Visto che li abbiamo nominati, sarà il caso di dire qualche parola suiCelti, che certo non demeritano nel contesto. Anche se, come sempre dichiariamo, in modo estremamente divulgativo e senza pretese… 
È il nome di un gruppo di popoli che i Romani chiamavano Galli e che parlavano una lingua indoeuropea avente qualche affinità con quelle italiche.
Sembra che abbiano cominciato a distinguersi verso il II millennio in uno spazio geografico tra Reno e Danubio. In seguito, intorno all’800, o poco dopo, gruppi che possiamo chiamare Protocelti, erano in contatto commerciale attraverso i Balcani e le Alpi: nuove tecniche, mode, forme vascolari e metallurgia del ferro importate dall’Italia e dal Vicino Oriente. Interessante che tale zona era già indicata da Erodoto come terra dei Keltói. 
Successivamente il 500 a.C. li vide nella massima espansione di vitalità; da allora fu un continuo spostarsi e insediarsi verso il Sud europeo, a macchia d’olio verso le Gallie, la penisola iberica, l’Italia settentrionale – Gallia Cisalpina –, fino alla Emilia Romagna, poi in epoche successive, verso il centro della penisola, con epiche battaglie, contrastati dalla nascente potenza romana.
Altrove invasero le zone del Danubio, verso l’attuale Belgrado; si spinsero in Tracia e si riversarono in Asia Minore. Ma la loro debolezza, che poi li portò alla rapida decadenza, fu la mancanza assoluta di coesione, la mancanza dell’idea di Stato, che divenne addirittura indifferenza tra le stirpi che inizialmente avevano portato almeno ad un ideale di popolo, di razza.
Sconfitti ovunque, anche gravemente, nelle terre conquistate, e allontanati progressivamente dalle loro terre di origine dai Germani, stretti da più fuochi, dovettero sottomettersi, quasi tutti, alla Pax Romana.
Abili nei secoli ad assimilare alcune arti di Etruschi, Greci e Romani, e, secondo questi ultimi, inventori della botte, eccelsero come fabbri e ceramisti: molti centri celtici esportavano pentolame di bronzo e vasellame sullo stile ed in concorrenza con la tipologia vascolare aretina, famosa in tutto il mondo antico. Potete vedere qua e là nell’articolo immagini di alcuni lavori, compresa quella di una moneta.
Notevole fu anche il loro sentimento religioso, ne è prova la grande assemblea che si teneva in Gallia organizzata dai Druidi ed osteggiata dai conquistatori Romani per quell’aria di fronda rivoluzionaria che sempre prende nelle cerimonie di unità religiosa e nazionalistica. 
Ed ora, come spesso diciamo, basta: chi ne volesse sapere di più consulti i numerosi testi in proposito, senza tralasciare, sarebbe un peccato, quelli che vi indicheremo qui sotto.
Bibliografia indispensabile: 
Daria Giuseppina Banchieri 2003, Antiche testimonianze del territorio varesino, pp 280, 339 e seguenti; figg 145, 160 Macchione Editore, Azzate (Varese).
Alessandro Morandi 2004, Epigrafia e lingua, in Popoli e Civiltà dell’Italia Antica, vol.12, Tomo II, pp. 595, 596, Roma 
R.C. De Marinis, S. Massa, M. Pizzo, 2009, Alle origini di Varese e del suo territorio, L'Erma di Bretschneider, Roma.
Alessandro Morandi 2012, La più antica epigrafia vascolare celtica, testo del pannello esposto in sala 9, Museo.
La stele di Vergiate si trova a Varese nel Museo Civico Archeologico di Villa Mirabello. A Gallarate, nel Museo della Società Gallaratese per gli Studi Patri, si trova invece il calco.
Ringraziamenti. Desideriamo innanzi tutto ricordare il Dott. Matteo Scaltritti, Presidente della Società Gallaratese per gli Studi Patri, che, con le sue indicazioni e la sua documentazione, ci ha messo nella giusta direzione, verso Villa Mirabello a Varese, dove la Dott.ssa Daria Giuseppina Banchieri, Conservatore del Museo, pur con la mole di lavoro da svolgere, non ha trascurato le nostre richieste mettendoci in condizioni di portare a termine la trentunesima chicca. Due Studiosi che con il loro sapere ci hanno permesso di aprire una finestra su un mondo antico, forse poco indagato a livello nazionale. Grazie ancora e a futuri proficui contatti, con Loro e con le Istituzioni che rappresentano.
Le immagini della Sede varesina e della stele sono una concessione del Museo, foto Lucina Caramella; le altre una scelta redazionale. Il disegno della Stele e il calco fanno parte della pubblicazione Alle origini di Varese e del suo territorio di De Marinis, Mazza e Pizzo, Roma, 2009, L'Erma di Bretschneider; quello del titolo è di Sergio Murli.

Conclusioni. Ancora una volta, pur con affanno, mettiamo in rete nei tempi previsti: il merito è anche di chi ci coadiuva e, in modo particolare, della prof.ssa Patrizia Vallone, con passione e rispetto assoluti verso i nostri Avi. Ricordiamo che la nostra piccola opera, è volta ad incuriosire ed interessare il lettore distratto con uno scritto di mera divulgazione che lo avvicini alle bellezze spesso poco conosciute del nostro Territorio; chiedendo venia delle inesattezze.
Diamo appuntamento alla prossima chicca, senza dimenticare il volere di Chi sta lassù.

Fonte: http://www.cittamese.it/cultura/978-archeochicca-xxxi-etruschi-oltre-mantua

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