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domenica 15 novembre 2015

Necropoli a tumulo: I monumentali sepolcri della Sardegna preistorica e protostorica.

I monumentali sepolcri della Sardegna preistorica e protostorica.
di Fulvia Lo Schiavo, Mauro Perra e Angela Antona



La Sardegna, inserita con la Sicilia nel quadro dell’Italia insulare e dell’Europa continentale, si è avvantaggiata delle animate discussioni seguite alle prime due giornate dei lavori. In premessa va precisato che se la prima definizione, che rispetta la natura di grande isola, si attaglia ad ambedue le realtà perfettamente, molto più di quella amministrativa di »Italia meridionale«, i riferimenti archeologici vanno istituiti con il mondo mediterraneo, più che con quello centreuropeo, con il quale in realtà è difficile trovare, per l’antichità, dei punti di contatto non casuali, soprattutto se dall’ambito centreuropeo si differenzia la penisola iberica, che del mondo mediterraneo costituisce il caposaldo occidentale e che con la Sardegna ha molteplici e consolidati legami.
Collocata come si trova al centro del Mediterraneo centro-occidentale, la Sardegna è ormai stata riconosciuta come una pietra miliare per tutte le rotte dall’E e dall’O, e per una sua compiuta ed approfondita valutazione non è possibile fare a meno dei riscontri in
ambedue le direzioni: infatti, in ogni circostanza emerge con chiarezza che l’assoluta originalità delle soluzioni che si ritrovano nella Sardegna antica, sono frutto di scelte che dimostrano la conoscenza dei fatti transmarini, e la non adozione, o adozione parziale in minimo o in massimo grado, avviene sempre attraverso il filtro della specificità isolana, dove »isola«, naturalmente, non significa »isolamento«, ma, al contrario, stretta connessione.
Tumuli in Sardegna
di Fulvia Lo Schiavo

Come punto di partenza, scegliamo la definizione di »tumulo« data nel corso dell’intervento di G. Leopardi e M. Cupitò:
»... Per »tumulo« si deve intendere una struttura funeraria costituita da un notevole apporto artificiale di materiali sedimentari, come pietre, ghiaia, terra, accumulati a formare un grande cono, una collinetta, di forma circolare o subcircolare, a volte arricchito da strutture perimetrali, tipo la crepidine, e che ha come caratteristica la monumentalità e la visibilità a distanza. In breve, intendiamo per »tumulo« una struttura monumentale funeraria atta a coprire, quindi contemporaneamente a occultare e a evidenziare, una deposizione sepolcrale, indipendentemente dal fatto che si tratti di una tomba a camera, o di una o più tombe a fossa, a cassetta, ecc.«.
Se dunque si conviene su questo significato, allora in Sardegna dei »tumuli« sono esistiti – forse – solo nel Neolitico della Gallura, e si veda al riguardo il contributo di A. Antona. A questo proposito sarebbe stato fondamentale un inquadramento del fenomeno nell’intera isola, basato su dati di scavo ed osservazioni recenti ed approfondite: il contenuto di questo breve contributo avrebbe dovuto essere quello di creare una sorta di tessuto connettivo fra le esperienze galluresi (A. Antona) e quelle
della costa orientale (M. Perra), in un arco cronologico dal Neolitico all’Età del Bronzo. Il fatto è, però, che per i monumenti scavati e pubblicati – sempre parzialmente – in passato, i dati dei quali disponiamo sono lacunosi e la presenza di un tumulo, anche quando ipotizzabile, non è più in nessun modo dimostrabile. Per gli scavi recenti – e il fatto è ancor più deplorevole – l’inedito fa premio sull’edito. Si tenterà comunque di esporre alcune considerazioni generali, in base alle quali ricercare e valutare i dati archeologici in nostro possesso.
La preistoria
Il concetto di sepolture monumentali e di »visibilità« del sepolcro è ovunque legato a quello di visibilità della morte e del morto, da vivo: in Sardegna, in particolare, l’importanza, l’enfatizzazione del ruolo sociale del defunto si traduce sempre – per quanto conosciamo finora senza eccezioni, salvo forse il »caso Gallura« – in quello del ruolo del gruppo sociale di riferimento. Infatti non esistono sepolture individuali se non in tombe collettive nel più pieno senso del termine, cioè non con una deposizione più importante, circondata da altre in posizione subordinata. Si ha un unico sepolcro, più o meno articolato nel suo interno ma eminente ed emergente nel suo insieme, dove i defunti, appartenenti ad un gruppo parentelare o sociale, vengono deposti senza distinzioni di sesso o di età e soprattutto – per quanto possiamo giudicare dai dati di scavo – rimossi ed accumulati a far luogo alle deposizioni successive. Dunque la visibilità del sepolcro, che è la prima delle funzionalità identificate nel concetto di tumulo, vale non per il singolo ma per il gruppo, e questo talvolta per secoli.
Le »domus de janas« (ovvero grotticelle artificiali) che costituiscono la forma più caratteristica di sepolcri della Sardegna, a partire dal Neolitico Medio avanzato di S. Ciriaco a Cuccuru Arrìus di Cabras (Oristano), fino alla Prima Età del Bronzo di Bonnanaro, ma con prosecuzione di uso talvolta fino all’età nuragica, sono tombe collettive ipogeiche, raggruppate in necropoli spesso in gran numero, delle quali sempre più spesso – per lo più in scavi recenti – si sta scoprendo l’esistenza di una serie di apprestamenti esterni. Particolare attenzione, nei suoi studi sulle domus de janas, G. M. Demartis l’ha dedicata agli esterni: nella Nurra ha puntualmente rintracciato elementi funzionali, come ad esempio canali di scolo, tacche e »pedarole «, eccetera, ed elementi legati alla sfera religiosa, sia incavati nella roccia di base, come fossette o cuppelle, sia monumenti eretti, come pietre fitte, recinti, lastre disposte a trilite. In taluni casi, la commistione di funzioni pratiche e rituali è evidente, così come la fusione di ideologie religiose di matrice ipogeica e megalitica: si pensi, fra gli altri, agli esempi della tomba dell’Architettura Dipinta o di S’Incantu a Monte Siseri, Putifigari, alla tomba I di Santa Ittoria, Ittiri, alla sistemazione complessiva della intera necropoli di Puttu Còdinu, Villanova Monteleone. A maggior ragione il discorso vale per i veri e propri corridoi dolmenici, già in passato osservati e studiati a partire dal territorio di Dorgali e per tutta la Sardegna.
Anche i dolmen risultano impiegati collettivamente, talvolta per un lungo periodo di tempo. Le ultime ricerche confermano non di rado il raggruppamento di più di un sepolcro in un ristretto ambito territoriale. La presenza del tumulo, mai conservato in modo soddisfacente, può essere indiziata dalla presenza di un peristalite, o da tracce residue di pietrame, o dalla stessa organizzazione del terreno9. B. D’Arragon, che ha analizzato sistematicamente gli elementi cultuali: coppelle, vaschette, canalette, fori passanti e nicchie, e gli elementi architettonici secondari: recinti megalitici, peristaliti, tumuli, corridoi e suddivisioni spaziali interne, osserva che molti dolmen presentano un peristalite, mentre pochissimi hanno conservato traccia del tumulo, per cui è possibile che il peristalite avesse una funzione ambivalente, tecnica quando conteneva il tumulo, e religiosa quando fungeva semplicemente da delimitazione sacra fra l’ambito dei vivi e quello dei defunti.
Si può ragionevolmente ipotizzare che, quando esistente, il tumulo raggiungesse ma non coprisse il lastrone di copertura, costituendo non un monumento in sè e per sè, ma un supporto, un complemento alla monumentalità della tomba. È interessante ricordare che nei due soli casi di elementi decorativi presenti sugli oltre 100 dolmen conosciuti finora in Sardegna – Serrese di Sindìa e Crastu Coveccadu di Torralba – questi si trovino sul lastrone di copertura, dunque a maggior ragione il tumulo, qualora, nel caso del dolmen di Torralba, fosse esistito, non doveva obliterarli, anche se in tal modo la visione ne venisse consentita solo alla divinità.
Lo stesso celebre dolmen di Motorra, Dorgali, circondato da un doppio peristalite, ma con la struttura
»esterna« alquanto anomala, con un andamento »a lunetta«, non ha conservato alcuna traccia dell’eventuale tumulo, a differenza del dolmen di Monte Longu, situato sempre nel Dorgalese ma a SE del paese, dove »... tutto all’intorno il terreno è cosparso di piccole pietre di sfaldamento ...« »... probabilmente in origine questo ghiaione doveva costituire il tumulo della sepoltura, avendo come rincalzo non un peristalite ma i picchi naturali che si elevano intorno alle fiancate del monumento e che per la loro vicinanza alla costruzione, che appare compresa fra essi, potevano costituire un valido sostegno«. Ne consegue che alcuni dolmen di particolare monumentalità e raffinatezza strutturale, come il dolmen di Sa Coveccada di Mores, scoperto e senza tumulo, avessero una »vista« esterna, fossero cioè costruiti in modo che l’esterno della struttura litica della camera fosse ben visibile.
La visibilità dei dolmen, già soddisfacente nel caso delle strutture più grandi, doveva essere sottolineata dallo svettare dei menhir lì presso o di altre strutture deperibili, esattamente come si è osservato per le necropoli ipogeiche. Non avendo ancora stabilito un grado di riferimento sufficiente fra insediamento e necropoli – sia essa ipogeica o megalitica – riesce ancora difficile istituire delle relazioni fra questi due tipi di seppellimento contemporanei (almeno dal Neolitico Tardo alla Prima Età del Bronzo), ambedue inumatori quanto al rito, ambedue collettivi, ambedue collegati ad un forte impegno di forza-lavoro e dunque necessariamente riflettenti l’organizzazione sociale che li costruiva e che ne determinava l’uso.
La conferma è data dall’esistenza di forme miste ipogeico/megalitiche, che dimostrano ancora una volta – se ce ne fosse bisogno – che la cristallizzazione di categorie come »ipogeismo« e »megalitismo« è solo dovuta alle lacunose conoscenze ed imperfette ricostruzioni attuali. Un »rotondo peristalite di base a filaretti trachitici«, ad esempio, circonda la tomba a circolo di Masone Perdu di Laconi, dove l’ingresso è segnato da un menhir. E’ dunque legittimo ipotizzare che gli elementi di visibilità che si possono rintracciare per i dolmen, ad esempio il tumulo, possano essere ricercati in buona misura anche in riferimento alle necropoli ipogeiche e, reciprocamente, apprestamenti e sistemazioni riscontrate nell’ambito di necropoli ipogeiche, nonchè strutture di segnacolo piccole e grandi, come i menhir, le pietre fitte, i menhir protoantropomorfi ed antropomorfi, le statue-menhir e le stele, vadano legittimamente ipotizzate anche nelle vicinanze di necropoli megalitiche, tanto preistoriche che, più tardi, protostoriche.
Nella generale carenza di dati, causata in tempi recenti da spietramenti e sistematici sbancamenti di larga parte del territorio isolano, vi sono però alcuni esempi che costituiscono delle conferme eccezionali di queste ipotesi. Il migliore è il santuario megalitico di Goni nella Sardegna centromeridionale, purtroppo non ancora integralmente pubblicato, anzi noto solo da relazioni preliminari. Per Goni, E. Atzeni parla di circoli tombali che rivelano la trasposizione in superfice di schemi planimetrici ipogeici che »sotto i grandi tumuli a peristaliti rotondeggianti talora a gradini di paramento a più ordini concentrici«, presentano al centro ciste o camere, scavate in un unico masso o costruite con filari di blocchi. Ancora una volta, quello che appare è un’architettura costruita ad arte, monumentale di suo ed enfatizzata dalla presenza dei grandi menhir, ma apparentemente non destinata ad essere sepolta da una ingente massa di terra e pietrame, ma al massimo – e limitatamente alle strutture esternamente più rozze – fiancheggiata e sostenuta lateralmente.
Dunque, la monumentalità del sepolcro che in altri ambienti è rappresentata dalla massa del tumulo, in Sardegna è garantita da elaborate strutture megalitiche ed ipogeiche, in un ipogeismo riccamente ornato e riproducente le architetture esterne, quasi che, ben lungi dal coprire, obliterare, seppellire, l’intento fosse quello di creare una osmosi fra l’interno e l’esterno, proiettandola all’infinito verso le divinità celesti.
Se si ritiene importante insistere qui sugli indizi di affinità di rituale megalitico ed ipogeico in tutta la Sardegna preistorica, è anche per tentare di spiegare come accada che nel periodo successivo della piena Età del Bronzo, con la civiltà nuragica, si assista al forte e deliberato recupero di questa base di affinità, con l’elaborazione e l’adozione di un modello generalmente uniforme e, pur nelle varianti tipologiche zonali e cronologiche, universalmente diffuso: la »tomba di giganti«. Con le tombe di giganti, ritroviamo tombe collettive, spesso raccolte da due a sei, non necessariamente nelle immediate vicinanze dell’insediamento, ma sempre di grandiosa visibilità e monumentalità. Soprattutto
nelle forme più antiche, la grande stele centinata svettava al di sopra della camera, delimitata da crepidine e, qualora coperta da tumulo, esso doveva avere dimensioni confrontabili a quello che si può ipotizzare intorno ai dolmen, dunque non »di copertura«, ma di accentuazione di monumentalità e visibilità. In realtà, questa impressione di avere a che fare con giganti deriva già dalle colossali lastre dell’esedra, disposte a semicerchio e di dimensioni scalari, disposte a creare una fronte colossale ed imponente ed una »immagine« tale da incutere riverenza e rispetto. Sull’argomento specifico della ricostruzione dell’elevato delle tombe di giganti, vi sono state accese discussioni ed E. Contu, in particolare, nega recisamente che si possa anche solo usare il termine di »tumulo« da lui definito »improprio«, in quanto ciò che completa l’inclinazione naturale del profilo nella parte superiore esterna del monumento va piuttosto denominato »colmo«. La prova di questa affermazione sarebbe costituita, in primo luogo, dalla tomba monolitica di Su Campu Lontanu di Florinas, che riproduce sulla fronte la stele centinata, mentre la parte superiore è arrotondata a botte; la sua singolarità è dovuta al fatto che la tomba è costituita da un unico masso erratico, isolato spettacolarmente in un campo; ma di tombe singole con camera scavata nella roccia e stele centinata scolpita sulla facciata ve ne sono altre: ad esempio Sas Puntas, Tissi; Molafà, Sassari; Ittiari, Osilo, ed altre che si vanno scoprendo di continuo, talora piuttosto mal conservate, sulle bancate di calcare del Sassarese.



















Quale dovesse essere l’effetto dell’insieme, possiamo giudicare, sempre nel Sassarese, dalle necropoli di tombe con prospetto architettonico, in alcuni casi affiancate e coperte con volta a botte, come nello spettacolare caso della serie delle tombe di Ittiari, Osilo, ciascuna sormontata da una sorta di tumulo allungato scolpito nella roccia e con stele centinata sulla fronte. Dunque, tanto nelle tombe di giganti quanto nella loro trasposizione scolpita nella roccia, non si ha un vero e proprio tumulo, ma una tomba monumentale, strutturata in una camera sepolcrale, funzionale all’accumulo delle deposizioni, ed in un’area esterna cerimoniale, funzionale allo svolgimento dei riti collettivi. Si è usato questo termine di »accumulo« per indicare il risultato delle ultime ricerche archeologiche ed antropologiche sulle deposizioni nelle tombe di giganti, che hanno mostrato che i corpi venivano calati dall’alto e deposti ordinatamente, in connessione anatomica, a file ed a strati spesso di qualche centinaio di individui. Il fatto è stato accertato, anche se per ora i casi in studio sono pochi, in tutta l’Isola, da Serrenti nel Cagliaritano (Ugas 1993, 103-115) e dall’Oristanese (Ugas 1990a) fino in Gallura (Tedde 1994).
Dunque in ogni parte, la »collettività«, il gruppo sociale, è quello che appare, soverchiando e cancellando la nozione del singolo e della sua individualità, che non si concretizza neanche in un corredo personale a lui destinato.
Una questione sempre sconvolgente, nello studio della protostoria della Sardegna, è l’assenza di un vero e proprio corredo, come quelli che sono ampiamente ed universalmente documentati nel mondo coevo. Infatti, oltre che mancare le sepolture
individuali salvo che, in pochissimi casi, alla fine dell’età nuragica, all’interno delle tombe collettive il corredo personale era praticamente assente, soprattutto gli oggetti di pregio: un buon esempio è offerto dal »Sepolcro dei Trecento«, dove, pur essendo presente un sigillo cilindrico di olivina (Ugas 1993, 107), esso è talmente usurato da non essere quasi più leggibile, quindi forse deposto nella tomba come grano di collana o elemento decorativo, più che come simbolo di rango sociale
e di prestigio.
Anche nelle tombe di giganti sono presenti soluzioni intermedie fra l’ipogeico ed il megalitico: fra le prime la tomba di Aiodda, Nurallao, con camera infossata e struttura a filari costituiti da statue-menhir reimpiegate come materiale da costruzione; all’esterno essa appare delimitata da un tumulo, funzionale alla copertura del lungo vano sepolcrale fino alla sommità. Parallele nella resa ad effetto delle domus con facciata a stele centinata del Sassarese sono diverse tombe di giganti del meridione dell’Isola, costruite in opera poligonale, ad esempio la celebre Sa Domu ‘e S’Orku di Quartucciu. Gli studi attualmente in corso, per la fase delicatissima per la formazione della struttura socioeconomica propriamente nuragica, relativi specificatamente all’età del Bronzo Recente, hanno constatato che: »Le grandi tombe di giganti del BM sono ancora in uso anche come marcatori del territorio, insieme o in alternanza o addirittura in sostituzione del nuraghe, e ad esse se ne affiancano altre (da 2 a 6) a costituire delle vere e proprie necropoli, segno indiscutibile che questi monumenti funebri, destinati a rituali collettivi, svolgevano, da un capo all’altro dell’Isola, la precisa funzione di indicare insieme il possesso di suoli e la continuità dell’insediamento«.
Domina dunque l’»immagine« della tomba, in questo identica alla nozione di tumulo, anche se non costituito, come si diceva all’inizio »... da un notevole apporto artificiale di materiali sedimentari, come pietre, ghiaia, terra, accumulati a formare un grande cono, una collinetta, di forma circolare o subcircolare.«Per concludere questo excursus generale, corre l’obbligo di menzionare l’unico manufatto in Sardegna che – sulla base della descrizione stessa dell’autore di una parte dello scavo – potrebbe corrispondere alla definizione accettata all’inizio di tumulo, se si eccettua lo sviluppo in altezza, che certamente non si è conservato: Monti Prama di Cabras, nel Sinis di Oristano. Lo scavo è purtroppo ancora inedito; la sommaria presentazione parla comunque di »un’ampia discarica« (in inglese »dump«). Le dimensioni complessive non sono indicate, ma dalla planimetria sembrerebbe di poter calcolare una lunghezza complessiva di una trentina di metri N-S per una larghezza dichiarata di 2 metri verso O. Questo »mucchio« è costituito di pietre medio-piccole di arenaria gessosa, frammiste alle quali sono stati riconosciuti circa 2000 frammenti di statue nuragiche, di betili, di modellini di nuraghi, di lastre e conci di arenaria, oltre a frammenti di bronzo e di ceramiche databili dall’età nuragica all’età romana; lo strato di pietre è a sua volta coperto di terra e tutta questa massa di terra e pietre copre per intero un sepolcreto, costituito di una fila isolata di 33 tombe a pozzetto intatte e coperte di lastre di pietra, contenenti inumazioni individuali di uomini, donne e bambini praticamente privi di corredo, mentre non si estende ad un sepolcreto simile, situato a pochi metri di distanza a N, del quale non si conosce l’entità. I dati forniti non sono per ora sufficienti a chiarire se la »discarica« sia da attribuire a un’esigenza pratica di livellamento del terreno – che nell’insieme si presenta invece alquanto mosso –, oppure ad un deliberato intento di dissacrare l’area cimeteriale – che invece ne è risultata efficacemente coperta –, oppure proprio a quest’ultimo scopo, cioè di proteggere e forse in origine anche di segnalare il luogo delle sepolture, che risulta delimitato
ai lati da alcune lastre disposte verticalmente. La cronologia del »mucchio« è data dal materiale ceramico mescolato ai frammenti delle statue nuragiche, ovvero orli di anfore puniche del IV-III. a.C. e coppette dello stesso periodo. Viene anche precisato che i dati di scavo hanno accertato che quando il »mucchio« di terra e pietre è stato accumulato, il sepolcreto – datato al tardo VII.a.C. per la presenza, fra l’altro, di un sigillo scaraboide nella tomba 25 – da molto tempo non era in uso.
Anche ammettendo la possibilità dell’ultima ipotesi, che si trattasse in origine di una deliberata protezione di sepolture mediante l’accumulo di pietre informi in una certa quantità, e dunque qualcosa di simile ad un tumulo – ipotesi che si propone qui per la prima volta ed in forma puramente tentativa – il caso di Monti Prama varrebbe solo a confermare la tesi che si è tentato di svolgere, cioè che la monumentalità del vero e proprio tumulo è estranea alla Sardegna preistorica e protostorica. Infatti questo unico caso possibile - anche se costituito di materiali assai più antichi, provenienti da un vicino santuario nuragico, da lungo tempo distrutto e dimenticato – è ormai di piena età storica, quando le ideologie religiose e la struttura sociale, con l’avvento, dall’esterno, di una civiltà urbana, erano profondamente mutati.

Tombe megalitiche e tumuli nel Bronzo in Sardegna centrale
di Mauro Perra

L’occasione delle riflessioni che seguiranno mi è stata offerta dallo scavo di due tombe di giganti nuragiche nel territorio di Lanusei in località Selèni, in Ogliastra, nella Sardegna centro-orientale.
Il complesso nuragico di Selèni comprende un nuraghe complesso circondato da un esteso agglomerato di capanne, due tombe di giganti e i resti di due fonti nuragiche, dislocati in un raggio di circa 500 metri. La cronologia si articola fra Bronzo Medio e Bronzo Finale (XIV-X a.C.). Le due strutture funerarie megalitiche, distanti circa 500 m a NNO del nuraghe, sono costruite in tecnica
isodoma, cioè utilizzando blocchi di granito locale preventivamente lavorati e posti in opera in modo che le connessure fra gli elementi lapidei siano perfettamente combacianti. Entrambe le strutture erano contenute da un tumulo che solo in parte, come vedremo, ne occultava il paramento. Esse non sono contemporanee e la loro costruzione ed utilizzo sono cronologicamente consecutivi. La tomba I risale al BM 3, avendo restituito un tegame decorato a pettine di tipo arcaico, una pisside con orlo a tesa inornato e varie scodelle e scodelloni. La tomba II di Selèni è invece riferibile al pieno BR. Tra i reperti fittili si contano numerose scodelle e scodelloni, un bicchiere, frammenti di diverse brocchette inornate e frammenti di un tegame decorato a pettine. Sebbene minoritari in percentuale sono stati recuperati reperti attestanti attardamenti nel BF. La tomba I, che supera gli 11 metri in lunghezza ed i 7,80 metri di larghezza, calcolando anche la sostruzione, è stata edificata adoperando blocchi ortostatici ben scolpiti nell’esedra e nella camera funeraria. Nella tomba II (m 12,30 di lungh. × 4,95 di largh.), distante appena 80 metri a Sud di Selèni I e disposta su di un leggero rilievo roccioso, la sostruzione riprende le tecniche sperimentate nella tomba I. Sul fianco destro del corpo tombale, sono evidenti i resti di un peristalite, ovvero di un filare di pietre allineate in funzione di contenimento del tumulo. Sul fianco sinistro si conservano ancora integri i resti del peristalite e del tumulo costituito da terra e piccoli ciottoli. La struttura a filari del corridoio funerario è composta da blocchi squadrati di granito, con faccia a vista a taglio obliquo e in aggetto dal terzo filare in su; analogamente la fronte della tomba è stata innalzata utilizzando la tecnica dei filari di pietre lavorate in tecnica isodoma. Nella fase dello scavo dell’area antistante l’esedra sono stati rinvenuti quattro conci lavorati il più grande dei quali, di forma troncopiramidale, è munito di tre fori nella base superiore. Si tratta di un concio terminale posizionato originariamente sul fastigio dell’esedra, sopra l’ingresso.
La base inferiore misura m 1.17, quella superiore m 0.92. L’altezza mediana è di m 0.65. Lo spessore di base misura m 0.41.
I tre fori misurano rispettivamente m 0.14 di diametro x 0.105 di profondità, m 0.14 × 0.11, m 0.15×0.125.
Altri 2 conci sono simili, anche se di dimensioni inferiori; il restante è una lastra/concio a riscontro fornita di tre incavi.
La lastra a riscontro è frammentaria e misura m 0.57-0.42 sui lati lunghi e m 0.42 sul lato breve residuo. Gli incavi sono
molto consunti ed irregolari. Misurano m 0.16-0.20 × 0.10 e m 0.11-0.20 × 0.115.
Una particolarità della tomba II è quella di conservare, nella parte terminale del corridoio, almeno tre elementi di copertura a piattabanda. Le due tombe si differenziano parzialmente sia nelle dimensioni sia nella tecnica costruttiva adottata. Nonostante talune palesi differenze, esse sono accomunate dal fatto di essere entrambe edificate su una larga sostruzione di base, occultata all’esterno da un parziale tumulo. In base all’analisi delle due strutture funerarie megalitiche del bosco di Selèni possiamo proporre quanto segue: le strutture visibili in tecnica isodoma si limitano al corridoio, al prospetto frontale e all’estradosso navetiforme, mentre i paramenti esterni con blocchi al naturale della sostruzione dovevano essere occultati dal »tumulo«; alcune osservazioni effettuate sullo specifico architettonico delle tombe di Lanusei possono essere estese ad altre tombe di giganti isolane, specialmente al tipo isodomo fornito di concio a dentelli; la presenza di un tumulo che solo parzialmente ricopriva le strutture è strettamente connessa al rituale della deposizione, così come proposto da A. Antona per la tomba di Pascaredda. Mi occuperò in questa sede principalmente degli ultimi due punti. In base ai dati offerti dalle indagini effettuate sulle tombe di giganti, possiamo ormai con buona attendibilità sostenere che esse sono tombe »collettive«, con rituale inumatorio a deposizione primaria. E. Contu ha calcolato che l’altezza media dei portelli d’ingresso delle oltre 500 tombe di giganti conosciute è di m 0.625, mentre la larghezza media è di m 0.488. Queste dimensioni, è palese, non sono tali da consentire un agevole svolgimento delle normali operazioni di deposizione degli inumati. Diversi autori ipotizzano una bipartizione delle strutture interne delle tombe di giganti, con un vano inferiore con specifica funzione di spazio sepolcrale ed un corridoio superiore con funzione di vano di scarico. Accolgo questa ipotesi per estenderne la funzionalità; un vano superiore sussidiario utilizzato per consentire l’accesso dall’alto alle nuove deposizioni. I conci a dentelli infatti mostrano un prospetto trapezoidale, con ampia base inferiore d’appoggio e una base superiore più ridotta e variata dalla presenza di quattro dentelli alternati a tre incavi ottenuti a taglio obliquo con inclinazione verso l’interno della camera. Generalmente, ai conci suddetti si accompagnano delle lastre fornite di incavi o fori a riscontro. Facendo combaciare conci dentellati e conci a riscontro se ne può ricostruire l’originaria postura in posizione terminale sopra il portello dell’esedra. Nella funzione pratica essi sostituiscono la parte superiore lunata delle stele centinate. La loro diffusione è particolarmente concentrata nell’Oristanese e nel Nuorese. La funzione dei conci a dentelli è stata indagata da quasi tutti gli studiosi coinvolti nella ricerca delle antichità nuragiche, sempre partendo dal presupposto che manufatti così perfettamente scolpiti dovessero avere un pregnante valore simbolico e, di conseguenza, essere in qualche modo esposti nella facciata della tomba. Per un corretto approccio alla soluzione del problema si rendeva necessario invece ridare loro quel valore di funzionalità pratica precedentemente negato. Secondo la mia interpretazione il sistema dei conci dentellati e del concio a riscontro, agevolerebbe, tramite l’utilizzo di pali in funzione di leve, il sollevamento e la temporanea asportazione di elementi di copertura e, di conseguenza, l’accesso al vano sussidiario superiore.
La funzionalità di tale espediente non è certamente sempre verificabile tramite osservazione diretta, poiché oggi quasi nessuna tomba di giganti del tipo isodomo conserva intatto l’estradosso.
Però ben tre conci con fori sono stati rinvenuti nella tomba II di Selèni. E’ possibile pertanto ipotizzare che essi fossero dislocati in diversi punti della copertura. E’ inoltre possibile ricostruire l’evoluzione del sistema a partire dalle tombe con stele centinata, la tipologia tombale più antica, risalenti alle fasi iniziali del BM. La necessità di escogitare una soluzione al problema della deposizione degli inumati all’interno del vano funerario era ovviamente sentita anche nelle fasi precedenti l’elaborazione del sistema di copertura applicato nelle tombe isodome. Tant’è che sulla sommità posteriore arcuata di alcune stele centinate di tipo evoluto, come Sa Pedra Longa di Uri, Puttu Oes di Macomer, S. Antine ‘e Campu di Sedilo e Iscrallozze C di Aidomaggiore, appaiono già i tre fori (Uri) o le tre scanalature (Macomer, Aidomaggiore e Sedilo).
La stele centinata della tomba di Iscrallozze ad Aidomaggiore, inedita, mi è stata segnalata con la consueta liberalità dall’amico e collega dr. A. Usai della Soprintendenza Archeologica per le Province di Cagliari ed Oristano. Si tratta di una tomba più volte manomessa dai clandestini. Il corridoio funerario, ad ortostati di base e filari irregolari sovrapposti a leggero aggetto, in basalto, è di sezione sub-trapezoidale. Misura m 8 circa di lunghezza, m 2 di altezza massima sull’attuale riempimento, m 1.53 di larghezza massima all’ingresso, che si restringono a m 0.96 alla testata. Sul fondo si conservano due lastroni sovrapposti di copertura a piattabanda. Sulla destra per chi entra, appena oltre il breve corridoio d’accesso, si trova uno stipetto scavato nel lastrone che rinfianca il corridoio, a m 0,64 di altezza sul colmaticcio. Ha forma di semicerchio con base di m 0.5, altezza m 0.36 e profondità massima di m 0.19. La stele centinata è stata spezzata in più punti dalle recenti manomissioni. Il frammento sommitale (m 0.9 di larghezza × m 0.58 di altezza residue) ad arco di cerchio è piuttosto rovinato, ma conserva in parte la cornice in rilievo sul prospetto e, nella faccia posteriore, i resti di due incavi e due dentelli, mentre il terzo incavo è fratturato. L’incavo centrale è l’unico perfettamente conservato; misura m 0.13 di corda ×m 0.6 di freccia. La scanalatura, a taglio obliquo rispetto al prospetto centinato, misura m 0.9 di profondità.
Possiamo considerare questi esemplari come i veri e propri prototipi dei conci trapezoidali e dentellati. Stessa funzione potrebbero avere avuto le stele centinate bilitiche quali ad es. Nuscadore, Pardu Làssia e Sa Perda ‘e S’Altare di Bìrori, di Castigadu s’Altare di Macomer, di Murartu, Zanchia e Pedras Doladas I di Silanus, di Uana di Dualchi, Coddu Vecchiu di Arzachena ecc. In tale frangente l’ingresso al vano superiore sarebbe stato condizionato dall’asportazione preventiva della lunetta superiore della stele.
Le carte di diffusione dei tipi tombali in questione evidenziano alcune singolarità. Nel solo centronord dell’isola si può parlare, senza soluzione di continuità fra BM e BR, di un rituale funerario che prevede la deposizione dall’alto e una serie di soluzioni tecniche nell’ambito dell’architettura isodoma, quali il tumulo parziale, il vano sussidiario, le stele centinate con scanalature o fori, i conci troncopiramidali con lastra a riscontro e i conci dentellati. Nel Sud è documentata un’architettura a filari monumentale e, in ogni caso non vi sono strutture funerarie isodome, né tumuli. E’ la spia di differenziazioni locali relative ad un rituale funerario peculiare della Sardegna centro-settentrionale, forse collegato ad una più »forte« ideologia del culto degli antenati e ad una più sentita esigenza di radicamento territoriale. Le attente prospezioni nei paesaggi della Sardegna dell’interno effettuate in questi ultimi anni nei territori del Marghine-Planargia, della Barbagia Mandrolisai ecc., confermano il valore di marcatore territoriale affidato alle tombe megalitiche nuragiche. Laddove i monumenti turriti sono più rarefatti e più semplici sono le strutture, in genere, le tombe di giganti sono molto più evidenti, monumentali e fornite di elementi architettonici di spicco. Sembra che la parabola delle tombe di giganti si concluda nel Bronzo Finale, epoca nella quale scompare la monumentalità delle tombe e con essa il »tumulo«. Non è forse un caso che ciò avvenga nel momento in cui si assiste ad un generale riassetto, politico e territoriale, della civiltà nuragica, contemporaneo all’esplosione di una nuova forma di religiosità, quella esplicata nei santuari collegati al rito delle acque.


Fonte: Atti del convegno internazionale
Celano, 21-24 settembre 2000

Immagine sopra di brynmawr.edu
L'immagine della Tomba di Giganti di Aiodda è di web.tiscali.it

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