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giovedì 15 ottobre 2015

Ossidiana, l’oro nero del neolitico.

Ossidiana, l’oro nero del neolitico.
di Alberto Massazza

Già chiamata così dagli antichi latini che ne facevano derivare il nome da un certo Ossidio, il primo a scoprire e sfruttare non meglio precisati giacimenti etiopici, l’ossidiana è una roccia vulcanica a rapido raffreddamento . La mancata cristallizzazione dovuta alla rapida solidificazione e la composizione silicea le donano una particolare lucentezza per cui è conosciuta anche come vetro vulcanico. Le masse, dette noduli, assumono comunemente una colorazione nerastra a luce riflessa, ma esistono delle tipologie che variano la tonalità, a luce trasmessa, dal verde, al grigio, al blu e al rossastro. La facilità di estrazione e di lavorazione (scheggiatura), la resistenza e l’affilatezza ne fecero, unitamente a un’oggettiva qualità estetica, la materia prima per una gran quantità di armi e arnesi da lavoro, soppiantando nel corso del neolitico minerali come la selce, inferiori per prestazioni e lavorabilità. L’ossidiana, in realtà, era già conosciuta prima della neolitizzazione nell’occidente mediterraneo (5000 a.C. ca.), come dimostrerebbero sporadici ritrovamenti nel
catanese e in Liguria, in contesti databili dall’VIII al VI millennio a.C., ma la sua diffusione fu intralciata dalla particolarità dei luoghi di estrazione: tutte isole, poste a distanze proibitive per le scarse abilità navigatorie degli uomini di quel periodo. Il più antico manufatto in ossidiana del Mediterraneo è stato rinvenuto a Creta, proveniente dal giacimento di Santorini (150 km a nord) e databile a circa 15000 anni fa, mentre in zone continentali nelle vicinanze di giacimenti (Etiopia, Caucaso) sono stati rinvenuti utensili in ossidiana ben più antichi, datati fino a 1,5 milioni di anni fa. Nell’occidente mediterraneo esistono quattro zone di estrazione, tutte insulari e tutte italiane: Lampedusa (unico sito di ossidiana verde), Lipari nelle Eolie, Palmarola nell’Arcipelago Pontino e il Monte Arci in Sardegna. Situato sul limite orientale del Campidano oristanese, il Monte Arci è un massiccio tozzo che raggiunge gli 812 metri d’altezza e si estende per circa 150 kmq, un’area più vasta della superficie intera delle altre isole produttrici messe assieme. Su tutti i versanti del massiccio sono presenti giacimenti a cielo aperto di ossidiana, detta in loco “sa pedra crobina” (la pietra nera come il corvo), in composti che differiscono tanto da aver costretto i geologi a classificarle in tre diverse tipologie, denominate SA, SB, e SC. L’ossidiana sarda iniziò ad essere utilizzata sistematicamente a partire dal 5000 a.C., diffondendosi dapprima nell’isola, quindi in Corsica e, attraverso l’Arcipelago Toscano, nel continente, verso la Liguria, la Provenza e la Catalogna; sporadici ritrovamenti sono stati fatti in contesti neolitici della fascia adriatica e a nord del Po. La diffusione di questa materia prima, secondo gli studiosi, rappresenta una cartina di tornasole per capire il rapido sviluppo dei commerci e della navigazione nel neolitico. Se inizialmente il commercio si sviluppò sulla terraferma e sfruttando i ponti delle isole, con la navigazione sottocosta o limitata a tratti di mare aperto di poche decine di km,  le esigenze crescenti dovettero portare marinai e mercanti a sperimentare traversate ben più lunghe, come i tratti di mare dalla punta settentrionale della Corsica alla Liguria o alla Francia  e da Lampedusa alla Sicilia o all’Africa. Tra il IV e il III millennio, l’ossidiana ebbe un tale successo per le sue qualità pratiche ed estetiche che si ipotizza abbia raggiunto un’importanza, come valore di scambio, seconda  solamente al sale, al tempo unico strumento di conservazione del cibo e considerato come una sorta di moneta preistorica. La Sardegna divenne l’epicentro di una fitta rete di scambi commerciali che portò a un rapido incremento demografico e a un dinamismo culturale, testimoniato dalla diffusione capillare della cultura di Ozieri, tra le più progredite nell’occidente mediterraneo, e del suo monumento principale, le Domus de Janas (case delle fate/streghe), dopo il nuraghe la testimonianza archeologica più tipica dell’isola. Un’età dell’oro (nero) che entrò in crisi con l’inizio dell’estrazione e della lavorazione del rame e finì definitivamente con la fusione del bronzo. L’ossidiana, soppiantata dalla duttilità e malleabilità del bronzo, fu relegata alla produzione di oggettistica ornamentale, ma il fitto intreccio di scambi di cui era stata protagonista fornì un’ottima base di partenza per lo sviluppo della Civiltà nuragica, consentendo all’isola di conservare per almeno un altro millennio la sua centralità assoluta nell’occidente mediterraneo.

Fonte:  https://albertomassazza.wordpress.com

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