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lunedì 19 ottobre 2015

Archeologia. Gli altari a terrazza del santuario di Monte d’Accoddi, di Alberto Moravetti

Archeologia. Gli altari a terrazza del santuario di Monte d’Accoddi 
di Alberto Moravetti

Il complesso di età prenuragica ospitava un santuario e un villaggio che non trova riscontri in Europa e nell’intera area del Mediterraneo.
La scoperta di Monte d’Accoddi risale ai primi anni Cinquanta del secolo scorso e avvenne nell’ambito di un più ampio programma di interventi promossi dalla ancor giovane Regione Autonoma della Sardegna, mirati sia alla ripresa delle attività di ricerca interrotte a causa delle vicende belliche sia per favorire l’occupazione in quei giorni difficili del dopoguerra che nell’isola tardava a concludersi. Il progetto prevedeva l’apertura di alcuni importanti cantieri archeologici: due erano previsti nel meridione dell’isola e almeno uno nel nord. Per i primi la scelta era caduta sul complesso nuragico di Barumini, ora patrimonio dell’umanità nella lista dell’Unesco, e quindi sulla città punico-romana di Nora, mentre per il terzo sito archeologico l’intervento fu voluto dal “palazzo” e in particolare dall’allora ministro della Pubblica Istruzione, un sardo che sarebbe divenuto poi presidente della Repubblica. Infatti, il professor Antonio Segni, insigne studioso di diritto ma anche appassionato di archeologia, si era persuaso che una misteriosa collinetta che sorgeva in un terreno adiacente a una sua proprietà, a una decina di chilometri da Sassari, altro non fosse che un tumulo etrusco o qualcosa di simile, e per questo ne aveva caldeggiato lo scavo e facilitato il finanziamento. Per realizzare questa impresa occorreva tuttavia un archeologo, cosa non semplice in quegli anni in quanto per la tutela di un territorio vastissimo la Sardegna poteva contare su un’unica Soprintendenza alle Antichità, con sede a Cagliari, e su due funzionari archeologi. 

Fu pertanto necessario richiamare
dalla Soprintendenza di Bologna, ove prestava servizio, un giovane archeologo sardo – Ercole Contu – destinato a diventare soprintendente alle Antichità per le province di Sassari e Nuoro e ora professore emerito di Antichità Sarde all’Università di Sassari. Contu racconta di essere rientrato nell’isola malvolentieri: infatti era convinto che il cosiddetto “tumulo” altro non fosse che la rovina di uno dei tanti nuraghi, circa settemila, che caratterizzano il paesaggio isolano e che sono numerosi nella Nurra, la regione storica ove sorgeva la collina di Monte d’Accoddi. Posizione dominante Ma gli scavi rivelarono che tutti, archeologi e no, si erano sbagliati. Infatti le indagini dimostrarono che la collina non solo non nascondeva alcun nuraghe ma era stata prodotta dalle rovine di un eccezionale e finora unico monumento preistorico, molto più antico dei primi nuraghi. Purtroppo, per la sua posizione dominante in un territorio per lo più pianeggiante, l’altura venne prescelta durante l’ultima guerra per impiantare agli angoli delle batterie contraeree, raccordate da una trincea circolare: interventi che hanno gravemente danneggiato gli strati superiori del monumento. L’esplorazione di Monte d’Accoddi è avvenuta in due periodi distinti, con un intervallo di circa vent’anni; tuttavia l’indagine è ben lontana dal considerarsi conclusa. Agli inizi, come si è detto, l’indagine era volta a definire la natura e il significato di una modesta collinetta, chiaramente artificiale, denominata Monte d’Accoddi che, unica e isolata, si elevava ancora per circa 6-7 metri rispetto al piano di campagna su un’ampia piana calcarea. I primi scavi, diretti dal Ercole Contu, ebbero inizio nel 1952 e proseguirono sino al 1958. In questi anni vennero alla luce una costruzione tronco-piramidale preceduta da una lunga rampa, un menhir, due tavole d’offerta, un settore del villaggio e altri importanti elementi culturali dispersi per largo tratto intorno al santuario. In questi stessi anni vennero poi individuate le numerose e importanti necropoli a grotticelle artificiali – ipogei che nella tradizione popolare sono noti come domus de janas (casa delle fate) – che quasi a ventaglio si dispongono con i relativi villaggi intorno al santuario preistorico a indicare un territorio fittamente abitato. Dopo circa vent’anni, dal 1979 al 1989, i lavori furono ripresi ed estesi da Santo Tinè, dell’Università di Genova, al quale si devono nuove significative scoperte che hanno meglio chiarito la funzione della struttura riportata alla luce dagli scavi precedenti, ribadendo con nuovi dati l’interpretazione di luogo di culto già proposta da Contu. Inoltre, nel corso di questi ultimi interventi sono state individuate fasi edilizie distinte e si è realizzato il restauro e una parziale e controversa restituzione del monumento. Nell’affrontare lo scavo del “tumulo”, la convinzione che si trattasse di un nuraghe o qualcosa di simile aveva spinto Contu a ricercare l’ingresso alla torre oppure la camera a tholos che caratterizza l’interno delle torri nuragiche. Solo dopo avere definito l’intero profilo perimetrale del monumento, poté constatare che non vi erano ingressi o vani, ma che il tumulo altro non era che una singolare e del tutto sconosciuta struttura delimitata da un semplice muro a secco. Questo muro, piuttosto rozzo nella fattura, aveva la funzione di foderare una sorta di piattaforma tronco-piramidale a base trapezia, preceduta, nel lato sud, da una lunga rampa d’accesso ascendente: cioè era qualcosa di simile a quello che in ambito mesopotamico viene definito “altare a terrazza” o ziggurat. Alla ripresa degli scavi Santo Tinè ipotizzò a sua volta che il tumulo potesse nascondere una tomba megalitica o ipogeica destinata a ospitare la sepoltura di un personaggio distinto, e per questo decise di affrontare lo scavo del riempimento della terrazza fino a raggiungere la base della costruzione, a una profondità di circa 8 metri. Va detto che anche Contu aveva tentato l’esplorazione del cuore del monumento, ma si era dovuto arrestare a circa tre metri di profondità per mancanza di mezzi tecnici adeguati e sicuri. L’indagine, condotta stavolta con larghezza di risorse, non sortì i risultati sperati: l’altare non custodiva alcuna tomba, ma l’intervento rivelò nuovi e interessanti elementi architettonici e culturali. Intanto si mise in luce un particolare tecnico-costruttivo assai sofisticato che aveva consentito di contenere quella massa enorme di terra e di pietrame, delimitato in apparenza da un esile paramento murario. Infatti era stato creato una sorta di reticolato a “cassoni” formato da un solo filare di pietre: questa struttura ad alveare aveva ammorsato in qualche modo il riempimento e impedito che vi fosse una spinta verso l’esterno, evitando in tal modo lesioni irreparabili alle pareti di contenimento del monumento. Ma soprattutto si scoprì che l’altare messo in luce da Ercole Contu era stato preceduto da un altro edificio – del tutto simile nella forma ma di minori dimensioni – e successivamente inglobato in quello che ora possiamo ammirare. Inoltre, sul piano di svettamento di questo edificio più antico – Tempio A – vennero alla luce i resti di una struttura rettangolare, punto di arrivo della rampa e sacello del tempio. Pertanto, il monumento attualmente visibile (Tempio B) include una ziggurat di minori dimensioni (Tempio A) o meglio ancora si può dire che l’altare a terrazza più antico è stato rifasciato e ingrandito nelle forme attuali.
L’altare a terrazza più recente presenta una base di 37,50 x 30,50 metri, rispettivamente nel lato nord e in quello est, mentre la rampa ha una lunghezza di 41,50 metri ed è larga da un minimo di 7 metri nella parte iniziale sino a un massimo di 13,50 nel punto di raccordo con il lato meridionale della terrazza: la lunghezza dell’insieme misura 75 metri. Le murature del monumento, che si conservano ancora a sud-est per un’altezza di 5,4 metri, sono costituite da grossi blocchi poliedrici di calcare, appena sbozzati e disposti con scarsa cura in filari irregolari. Queste murature, fortemente inclinate per ragioni di statica, erano costituite dalle sole pietre a vista e avevano, come si è detto, la funzione principale di sostenere un ammasso stratificato di terra e pietrame. La rampa, costruita con la stessa tecnica, fu aggiunta alla struttura tronco-piramidale poco dopo il primo filare e per questo motivo aveva anche esercitato funzione di piano inclinato per edificare il resto dell’edificio principale. La costruzione occupa una superficie di 2.513 metri quadri, mentre il suo volume risulta di 7.590 metri cubi. La ziggurat più antica (A), scoperta da Santo Tinè all’interno della costruzione portata alla luce da Ercole Contu, era a sua volta costituita da una piattaforma quadrangolare sulla quale era stata costruita una struttura rettangolare, raggiungibile grazie a una rampa ascendente. Il paramento murario di questa terrazza si distingueva per una particolare cura e raffinatezza: infatti, le pareti erano state intonacate e dipinte di rosso. Le pareti del sacello, ove si ipotizza venisse officiato il culto, erano anch’esse intonacate e affrescate con colore rosso ocra, da qui la denominazione di tempio rosso, così come il pavimento. Della struttura rimane il muro perimetrale, alto ora circa 70 cm. L’ingresso al vano era segnato ai lati da due buche di palo riferibili a un piccolo portico: altre buche per contenere i portanti del tetto a doppio spiovente erano forse presenti nel piano pavimentale dello stesso sacello. A differenza del resto degli scavi, totalmente a cielo aperto, questa cella è ora protetta da una struttura metallica. La superficie occupata da questo primo monumento è di 1.491 metri quadri, mentre il volume complessivo è stato stimato in 4.133 metri cubi. La differenza fra i volumi dei due edifici, di 3.457 metri cubi, costituisce la dimensione di cubatura necessaria per rifasciare il primo altare andato distrutto. Restano delle perplessità sulla forma originaria dell’altare a terrazza più recente. Infatti, il restauro di Tinè è stato realizzato ritenendo che ci fossero elementi sufficienti per credere che la costruzione fosse a gradoni, mentre Contu ritiene, invece, che le pareti esterne avessero solo due inclinazioni diverse e due diverse murature: pietre più grosse e meno inclinate nella parte inferiore, pietrame molto più piccolo e profilo più inclinato nei filari superiori. L’interesse del sito di Monte d’Accoddi, già eccezionale per la singolarità del monumento sopra descritto, non si esaurisce con l’edificio a ziggurat, ma è accresciuto dal villaggio-santuario e dai copiosi ritrovamenti di cultura materiale. In prossimità della rampa, a est e a circa 5 m di distanza dalla stessa, è visibile un lastrone trapezoidale in calcare che poggia su tre supporti piuttosto irregolari. I bordi presentano sette fori passanti, simili a buche di biliardo, forse creati per legarvi degli animali per sacrifici. Al di sotto della lastra vi è un inghiottitoio naturale d’incerto significato, forse legato a culti del mondo sotterraneo. Questa lastra, disseminata di coppelle e interpretata come tavola per offerte, è ritenuta contemporanea all’altare a terrazza più recente. Una seconda tavola per offerte in trachite (ignimbrite presente in affioramenti distanti almeno 6 km dal santuario), di minori dimensioni e più semplice nella sua forma irregolare fu trovata sullo stesso lato, quasi a ridosso della rampa. Un menhir in calcare micritico, differente dai litotipi affioranti sul posto, giaceva rovesciato sul lato opposto della rampa: si tratta di lunga pietra calcarea squadrata. Sia la lastra di trachite che il menhir sembrano appartenere a un momento antecedente rispetto al lastrone calcareo, e sono la conferma che il luogo era considerato sacro forse ancor prima della costruzione del primo altare. Vicino al grande lastrone, ma del tutto fuori posto perché proveniente da oltre il muro orientale di recinzione della zona archeologica, si trova una pietra sferoidale, in arenaria grigiastra, rifinita accuratamente e con la superficie punteggiata di piccole coppelle. È verosimile che abbia avuto valenza sacra, forse con lo stesso significato dell’omphalòs di Delfi ritenuto l’ombelico del mondo; non è tuttavia da escludere, come qualcuno ha prospettato, l’ipotesi di una simbologia astrale. Un’altra pietra sferoide in quarzite, di minori dimensioni, rinvenuta nella stessa zona da cui proviene il cosiddetto omphalòs, è stata sistemata accanto allo stesso. Fra gli elementi di sicura valenza cultuale, a parte numerosi idoletti femminili, frammentari, di tipo cicladico, forse indicativi di un culto della Dea-Madre, sono da segnalare almeno due stele: la prima, in pietra calcarea e frammentaria, presenta un disegno con losanga e spirali e fu recuperata entro la grande rampa; la seconda, in granito e di forma rettangolare, è decorata in entrambe le facce e presenta una figura femminile filiforme stilizzata in rilievo: fu trovata nei pressi della parete settentrionale della terrazza più antica. Da ricordare, infine, una pietra di forma piatta ellittica, segnata da tredici scanalature parallele di incerto significato e attraversate da almeno altre due perpendicolari: proviene dall’angolo sud-est della seconda terrazza e forse, a parere del Contu, era in relazione con una sepoltura di cui si dirà più avanti. Sia negli scavi Contu che in quelli successivi si rinvennero fondi di capanna e materiali riferibili a un momento, detto facies di S. Ciriaco – Neolitico Recente iniziale, 3500-3300 a.C. – che ha preceduto la costruzione del monumento e forse anche quella dell’area sacra con il menhir. Si è stimato che l’area abitativa si estendesse per circa 22.000 metri quadri, ma in realtà la parte indagata è ancora molto modesta per poter trarre conclusioni sulla densità dei nuclei abitativi che si sono succeduti nel tempo. Per la fase relativa alla cultura di Ozieri, ad esempio, Tinè ha ipotizzato un villaggio di 150 capanne, abitate ciascuna da 5 unità, secondo una stima convenzionalmente applicata agli ambiti neolitici. In realtà sono ancora estremamente scarsi i resti delle strutture che hanno preceduto la costruzione dell’altare più antico, mentre si conservano con sufficiente nitidezza i profili murari di alcune capanne costruite intorno all’altare e alla rampa, riconducibili a una fase tarda dell’abitato. Questi resti murari sono ridotti a un solo filare di pietre, rozze e di media grandezza, che doveva costituire la base della capanna. Si è ipotizzato l’utilizzo di mattoni crudi o di canne o frasche con intonaco di fango, e si sono trovate varie impronte su argilla bruciata. Anche i tetti, a uno o due spioventi, dovevano avere un telaio realizzato con legni e copertura straminea. Il pavimento di queste capanne di Monte d’Accoddi era fatto con brecciame fino di calcare. Nella Capanna dd, posta tra le due tavole di offerta, era ancora conservato il focolare rettangolare in argilla con bordo in rilievo. Situata vicino all’angolo nord-est dell’altare si trova la Capanna p-s indubbiamente quella più interessante e più ricca di reperti: è detta anche Capanna dello Stregone per il fatto che entro una brocca capovolta sono state rinvenute una punta di corno bovino e alcune conchiglie marine bivalve. Si tratta di una struttura pluricellulare, di forma trapezoidale e con l’interno suddiviso in cinque ambienti di varia forma: il tetto doveva avere un unico spiovente, dato che un muro perimetrale risulta più robusto degli altri. Questa capanna, abbandonata in seguito a un incendio, conservava ancora in situ tutto il suo antico deposito, costituito soprattutto da reperti fittili: un centinaio circa fra vasi grandi e piccoli – persino un tripode ancora in piedi sul focolare – un idoletto femminile, un peso da telaio decorato da dischi pendenti, numerose macine litiche e altre cose ancora. In tutta l’area intorno al grande altare, a indicare l’intensa frequentazione del santuario, sono stati rinvenuti mucchi di conchiglie, forse resti di pasti sacri, accanto a ceneri e carboni; ma erano abbondanti anche i resti di pasto di altro tipo, comprendenti più o meno gli stessi mammiferi attuali, domestici e selvatici, lumache, ricci di mare, cozze, orate e persino grandi bocconi conici di mare o Charonia, usati anche come strumento per suono a fiato, cioè come bùccina. Si è recuperato, inoltre, un numero insolito di punte di freccia e lame in selce e ossidiana, e di accette in pietra levigata. All’interno di un vaso si trovarono otto pesi reniformi riferibili a un primitivo telaio verticale. Strettamente legati alla sfera del sacro sono altri materiali rinvenuti vicino all’altare, come statuette in pietra femminili, di tipo cicladico, e forse anche il frammento di un ciotolone emisferico con incisa una scena di danza. Intorno all’altare, per largo tratto, ad accrescere la straordinaria importanza del complesso cultuale, sono presenti tracce copiose di vita che documentano i numerosi nuclei abitativi che gravitavano sul santuario. A un centinaio di metri dal lato orientale dell’altare a terrazza, oltre un muro recente che segna il confine della zona degli scavi, non lontano dal luogo di provenienza dell’omphalos, sono stati rinvenuti due menhir rovesciati sul terreno. Uno è di arenaria, mentre l’altro è di calcare: di colore bruno-rossastro il primo e bianco il secondo, forse a voler distinguere rispettivamente l’uomo e la donna, corrispondenti forse a principi divini o antenati «eroizzati» oppure ancora alla forza generativa della natura espressa dal fallo. Nella stessa zona da cui proviene l’omphalòs fu trovato anche un bacilefrantoio, sporco di ocra rossa, in trachite. I due altari a terrazza scoperti a Monte d’Accoddi, sia quello più antico sia quello più tardo che lo ha inglobato, presentano entrambi una struttura del tutto sconosciuta nel panorama del megalitismo occidentale. Ci troviamo di fronte a un imponente edificio cultuale intorno al quale si estendeva un vasto villaggio: un santuario al quale i fedeli dovevano accorrere, data la sua rilevanza, da un territorio molto vasto e da lontano, forse da tutta la Sardegna come ipotizzato da qualcuno. Si è già detto dell’unicità architettonica di questo monumento che non trova finora riscontri sia in Europa sia nell’intero bacino del Mediterraneo, e per questo i soli confronti possibili portano verso il Vicino Oriente. Si tratta, è bene precisarlo, di raffronti del tutto generici che non sono indicativi di contatti diretti di cui, almeno finora, mancano le prove. Le piramidi a gradoni – tipo quella notissima di Sakkara – porterebbero all’Egitto, anche se l’edificio sardo sembra ricordare le mastabe, anch’esse delle piramidi tronche. Ma le mastabe sono tombe e non presentano alcuna rampa esterna a piano inclinato per raggiungere la spianata superiore, e la salita doveva rivestire un forte significato simbolico quale ascesa verso la divinità. Più suggestivo, invece, il richiamo con il tipo più elementare di torri sacre, provviste di rampe e gradoni della Mesopotamia: le ziqqurat. La più famosa, oltre quella di Ur, è meglio nota dalla Bibbia come torre di Babele, cioè torre di Babilonia. Sono ziqqurat piuttosto complesse, come anche quelle analoghe di Assur e Korsabad, appartenenti al III millennio, mentre quella di Aqar Quf è addirittura del secondo. Ma il raffronto che pare più significativo, almeno per la maggiore semplicità, è quello con la ziqqurat di Anu, a Uruk, costruita in tempi non troppo lontani dall’altare di Monte d’Accoddi. La ziggurat di Monte d’Accoddi ricorda inoltre – ma soltanto come puro richiamo letterario – l’altare che Javeh impone di costruire a Mosé: doveva essere di pietre rozze o terra e accessibile a mezzo di una rampa senza gradini, e questo affinché, per la corta tunica, non si generasse scandalo. E siamo intorno al 2200 a.C. Forse, come avveniva nelle ziggurat mesopotamiche, anche la piramide tronca di Monte d’Accoddi era destinata alle feste sacre legate al ciclo agrario, alla feracità dei campi, ai riti propiziatori della fertilità per uomini e animali e altro ancora. Fin dai primi interventi era apparso chiaro che Monte d’Accoddi era un monumento anteriore all’età dei nuraghi, non solo per la sua inedita architettura ma per i materiali che si andavano ritrovando, riferibili ai tempi delle culture di Ozieri, di Filigosa, di Abealzu, Monte Claro e Campaniforme, fra il Neolitico Recente e l’Età del Rame. A ribadire l’alta antichità del complesso archeologico si dispone di numerose datazioni radiometriche, fra le quali risultano di particolare interesse cinque datazioni non calibrate dal Laboratorio di Utrech. In conclusione, sulla base dei dati finora disponibili si possono determinare in qualche misura le fasi costruttive della “ziggurat” e i diversi momenti di frequentazione di Monte d’Accoddi. L’area ove ora sorge la “ziggurat” e il villaggio-santuario è stata per la prima volta occupata ai tempi della cultura di San Ciriaco (3500-3200 a.C.) agli inizi del Neolitico Recente, come documentano ceramiche e i resti di capanne circolari seminterrate. Su questo primo impianto si sovrappose un nuovo nucleo abitativo riferibile alla cultura di Ozieri (3200-2900 a.C.), provvisto di un’area di culto segnata da un menhir, dalla lastra con fori passanti. Successivamente, nella fase finale della stessa cultura di Ozieri – ma per altri nella successiva cultura eneolitica di Filigosa – l’area del menhir venne parzialmente occupata dalla costruzione del primo altare a terrazza, munito di rampa e spianata con sacello intonacato e dipinto di rosso. I dati di scavo hanno rivelato che la prima piramide con il sacello venne distrutta da un incendio, dopo il quale fu ricoperta da terra e pietrame ben assestato con un sistema di cassoni radiali, e quindi venne eretto un nuovo sacello, rialzato di vari metri, mentre anche la piramide e la rampa venivano ricostruite e ampliate. La seconda piramide – costruita ai tempi di Filigosa ma per altri durante la cultura di Abealzu (2700 a.C.) – rimase in uso nell’Eneolitico, come attestano i materiali delle culture di Filigosa, Abealzu,Monte Claro e Campaniforme rinvenuti nelle capanne che sorgono ai piedi della piramide, ma già ai tempi della cultura di Bonnanaro, nel I Bronzo (1800-1600 a.C.), il santuario doveva essere in abbandono anche se non mancano tracce di frequentazioni più recenti come quelle molto rare nuragiche, fenicio-puniche, di età romana e medioevale. A testimoniare che già durante il Bronzo Antico il santuario aveva perduto la sua funzione di luogo di culto, va segnalata la sepoltura di un fanciullo di sei anni, rinvenuta all’interno del riempimento dell’angolo sud-est della “ziggurat”. Si tratta di un seppellimento di tipo secondario, costituito dal solo cranio – brachicefalo e affetto da appiattimento congenito della volta cranica (platicefalia) – coperto, quasi come un elmo, da un vaso a tripode di terracotta e con accanto una ciotola.
Le ceramiche di corredo attestano che si tratta di una tomba della cultura di Bonnanaro (1800-1600 a.C.), quando il grande altare era già da tempo abbandonato e in rovina, luogo di frequentazioni sporadiche e occasionali.


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