Diretto da Pierluigi Montalbano

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domenica 30 novembre 2014

Archeologia. Iran: scoperto un villaggio in mattoni a 3000 metri di altezza, datato 8000 a.C.

Chenāqchī-ye 'Olya: un codice urbano immutato da diecimila anni
di Franco Sarbia

Chenaqchi-ye Olya è un villaggio Armeno situato in Iran su un altipiano tra le montagne del Markazi alla quota di 2389 m slm, nei pressi di una sorgente, ai piedi del monte Kūh-e Chenāqchī di 2883 m. È interamente edificato in mattoni crudi, e muri esterni intonacati d'argilla impastata con paglia di cereali e sterco di mucca. Il nucleo più antico non ha strade, attraverso le rampe d'accesso ai tetti piani ricoperti d'argilla gli animali sono ricoverati nei cortili e nelle stalle, le persone scendono alle case con piccole scale di legno.
Il villaggio  condivide queste caratteristiche costruttive, e molte altre, con Çatalhöyük: in assoluto uno dei primi insediamenti protourbani neolitici al mondo, popolato dal decimo all'ottavo millennio BP (Before Present: prima del presente), situato a 1533 chilometri di distanza a Ovest, nelle vicinanze del fiume Carsamba sul fertile altipiano di Konia antistante il Tauro a 1008 m slm. Non risulta che qualcuno, finora, abbia rilevato la speciale natura di Chenaqchi-ye Olya: un organismo il cui codice generatore è giunto fino a noi immutato da 10.000 anni come un fossile vivente. 
A differenza di Çatalhöyük, incendiato e abbandonato nel 7830 BP, eventuali tracce del nucleo originario di questo borgo potrebbero essere state assimilate dal processo ininterrotto di edificazione, manutenzione, restauro e ristrutturazione nel corso dei secoli. E tuttavia le peculiarità strutturali dell’ambiente naturale accoppiato al villaggio ne lasciano supporre una millenaria sostenibilità. Il rilievo sul quale si trova è confinato da uno strapiombo di roccia ed è difendibile su un solo fronte. Poiché sufficientemente lontano dalla parete della montagna, e per la sua posizione sopraelevata, è al riparo sia da frane e valanghe, sia da esondazioni. Dalla sorgente il rivo scorre alla base del poggio, prima di precipitare, con la cascata Charagan, in un laghetto ai piedi del dirupo. La neve copiosa d’inverno, in primavera lascia il posto ad abbondante foraggio, poi permane a chiazze fino a giugno e alimenta le sorgenti per tutto l’anno. A dispetto dell’altitudine, sull'altipiano sovrastante il villaggio, i  cereali giungono a maturazione, mentre a ridosso del paese, nel bacino di afflusso alla cascata, verdeggiano latifoglie e varietà di alberi da frutta, specialmente di noci. A valle i canali derivati dalla pozza sottostante irrigano gli orti del lieve pendio che da questa si apre.

La pastorizia  di bovini oggi prevale in Chenāqchī-ye ‘Olyā come fu in Çatalhöyük, precocemente, alcuni millenni prima che si diffondesse verso meridione lungo la valle dell’Eufrate. Sebbene le capre s’adattino perfettamente al clima montano, l’abbondanza di prateria erbosa degli alti pascoli e la scarsità di piante arbustive favorisce assai più il pascolo dei

sabato 29 novembre 2014

Il culto dei santi nella Sardegna medievale

Il culto dei santi nella Sardegna medievale
di Rossana Martorelli

Il convegno tenuto a Cagliari nell’ambito delle celebrazioni per il Giubileo, ha offerto un’importante occasione di confronto sul tema dei santi e della devozione ad essi riservata dall’età antica ai tempi moderni, soprattutto per quanto concerne l’esame delle molteplici forme in cui si sono manifestati, diversificate nei tempi. In quella circostanza si offrivano i primi risultati di una ricerca avviata da alcuni anni sul culto dei martiri/santi in epoca tardo antica e medievale in Sardegna. Si trattava di una relazione preliminare, in cui veniva esposto lo stato di avanzamento fino ad allora conseguito. Il tempo trascorso dal convegno e le ragioni contingenti hanno indotto a pubblicare altrove il contributo presentato in quella circostanza. Il lavoro, poi, negli anni successivi è proseguito e un nuovo status quaestionis è stato illustrato in Corsica nel 2003. A questo punto la ricerca è giunta quasi alla fine e dunque i dati acquisiti in questi  anni sono più cospicui e consentono di delineare un panorama dai contorni maggiormente definiti. Pertanto, si coglie l’occasione del presente volume per riprendere nuovamente il problema, aggiornando lo stato delle conoscenze ed insieme proponendo le linee generali di un progetto che si intende realizzare. La ricerca consiste in un censimento a tappeto di tutte le testimonianze relative ai culti tributati a martiri e santi dalla prima comparsa sino alla fine del Medioevo nell’intera Sardegna. Muovendo, dunque, dai più antichi santuari meta di venerazione, dedicati rispettivamente a San Lussorio a Fordongianus e a San Gavino a Porto Torres, i cui nomi (insieme a quello di Simplicio, sul quale pesano però alcuni dubbi) sono inseriti nel martirologio Geronimiano e dunque sono ritenuti antichi, l’indagine ha preso in considerazione ogni possibile traccia di una memoria intitolata a martiri e santi, sia inerente a luoghi di culto ancora esistenti, sia a toponimi, sia a luoghi scomparsi. 

L’arco cronologico si estende dalle origini del cristianesimo, che sulla base delle prime attestazioni si possono collocare nell’isola durante il III secolo e per il tema in questione nel corso del IV, sino alla fine del Medioevo, termine ultimo che in Sardegna viene spostato avanti di un secolo e fatto coincidere con l’anno 1479, quando con il re Ferdinando II il Cattolico l’isola passa alla Corona di Castiglia, che si unisce a quella aragonese, entrando così a pieno titolo nell’epoca moderna.Dunque, il lungo arco temporale vede il succedersi di diverse dominazioni, che influiscono non poco sui diversi aspetti della vita, non ultimo l’ambito religioso. L’isola è una provincia dell’impero romano sino alla metà del V secolo, quando entra nell’orbita dei Vandali, nel regno dei quali rimarrà fino al 534, allorché verrà inglobata nell’impero bizantino, dopo la battaglia di Tricamari, come parte della provincia d’Africa. La lunga età bizantina, diversamente da altre regioni del bacino mediterraneo, cesserà in un’epoca che ancora oggi non può essere precisata, collocabile fra gli inizi dell’VIII secolo e l’XI, due termini che si fissano rispettivamente sulla base della data relativa alla distruzione di Cartagine da parte degli Arabi (697-698) e la comparsa

venerdì 28 novembre 2014

Reperti archeologici in vendita ai privati? C'è chi dice si.

Vendere reperti archeologici ai privati: perchè no?
di Giovanni Lattanzi



















La domanda mi passa per la testa da tanti anni, ma noto che nessuno in questo paese ha mai seriamente preso in considerazione, non dico l’ipotesi di attuare questa pratica, ma la semplice discussione sul tema, quasi che fosse una “bestemmia” il solo parlarne. Si parla di tutto, di discute dell’impossibile, si argomenta sulle cose più frivole e su questo argomento no? Perchè?

Partiamo da alcuni assunti.
Musei e magazzini
I musei nazionali, soprattutto quelli più storici e anziani, soffrono di una palese inadeguatezza sotto molti punti di vista. Se paragonati agli omologhi stranieri mostrano una distanza siderale in termini di fruibilità e gestione, ma anche di vitalità. Per contro, i loro magazzini sono stracolmi di reperti, per la maggior parte condannati a un sorta di beffardo destino a seguire la scoperta: tornati alla luce dopo secoli sotto terra, illusi di una riconquistata utilità, e riseppelliti nei sotterranei polverosi di qualche deposito. Materiali che, nella maggioranza dei casi, non hanno futuro. La capacità di turnazione nelle vetrine dei musei è minima, per cui è difficile che qualcuno di essi possa un giorno rivedere la luce. Molti di questi materiali, soprattutto i più poveri dal punto di vista scientifico, sono ancora da catalogare e spariscono a centinaia.
Fondi
L’archeologia nazionale, e in generale tutto il mondo dei beni culturali, soffrono di una perenne carenza di fondi, che si aggrava ogni anno per via dei tagli che si accaniscono sempre su questo settore, quasi fosse l’ultima ruota del carro. Comprensibile in un paese ottuso e ignorante, dove dal dopoguerra hanno trionfato i palazzinari e i pirati del soldo facile, gli spendaccioni di stato e i furbi della mazzetta. L’edilizia, l’industria, il commercio muovono fiumi di soldi, l’archeologia no. Dove si muovo fiumi di denaro ci possono essere tangenti, posti di lavoro, appalti; dove c’è micragna no. Ecco perchè la cultura, fatta salva qualche rara isola virtuosa e qualche filibusta dove si è capito che si possono fare tangenti e mazzette anche su musei e cantieri archeologici, langue nella miseria dell’elemosina nazionale.
Reperti
Nei magazzini dei musei ci sono due categorie di reperti, che possiamo classificare in base al loro valore scientifico, ma anche sulla

giovedì 27 novembre 2014

Divinità e religione: il panteon dei fenici.

Divinità e religione: il panteon dei fenici.
di Pierluigi Montalbano

In assenza di scritti mitologici e liturgici, le fonti sono le iscrizioni provenienti dalle città stato orientali. Gli autori principali sono: Sancuniatone, sacerdote di Beirut (XII a.C.), riportato da Filone di Biblos, giuntoci attraverso Eusebio; Damascio, neoplatonico (V a.C.), che cita una cosmogonia di Mecio; Plutarco e Luciano, che forniscono dati sulle credenze dell’epoca; l’Antico Testamento, sui Cananei; i testi di Ugarit; le fonti puniche.
La religione fenicia appare come un prolungamento di quella cananea del II millennio a.C. Ogni città fenicia aveva una divinità poliade generalmente associata a un partner, con determinate funzioni. A Tiro imperavano Melqart e Astarte, con un rito del risveglio annuale. Melqart è una divinità che garantisce ordine e benessere, Astarte è la dispensatrice di potere e vitalità, legata al trono e alla fertilità. A Sidone erano venerati Astarte ed Eshmun, dio guaritore assimilato ad Asclepio/Esculapio. A Biblos invece si credeva nella Baalat Gubal (signora di Biblos), insieme al Baal di Biblos, che è all’origine dell’Adone greco. Per loro si celebravano feste annuali di morte e resurrezione.
Altre divinità erano: Reshef, dio della folgore e del fuoco, originariamente nefasto poi benefico; Dagon, dio del grano; Shadrapa, conosciuto dal 600 a.C., un genio guaritore rappresentato con serpenti e scorpioni; diversi culti astrali, di età ellenistica; Chusor, inventore e lavoratore del ferro; Sydyk e Misor, divinità della giustizia e della rettitudine.
Filone di Biblos riporta una mitologia: all’origine del cosmo, della cultura e degli dei sono il vento e il caos, da cui nasce un uovo cosmico, detto Mot. La cultura sarebbe stata creata da Usoos, inventore delle pelli d’animali, mentre al vertice della genealogia divina sarebbero stati Eliun e Berut. Gli dei vivevano nei templi, o bet (casa o palazzo). Non ci sono pervenute statue, forse  a causa del diffuso aniconismo. Apprezzavano il culto di stele o betili, nonché di montagne, acque, alberi, e pietre ritenute sacre. Asherah è una piccola colonna votiva in legno, analoga al betilo, la dimora

mercoledì 26 novembre 2014

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Scoperta una fortezza dell’età del Bronzo a Cipro

Scoperta una fortezza dell’età del Bronzo a Cipro



















Un recente ritrovamento archeologico dell’Università di Cincinnati suggerisce che l’antica città cipriota di Bamboula fosse ben protetta dalle minacce esterne.
La città portuale di Bamboula fiorì nell’Età del Bronzo, tra il XIII e l’XI a.C., costituendo un importante centro commerciale per Medio Oriente, Egitto e Grecia. Oggi si trova presso l’odierna Episkopi, lungo la costa sud-occidentale di Cipro. L’area ha in parte prosperato perché i vicini Monti Troodos contenevano rame che poteva essere trasportato a valle grazie a un fiume.
Le ultime ricerche nel sito hanno rivelato i resti di una fortezza della Tarda Età del Bronzo (1500-750 a.C.) che potrebbe aver protetto il centro urbano economico più all’interno, che non sembra essere stato fortificato.
“È chiaro che si tratta di una fortezza a causa della larghezza e della solidità delle pareti. Nessun muro di una casa di quel periodo sarebbe stato così solido. Sarebbe stato del tutto inutile”, dice Gisela Walberg, direttrice degli scavi, notando che una parete è spessa 4,80 metri. “Ed è su un altopiano separato, che ha una posizione meravigliosa: si può guardare a nord verso le montagne o il fiume, e si può vedere il Mediterraneo a sud, in modo da poter vedere chiunque si avvicina”.

Inoltre, sono stati trovati resti di scale che portavano ad una distrutta struttura circolare tipo torre, che sarebbe stata utile per controllare l’area.
“Abbiamo trovato le prime mura, che abbiamo pensato essere interessanti, nel 2005″, racconta Walberg. “Abbiamo continuato, e quest’anno abbiamo trovato un’intera scala”.
Secondo Walberg, la scala sembra essere stata rotta durante una violenta catastrofe, il che getta luce sull’inizio della Tarda Età del Bronzo di Cipro, un periodo di cui si sa poco, ma che è caratterizzato da grandi sconvolgimenti sociali e cimiteri contenenti ciò che un certo numero di studiosi ha identificato come sepolture di massa.

La recente scoperta è anche particolarmente significativa perché c’è un altro sito della Media Età del Bronzo nelle vicinanze della fortezza.



A monte vi sono i resti di un grande centro economico, chiamato Alassa, un centro per il commercio dei prodotti agricoli e del metallo.
“La nostra scoperta, la fortezza, colma il vuoto temporale tra questo primo insediamento e il grande centro economico. Probabilmente era il centro, il nucleo, da cui iniziò l’urbanizzazione dell’area”, dice Walberg.

Fonte: Science Daily
University of Cincinnati

martedì 25 novembre 2014

Nuove scoperte retrodatano l’epoca della domesticazione di cane e cavallo

Nuove scoperte retrodatano l’epoca della domesticazione di cane e cavallo
di Martina Calogero



















Cavallo e cane sono stati addomesticati dall’uomo molto prima di quanto pensato fino ad ora. A retrodatare il processo di domesticazione sono stati due ritrovamenti archeologici. Si tratta di un nuovo sito archeologico, quello di Al-Maqar, in Arabia Saudita, che ha rivelato che i cavalli furono addomesticati già nove mila anni fa, invece di 3500; e del cranio e della mandibola fossilizzati di un canide, databili a trentatré mila anni fa e scoperti sui monti Altai, in Siberia, che avrebbe intrapreso la strada dell’avvicinamento all’uomo che si concluderà molto più tardi.
La scoperta dei resti del canide è molto importante per fornire nuovi dati sul luogo dove nacque e sulle modalità in cui si sviluppò lo straordinario rapporto tra l’uomo e il cane. Probabilmente, l’animale in questione non era completamente addomesticato perché mostrava ancora alcune caratteristiche da lupo, come i denti lunghi. La caverna di Razboinichya, dove è avvenuto il ritrovamento, era abitata soltanto per brevi periodi da raccoglitori e cacciatori. Si presume che il canide si sia avvicinato a questo accampamento, attirato dai resti delle prede cacciate. È probabile che simili contatti tra uomo e lupo si svolsero allo stesso tempo in luoghi diversi dell’Europa, ma anche in altre località come in Cina e in Medio Oriente. È possibile il rapporto tra le due specie si sia consolidato circa diciannove mila anni fa, solamente dopo la fine della ultima glaciazione.
Infatti, la domesticazione è un processo che richiede tempo, per far sì che le trasformazioni caratteriali e fisiche, causate dagli incroci selettivi per ottenere uno specifico carattere, si stabilizzino nel DNA e vengano poi trasmesse da una generazione all’altra. È probabile che l’imminente glaciazione spinse i cacciatori a rarefare la loro presenza nella grotta di Razboinichya e le avverse condizioni ambientali obbligarono i nostri antenati a cacciare i canidi semiselvatici, per procurarsi cibo e pellame.
Invece, il sito di Al-Maqar, che un tempo offriva un fertile territorio verdeggiante sul quale prosperò una raffinata e florida civiltà, come stanno rivelando gli scavi archeologici, ha restituito numerosi manufatti, fra cui scheletri mummificati, strumenti per la tessitura e la filatura, punte di freccia e altri utensili. Inoltre, sono emerse statue di animali come cani, capre, falchi e un busto che raffigura un cavallo di un metro di altezza, dimensioni mai riscontrate finora. Prima di questa scoperta la domesticazione del cavallo veniva fatta risalire a cinquemila cinquecento anni, a opera di un popolo semisedentario di civiltà Boltai, che abitava l’attuale Kazakistan.

fonte: Archeorivista.
Immagine di www.archart.it

lunedì 24 novembre 2014

Trovata ocra in una conchiglia del Paleolitico. Scoperta la bottega di un artista?

La bottega di un pittore di 100.000 anni fa scoperta in Sud Africa.



Frammenti d'ocra, pestelli e macine di pietra, conchiglie usate come barattoli per la pittura, trovate ancora al loro posto, come erano state lasciate migliaia di anni fa: è il laboratorio di un pittore vissuto 100.000 anni fa. Si trova in Sud Africa, ed è stato usato per produrre e conservare l'ocra, il primo pigmento della storia. Annunciata su Science, la scoperta si deve a un gruppo di ricerca coordinato da Christopher Henshilwood dell'università di Witwatersrand a Johannesburg. Del gruppo fa parte anche l'italiano Francesco d'Errico che lavora all'università francese di Bordeaux e all'università norvegese di Bergen.
Scoperto nella grotta di Blombos, il laboratorio dell'Età della pietra, eccezionalmente, contiene tutti gli utensili per produrre l'ocra, come pestelli e macine di pietra. Le due conchiglie di abalone, noto anche come orecchio di mare, ''sono i più antichi contenitori finora scoperti nella storia dell'uomo'' ha detto all'ANSA d'Errico. Una delle conchiglie era anche chiusa da un ciottolo che ha la stessa morfologia della conchiglia e che molto probabilmente aveva la funzione di coperchio. ''Vi sono esempi più antichi di pezzi d'ocra con tracce di uso ma è la prima volta - ha proseguito l'esperto - che vengono trovati contenitori, residui di pigmenti e gli strumenti per produrli''. La cosa straordinaria, ha rilevato d'Errico, è che in questa grotta-laboratorio, tutto è rimasto come era: ''l'artigiano che ha usato il kit l'ultima volta ha lasciato le conchiglie a pochi centimetri di distanza, il tutto è stato rapidamente coperto dalla sabbia portata dal vento nella grotta''.
Sui fondi delle conchiglie sono stati trovati dei residui di pittura: una mistura di colore rosso ottenuta miscelando polvere di ocra, midollo e carbone. Secondo i ricercatori il pigmento era prodotto per sfregamento dei pezzi di ocra su lastre di quarzite o frantumando schegge di ocra. Da questo processo si otteneva una polvere di colore rosso che veniva poi miscelata agli altri ingredienti. A questa miscela veniva poi unito un liquido (probabilmente urina o acqua) e grasso animale. Fra gli strumenti è stato trovato anche un osso che era probabilmente utilizzato per mescolare e trasferire un po' di miscela fuori dal guscio. E' difficile, hanno rilevato gli esperti, immaginare l'uso che veniva fatto di questa pittura, probabilmente era usata dai primi Homo sapiens per dipingere i loro corpi o produrre rappresentazioni astratte o figurative. ''Sappiamo ormai molto su come questa pittura veniva prodotta ma nulla su come era utilizzata'' ha osservato d'Errico. ''Possiamo ipotizzare - ha aggiunto - che mescole di questo tipo erano usate nella preparazione delle pelli, per evitare il loro deterioramento, o per scopo simbolico''.
La scoperta, secondo Henshilwood, suggerisce che i primi uomini come noi avevano già una conoscenza elementare della chimica e la capacità di pianificazione a lungo termine, ossia di preparare e conservare, cruciale per l'evoluzione del pensiero.

Immagine di Science/AAAS

domenica 23 novembre 2014

Storia, leggenda, arte e culto dell'acqua in Sardegna e nel mondo

Storia, leggenda, arte e culto dell'acqua in Sardegna e nel mondo
di Efisio Lippi Serra


Il problema dell'acqua è fra i più antichi della millenaria, tormentata, storia della Sardegna. In questo articolo non v'è alcuna pretesa di indicare soluzioni all'annoso problema che da sempre angustia la nostra comunità e soffoca la nostra economia (specie agricola), ma il desiderio di provocare una riflessione su quel che l'acqua ha rappresentato e rappresenta nella storia dei popoli; nonché nella leggenda, nel culto e nell'arte della ultra millenaria storia della Sardegna.
Tutti sono consapevoli che l'acqua, fra gli elementi della natura, sia il più importante; tanto è vero che, nel comune sentire, non può esserci vita in assenza di acqua! E all'acqua, poeti e scrittori d'ogni tempo e latitudine hanno dedicato versi e pagine immortali.
In una recente relazione, Margherita Satta ha ricordato che Mircea Eliade, nella sua "Storia delle Religioni", ha affermato che "l'acqua è fonte e origine della vita umana" e vi ha descritto il ruolo che l'acqua ha avuto ed ancora ha in alcune culture del mondo.
Né possiamo tacere quanto sostengono autorevoli studiosi sul ruolo e il culto dell'acqua nel "preistorico" Sardo. Il Lanternari ha detto che "il culto preistorico dell'acqua nell'Isola si atteggia in un aspetto particolare che è il culto delle sorgenti". Per il Taramelli il culto delle grotte, nell'età del bronzo, era in Sardegna così intenso da essere considerato "patrimonio fondamentale della stirpe Sarda".
Per Giovanni Lilliu "il culto centrale e principale dei protosardi dell'età dei nuraghi era proprio quello

sabato 22 novembre 2014

L'acqua nell'antica civiltà sarda

L'acqua nell'antica civiltà sarda
di Pierluigi Montalbano

Le acque lustrali sono state e sono tutt’ora usate in vari ambiti religiosi. Anche il cristianesimo ha fatto sua l’usanza antica di utilizzare l’acqua per le cerimonie religiose. L’uso dell’acquasantiera all’ingresso delle chiese ad esempio richiama la presenza di un bacile di trachite all’ingresso di templi,nuraghi e pozzi sacri.
Nell’accurata descrizione degli scavi all’interno del santuario nuragico di Serri il Taramelli annotò la presenza di un bacile in trachite appena varcato l’ingresso dal lato sinistro della curia o capanna delle riunioni. Tale bacile era in tandem con altri reperti dal chiaro carattere cerimoniale-religioso: sempre sul lato sinistro presso il muro a una distanza di tre metri venne rinvenuta una piccola ara, un cippo e incastrato nel muro un altro bacile rettangolare. Un altarino elegantemente lavorato fu trovato durante i primi scavi anche nel vestibolo del primo pozzo di Matzanni: testimonianza di un uso sacrale della costruzione.
Un altarino di simile fattura fu trovato anche nel pozzo C, o terzo pozzo, in tempi relativamente recenti. Esso è stato preso dagli scavatori e portato a Villacidro dove si trova tutt’ora presso il museo sacro ex-oratorio, davanti alla chiesa di S. Barbara.  Il pozzo sacro è l’edificio che sembra aver la sua ragione d’essere nel culto delle acque. In Sardegna esistono tutt’ora molti esempi, più o meno conservati di pozzi sacri risalenti al periodo nuragico. Nella località Matzanni in territorio di Vallermosa, al confine col comune di Villacidro si trovano tre pozzi sacri a breve distanza l’un dall’altro. Quasi tutti hanno il medesimo schema costruttivo: Il pozzo vero e proprio ricoperto dalla tholos o cupola, il tutto in pietre più o meno lavorate, la scala e l’atrio o vestibolo. Ogni sezione probabilmente aveva un diverso livello d’accesso e diversità d’uso.
Si distingue il pozzo vero e proprio del diametro che va dai 2 ai 3 metri costruito con perizia specialmente evidente nella copertura realizzata con la tecnica ad aggetto e chiamata tholos dal nome che i greci avevano dato alle costruzioni sarde che richiamavano le loro Tholoi. Dal fondo del pozzo una scala di 12/13 gradini portava all’atrio pure in pietra ma ricoperto da travi in legno e altri materiali. Questo locale era lastricato in pietra. Lungo i lati lungo di un muro si trovava un sedile continuo pure in pietra. L’ atrio del pozzo C di Matzanni aveva il sedile solo dal lato destro. Questo locale aveva una sua funzione specifica sempre legata al pozzo e alle acque sacre. Si trovano nei pressi segni di cerimoniali sacri quali aree sacrificali…e al suo interno sono stati rinvenuti oggetti riconducibili ad un uso cerimoniale.
Sempre a Serri nell’atrio si nota ancora un bacile e una canaletta che percorre un lungo tratto e porta all’esterno del vestibolo. In tale spazio erano sistemati gli ex-voto sotto forma di bronzetti. Nell’atrio del pozzo A di Matzanni, come già ricordato fu rinvenuta una piccola ara peraltro scomparsa. Il Lovisato aveva fatto in tempo ad operare uno schizzo di essa. Il Taramelli se ne era interessato e aveva trovato riscontri di oggetti simili in altre località del mediterraneo orientale. Quali cerimonie religiose civili o terapeutiche si celebrassero non è dato sapere con precisione: studi e ricerche hanno tentato di dare spiegazioni più o meno convincenti. Uno dei primi e certamente tra i più importanti è stato Petazzoni che studiò la religione primitiva in Sardegna e dedicò al culto delle acque una parte rilevante della sua opera sull'argomento.
Egli descrisse i due pozzi (il terzo non era ancora stato scoperto) e fece uno schizzo del pozzo A.
La sua interpretazione del culto delle acque è di largo respiro, i parallelismi con altre culture, esempi attuali di comportamenti umani che richiamano tutt’ora le antiche usanze trovano ampio spazio nella sua appassionata trattazione. Invero alcune sue supposizioni sono state superate dalle scoperte e studi successivi.
Secondo lui il pozzo in sé non era una fonte bensì un deposito d’acqua, in alcuni casi addirittura protetta da un coperchio di legno posto in fondo al pozzo.
Che uso si poteva fare di quella acqua così preziosa e sacra?
Le acque dei pozzi sacri avevano un fine terapeutico, magico-religioso e civile, se è lecito operare una tale distinzione riferita a quel tempo. Antichi autori greci affermano che in Sardegna esistevano delle sorgenti di acqua miracolosa fredda e calda. Tra Vallermosa e Villasor, in località s’Acqua Cotta esiste tutt’ora una sorgente d’acqua calda utilizzata per secoli a scopo terapeutico e recentemente ceduta ad una società produttrice di acque minerali. Gli stessi autori riferiscono che quell'acqua aveva benefici effetti sugli occhi.
Altri riferiscono che gli effetti terapeutici si estendevano anche ai dolori alle ossa e ad alleviare altri malanni tra cui i danni provocati dal morso di un insetto particolare che sembra procurasse notevoli disturbi.
Nell’atrio dei pozzi venivano collocati dei bronzetti; la loro presenza sembra strettamente legata alle ceromonie religiose che avevano luogo presso il pozzo. Essi sono stati anche interpretati come una specie ex-voto. A Serri è stata trovato il bronzetto che rappresenta una madre che ringrazia per la guarigione del figlio, a volte confusa con la madre dell’ucciso di Urzulei. Riguardo alla località di Matzanni il Lovisato dà notizia di ritrovamenti operati dai primi scavatori clandestini:quasi tutto è scomparso eccetto una ciotola di bronzo dorato, una moneta e il famoso bronzetto denominato Barbetta o Offerente che rappresenta secondo l’interpretazione di Lilliu un popolano in atto fare offerte votive alla divinità. L’intreccio tra religione, medicina,magia e dato fisico è praticamente inscindibile per i nostri protosardi. L’origine dei malanni può essere d’origine divina o dovuta a cause misteriose, certamente note alla divinità che può intervenire in favore dei fedeli che utilizzano l’acqua sacra come mezzo per entrare in contatto con la divinità e ottenere benefici. La malattia è curata con cerimonie religiose in cui l'acqua ha una parte importante.Non per niente il Petazzoni, citando le scoperte del Lovisato avanza l’ipotesi che le costruzioni circolari, i cui resti sono situati tra i pozzi A e B di Matzanni, fossero ricoveri o dimore per sacerdoti o per fedeli convenuti per pratiche medico-religiose (sul modello di quelle più note del Santuario di S.Vittoria). Invero altre pratiche magico-religiose avevano luogo probabilmente nei santuari nuragici come la pratica della incubazione. Il culto delle acque sacre riveste tuttavia un ruolo molto importante con una valenza profonda nel rapporto tra religione e vita sociale: se infatti l’acqua lustrale aveva il potere di guarire gli infermi aveva per contro anche quello di smascherare i colpevoli di vari delitti.
Questo avveniva col rito dell’ordalia. Il luogo per eccellenza deputato a svolgere questo compito era il pozzo sacro peraltro dedicato ad una divinità (Il Petazzoni indica il Sardus Pater;oggi si propende per altre indicazioni, forse una divinità locale o forse le antichissime divinità primitive naturali). Questo rito sembra fosse abbastanza comune nell’antichità tra i popoli del Mediterraneo (Sicilia)e in altre parti del mondo antico (Africa). Ma l’ordalia sarda ha una sua peculiarità ed è citata più volte dagli antichi scrittori latini e greci.

Nell'immagine: Vallermosa, Matzanni. Il pozzo 3


venerdì 21 novembre 2014

Istanbul, Turchia. Scavi italiani portano alla luce il rilievo del Re di Tuwana a Ivriz

Il rilievo del re di Tuwana a Ivriz (IX a.C.) 
di Rodolfo Calò

















Sono in corso gli scavi archeologici in un mega sito dell'Anatolia destinati a far emergere dal buio della storia un antico regno ricco ma dimenticato, quello di Tuwana, cui sarà dedicato un museo a cielo aperto.
La segnalazione è stata fatta da Lorenzo d'Alfonso, un archeologo italiano che guida la missione congiunta delle Università di Pavia e di New York e che ha fornito dettagli sugli scavi in una conferenza stampa in cui, questo mese, sono stati illustrati a Istanbul i risultati delle missioni archeologiche italiane in Turchia. Questa nuova scoperta dell'archeologia preclassica, da portare avanti nella Cappadocia meridionale, è stata fatta a Kinik Hoyuk, in un sito del IX a.C. L'area fa parte del regno dimenticato di Tuwana, finora noto attraverso geroglifici e alcune fonti dell'impero assiro ma mai studiato archeologicamente. Un sito intatto, in cui nessuno ha messo mano cercando di collocarlo storicamente per capire a che civiltà appartenga e che ruolo abbia svolto in questa regione.
Quello di Kinik Hoyuk, per dimensioni è fra i siti di maggiori dell'Anatolia preclassica, se si esclude Hattusa, la capitale degli Ittiti: le stime più caute lo inquadrano su 24 ettari ma i topografi ci dicono che potrebbe essere di 81 ettari. A lavorarci è una missione avviata congiuntamente dall'Universita' di Pavia e da quella di New York, aperta a collaborazioni con università turche quali Erzurum e Nigde. Il sito era stato lambito da ricognizioni di altri archeologi, ma la sua importanza è emersa dalla ricognizione che abbiamo fatto noi, ha detto d'Alfonso ricordando che la Cappadocia meridionale è importante perchè aveva il controllo sulle Porte cilicie, ossia sul passaggio fra Oriente e occidente, e fra l'Europa e l'Asia: insomma uno degli snodi più importanti del mondo in quel periodo e al cui centro si colloca Kinik Koyuk.
Quello di Tuwana era un piccolo stato cuscinetto fra il regno di Frigia e l'impero assiro e proprio per questo particolarmente ricco: uno dei grandi temi del nostro studio è legato alla ricchezza culturale di questo regno, ha sottolineato l'archeologo riferendosi soprattutto allo sviluppo dell'alfabeto. In particolare sono state rinvenute nelle vicinanze tre stele di età del ferro, non in ottimo stato di conservazione ma che dicono molto dell'importanza che doveva avere il sito.
La strategia di scavo è stata guidata da prospezioni geomagnetiche che avevano evidenziato uno stato di conservazione particolarmente significativo della cinta muraria dell'acropoli e di edifici al centro dell'acropoli stessa: mura monumentali scavate per un alzato che per arriva a sei metri e in uno stato di conservazione che non trova facili paragoni all'interno dei siti preclassici dell'Anatolia, in particolare di quella centrale. Delle mura è stato rinvenuto l'intonaco originale e si punta ad un consolidamento in vista di un restauro già a partire da quest'anno. Lo scavo infatti è stato pensato fin dall'inizio per una musealizzazione all'aperto: Kinik Hoyuk, un luogo facilmente accessibile. Il suo punto di forza è quello di essere a 45 minuti dai maggiori centri di attrazione turistica della Cappadocia (e a meno di 2 km da una delle maggiori arterie della regione, a 4 corsie).
Insomma è nel cuore di un circuito turistico fra i più importanti di tutta la Turchia e quindi il governo locale supporta pienamente la missione vedendo, in questa, una grande possibilita' di sviluppo.

Fonte: ANSA

giovedì 20 novembre 2014

Corso di Archeologia della Sardegna

Corso di Archeologia della Sardegna




Inizieranno martedì 25 novembre le lezioni di archeologia della Sardegna presso l'aula magna dell'università di Quartu, in Viale Colombo 169. Docente per il 4° anno consecutivo sarà il Dr. Pierluigi Montalbano. 
Il numero di lezioni previste è 24, e termineranno in Maggio 2015.
Per le iscrizioni telefonare in segreteria al numero 0708696096

In riferimento ai contenuti del corso, si proporrà una panoramica a 360° sulla preistoria in Sardegna. Con l'ausilio di immagini e filmati, le lezioni documenteranno il modo di vivere dei sardi dal Neolitico all'età del Ferro. 
Saranno forniti gli strumenti concettuali per l'interpretazione dei manufatti, delle architetture e delle sepolture presenti in Sardegna. Il corso prevede un approfondimento sulla civiltà nuragica e sul sistema economico che ha consentito all'isola di mantenere i contatti con gli altri popoli del Mediterraneo  antico. 
Ogni lezione sarà legata ad un argomento specifico e gli argomenti saranno trattati con un linguaggio divulgativo pur mantenendosi strettamente scientifici. 
Sono previste alcune visite guidate nei musei per legare la teoria alla visione diretta dei manufatti studiati nelle lezioni. 






Sito internet  - http://www.univerquartu.it





Nelle immagini...una selezione di alcuni corsi che potrete frequentare nella nostra Università.

mercoledì 19 novembre 2014

La monetazione antica in Sardegna e a Cartagine

La monetazione antica in Sardegna e a Cartagine
di Pierluigi Montalbano

La monetazione appare in Sardegna nel IV a.C., ma fin dalla metà del II Millennio a.C. il rame, sotto forma di lingotti ox-hide, ossia a forma di pelle di bue, rappresentava l’elemento più utilizzato per pagare. In Sardegna gli archeologi hanno portato alla luce dei tesoretti costituiti da lingotti o panelle in rame, conservati in luoghi denominati ripostigli. Gli oggetti in bronzo, spesso ritrovati nei templi a pozzo, sono realizzati con la lega fra rame e stagno e il loro valore non era legato solo all’aspetto estetico. Questi manufatti sono pregiati anche dal punto di vista del peso. In alcune tombe sarde e siciliane, cronologicamente inquadrabili al 550 a.C., sono stati rinvenuti numerosi orecchini in argento a canestrello. Nell’area orientale, l’argento era il metallo di riferimento e l’unità di misura era lo shekel, il siclo, che corrispondeva a 7.2 grammi.

Cartagine coniò le prime monete in argento dopo il 500 a.C. per esigenze militari, e a seguire troviamo monete coniate in Sicilia. Durante le guerre che coinvolgevano Siracusa, erano utilizzati mercenari provenienti dal mondo greco, pertanto la forma di pagamento era in dracme d’argento emesse dalla madrepatria. E’ per questo motivo che le prime monete coniate da Cartagine hanno l’aspetto di quelle siracusane. In Sardegna non abbiamo monete d’argento attribuibili a una zecca isolana, e le prime monete sono in bronzo di piccolo diametro e notevole spessore. Le prime monete coniate nell’isola appartengono a sette serie. Il conio avveniva confezionando dischetti di bronzo (per fusione) dell’unità di peso nominale. Le monete erano collocate su una base in ferro, sulla cui sommità era incisa una delle facce. L’altra faccia era su un martello destinato a percuotere, incidendola, la moneta. Sul dritto, dalla prima alla sesta serie, compare il profilo della dea Kore, mentre nella settima c’è un personaggio giovane. Sul rovescio, invece, nella prima serie c’è la testa di un cavallo, che compare a figura intera nella seconda, terza e quarta serie. Nella quinta ci sono tre spighe di grano, mentre nella sesta e settima compare un toro.

Immagine di www.webitalia.club

martedì 18 novembre 2014

I Tofet, i cimiteri fenici dedicati ai bambini

I Tofet, i cimiteri fenici dedicati ai bambini
di Pierluigi Montalbano


Si tratta di santuari caratteristici dell’area mediterranea centrale.
Sono assenti in Libano, Spagna e Ibiza. Li troviamo in Tunisia (Soùsse e Cartagine), Sicilia (Mòzia, Solùnto e Lillibèo) e Sardegna, a Tharros, Sulci, Monte Sirai, Nora, Cagliari e Bithia. In Africa di età neo-punica, dopo la prima distruzione di Cartagine, abbiamo una proliferazione di tofet.
Sono santuari a cielo aperto in cui l’elemento preponderante non è l’edificio, anche se a volte può esserci. Il tophet è sempre circondato da un temenos (un recinto sacro), all’interno del quale c’è la deposizione di urne in ceramica e stele in pietra.
Generalmente si realizzava a nord dell’abitato in una posizione periferica e non veniva mai spostato: qualora si dovevano fortificare le città, per non spostarlo si arrivava a modificare il percorso delle mura. Le urne contengono le ceneri di fanciulli, infanti, agnelli e capretti e, sporadicamente, uccelli. I bambini potevano essere feti o neonati ma a volte si arrivava fino ai tre-quattro anni. Le urne sono sempre vasi in ceramica di diversa forma e dobbiamo intendere l’urna come elemento di una funzione e non come vaso.
È sempre dedicato a due divinità: Baal Ammon e Tanìt, attestata come “manifestazione di Baal”, che lo affianca a partire dal V a.C. per poi soppiantarlo. Il primo è una divinità dinastica minore attestata raramente in oriente ma a Cartagine acquista importanza e spesso è accompagnata dalla divinità femminile. I greci lo identificano con Krono e i romani con Saturno, quindi è una divinità ancestrale, cioè deriva dai remoti antenati. Anche Tanìt è una divinità orientale che raramente è attestata in Libano, ma in Occidente diviene la più importante insieme ad Astarte. Nelle interpretazioni greca e latina era assimilata a Era o Celèstis (Giunone). Prima del tofet di Cartagine sono stati individuati quello di Nora, sulla spiaggia orientale della città nel 1889, e quello di Mozia, in Sicilia, ma non furono interpretati come santuari, si pensò a semplici necropoli a incinerazione. Solo a Cartagine furono eseguite analisi osteologiche sui resti e ci si rese conto che si trattava di bambini. Gli studiosi ipotizzarono che si trattasse di sacrifici umani, come quelli documentati nella Bibbia. Non bisogna dimenticare che i primi archeologi erano semitisti che si formarono sulla Bibbia e quindi pensarono ai sacrifici celebrati in oriente vicino a Gerusalemme e menzionati in alcuni brani delle Sacre Scritture.

Ci sono diversi passi che parlano di tofet e di figli che vengono sacrificati agli dei con il passaggio dentro il fuoco. Il rito era condannato da Dio ma ci si rese conto che i tophet vicino a Gerusalemme di cui parlava la Bibbia, nel Deuteronomio e nel libro dei Re, potevano essere gli stessi. È evidente che i popoli mediterranei non li chiamavano così, si tratta di un termine convenzionale usato in archeologia. Fino agli anni Ottanta, dalla lettura delle fonti classiche (Diodoro, Plutarco, Platone, Tartulliano), si è pensato ad un rituale con sacrificio di bambini a Krono (Baal-Ammon o Saturno) in caso di grave pericolo per la popolazione ma questa ipotesi è stata confutata dal Moscati che evidenzia importanti elementi: le analisi istologiche hanno mostrato la presenza di feti, mettendo in dubbio la teoria del sacrificio; altro elemento è l’interpretazione delle fonti classiche perché non si trattava di usanze ma di casi di particolare pericolo: pestilenze, guerre e quindi uccisioni in situazioni eccezionali. Anche nella Bibbia si parla di fatti occasionali e non di uccisioni rituali ripetute.

Ad esempio, nel Deuteronomio è scritto: “e persino bruciavano al fuoco, per i loro Dei, i figli e le figlie loro”; o ancora “non deve trovarsi in te chi fa passare nel fuoco il figlio o la figlia sua”; oppure dal libro dei Re: “camminò per la strada dei re d’Israele e fece perfino passare per il fuoco il suo figliolo secondo gli abominevoli rituali delle genti che il Signore aveva cacciate davanti ai figli d’Israele”. Un rituale, dunque, non accettato da Dio ma voluto da una divinità estranea. Vicino a Gerusalemme c’è un luogo chiamato Tophet, è nominato ad esempio nel libro dei Re: “Lì farò il Tophet, nella valle di Ben Innom, e nessuno faccia più passare per il fuoco i propri figli in onore di Moloch”; e ancora Geremia: “costruiscono un altare di Tophet nella valle di Ben Innom per bruciare i propri figli nel fuoco, ma io non ho comandato né mai mi venne in mente perciò verrà il tempo, dice il Signore, che non si chiamerà più tophet né valle di Ben Innom ma Valle dell’eccidio, e si seppelliranno nel tophet per mancanza di posto”.
Geremia: Hanno eretto un altare per bruciarvi col fuoco i loro figli in olocausto a Baal, cose tutte non comandate da me, né mai venutemi alla mente, perciò ecco che vengono i giorni, dice il Signore, che questo luogo non si chiamerà più Tophet ne Valle di Ben Innom, ma Valle della strage”.

Quindi Tophet non è un nome generico ma il nome di un luogo in cui si svolgeva un rito pagano, non voluto da Dio, che prevedeva il sacrificio di far passare i figli nel fuoco. Nel momento in cui a Cartagine sono state trovate queste urne con centinaia di bambini incinerati, gli studiosi hanno pensato al luogo di cui parlava la Bibbia, un tipo di santuario simile a quello documentato in oriente. Questa teoria del sacrificio umano dei primogeniti alle divinità è andata avanti e ancora Barreca nel 1980 la porta avanti ma le fonti classiche non parlano in maniera esplicita di sacrifici umani di bambini, ma di sacrifici per placare l’ira delle divinità solo in caso di condizioni di pericolo ed eventi drammatici: pestilenze o nemici fuori dalle mura.
Dice Gaudesio: “c’era l’usanza presso gli antichi, in caso di grave pericolo, che i capi della città o della popolazione, per evitare la distruzione di tutto, facessero sacrificio dei più cari dei loro figli, come riscatto per i demoni vendicatori. Quelli che erano prescelti venivano sgozzati nel corso di un rituale cerimoniale misterioso”.
Ē un toponimo preciso, riferito ad una valle presso

lunedì 17 novembre 2014

Archeologia. Chi sono gli antenati degli Europei?

Chi sono gli antenati degli Europei?
di Grazia Terenzi
Gli Europei hanno un mix eterogeneo di geni provenienti da almeno tre antichi progenitori: gli indigeni cacciatori-raccoglitori europei, genti del Medio Oriente e popolazioni provenienti dalla grande steppa orientale e dall'Asia centrale.
Uno studio recente suggerisce che ogni componente genetica si sia inserita in Europa attraverso migrazioni separate avvenute negli ultimi 5000 anni. Il Dna di un antico scheletro fossile di unuomo dalla pelle e dagli occhi scuri vissuto almeno 36.000 anni fa lungo il medio corso del Don, in Russia, presenta un panorama diverso. Questo giovane aveva il Dna di tutte e tre le popolazioni prima elencate e, secondo il biologo evoluzionista Eske Willerslev, del Museo di Storia Naturale di Danimarca presso l'Università di Copenaghen, che ha condotto le indagini, sarebbe il primo caso finora accertato di "puro europeo". La ricerca del Professor Willersley contraddice la teoria delle migrazioni in tempi diversi e avvalora l'ipotesi che gli attuali europei siano i discendenti di un'antica popolazione "imparentata" con i cacciatori-raccoglitori, che si era già diffusa in tutta Europa ed in gran parte dell'Asia centrale e occidentale già 36.000 anni fa.
I primi esseri umani "moderni" si trasferirono in Europatra i 45.000 e i 42.000 anni fa. Forse vennero in contatto con i Neanderthal, che popolarono il Vecchio Continente per almeno 400.000 anni. A partire da 10.000 anni fa, poi, una popolazione di 

domenica 16 novembre 2014

OGLIASTRA, AGUGLIASTRA, AUGLIA, di Massimo Pittau

OGLIASTRA, AGUGLIASTRA, AUGLIA
di Massimo Pittau


Ogliastra (pronunzia effettiva Ozástra od Ollástra) -
Questo coronimo indica la subregione della Sardegna situata fra il massiccio del Gennargentu e la costa orientale dell'Isola. Esso corrisponde all'appellativo ozastru, ollastru, ollastu «olivastro, olivo selvatico», che deriva dal lat. oleastru(m) (NVLS), significando pertanto «zona di olivastri». E c'è da supporre che in origine il toponimo indicasse una zona assai ristretta, la quale però col passare del tempo ha allargato la sua valenza geografica, finendo con l'indicare una intera subregione.
È da respingersi con decisione la spiegazione, che risale ai cartografi medievali e anche al Fara (Chorographia Sardiniae 72.9) (V. Angius, s. v.), secondo cui Ogliastra deriverebbe dal nome dell'Isola di Agugliastra, posta al centro del Golfo di Arbatax.
Un toponimo Ozastra esiste anche negli agri di Lodè, di Padria e di Sagama.
Agugliastra - Isolotto di porfidi rossi eruttivi posto al centro del Golfo di Arbatax. Il toponimo deriva da un lat. *aquilastra «aquila di mare» [cfr. sardo abbilastru «aquilotto, gheppio, sparviero, uccello rapace in genere» (NVLS), ital. aquilastro «falco pescatore», sicil. aquilastra «aquila anatraia»; DEI, GDLI, LEI], ma con l’intrusione dell’ital. aguglia, guglia riferito a qualcuno dei suoi scogli. Si deve escludere assolutamente che Agugliastra derivi da Ogliastra o viceversa (erra Emidio De Felice, Le coste della Sardegna - saggio toponomastico storico-descrittivo, Cagliari 1964, pgg.39-40).
Auglia, Punta Aúglia (Baunei) - Si trova sulla costa orientale della Sardegna, poco a nord del Capo di Monte Santu. Trae la sua denimonazione dal fatto che termina con una roccia appuntita a forma di «aguglia o guglia». Viene chiamata in questo modo dai pescatori e marinai della zona, mentre nella cartografia ufficiale viene detta Punta Caroddi (CS 33). Cfr. Agugliastra.*

*Estratti dall'opera di Massimo Pittau, I toponimi della Sardegna – Significato e origine, 2 Sardegna centrale, Sassari, 2011, EDES (Editrice Democratica Sarda).


sabato 15 novembre 2014

Architettura rurale: Pietre e ambiente, il mondo dei megalitici

Architettura rurale: Pietre e ambiente, il mondo dei megalitici
di Pierluigi Montalbano


Scrive Braudel: “è stato il mare a creare le terre e le pietre, e l'acqua di mare ha lasciato ovunque la traccia del suo lento lavoro: al Cairo i calcari sedimentari di grana fine bianco latte permetteranno al cesello dello scultore di dare la sensazione del volume giocando su incisioni profonde solo qualche millimetro; le grandi placche di calcare corallino dei templi megalitici di Malta; la pietra di Segovia che si bagna per lavorarla più facilmente; i calcari delle enormi cave di Siracusa; le pietre d’Istria portate a Venezia; e tante rocce della Grecia, della Sicilia, della Sardegna, sono tutte nate dal mare. Se l'attenzione si sposta sulle terre che circondano il mare, si arriva a parlare, come avviene oggi, di Lago Mediterraneo, e di puntare l'attenzione su quei territori di pietra che negli anni hanno dato riparo e ristoro a chi fuggiva dal mare per evitare tempeste, malattie e guerre”.
Da uno sguardo allargato al paesaggio del Mediterraneo, restringiamo il nostro orizzonte e fermiamoci alle pietre della Sardegna. Le architetture del paesaggio rurale caratterizzano l’isola, e pur non lasciando nomi di architetti da ricordare, sono un libro aperto in cui si può leggere una storia millenaria. L'architettura rurale è il frutto di una molteplicità di relazioni che hanno strutturato nel tempo tutta l’isola: la morfologia del posto, il clima, l'economia e la tecnologia. Rossella Barletta, descrivendo l’architettura rurale salentina, afferma che muretti a secco, terrazzamenti e paiare sono costruzioni realizzate in sede locale da popolazioni che lavorano senza servirsi di professionisti, ma facendo ricorso esclusivamente a quanto appreso per tradizione orale. La tecnica deriva dalla pratica. Le stesse parole possono descrivere i muri a secco della Sardegna: sono architetture consolidate che non presentano segni rilevanti di sviluppo nel tempo, resa sicura dall'esperienza che ha contribuito a stratificare le conoscenze. Essendo collegati all'ambiente

venerdì 14 novembre 2014

Atene, archeologia: trovato scheletro in tomba greca di Amfipolis

Atene, archeologia: trovato scheletro in tomba greca di Amfipolis

L'imponente monumento funebre di recente riportato alla luce nella località di Kastà, presso Amfipolis (Grecia settentrionale), continua a riservare sorprese. Secondo quanto annunciato dal ministero greco della Cultura, infatti, nella terza sala sotterranea da poco scoperta gli archeologi hanno rinvenuto uno scheletro umano del quale non è stato ancora accertato il sesso e che potrebbe portare alla soluzione del principale mistero nella tomba monumentale, ovvero l'identità della persona che vi fu sepolta. La risposta al mistero potrebbe venire dall'esame del Dna dei resti ossei che ora verranno esaminati dagli esperti per cercare eventuali collegamenti con la famiglia del condottiero greco Alessandro Magno. "Gli scavi - come ha spiegato Katerina Peristeri, responsabile della squadra di archeologi che lavora al monumento - proseguiranno. Continueremo perché lo spazio circostante ci riserva ancora sorprese". Circa il sesso della persona lì sepolta, l'esperta ha aggiunto che "la tomba era stata preparata per accogliere una grande personalità, magari un generale macedone, insomma qualcuno che all'epoca era tenuto in grande considerazione". 

Fonte: ANSA.

giovedì 13 novembre 2014

Offerte commerciali. Auto della settimana

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Usato per usato - Finanziamenti fino a 60 mesi - Garanzia di conformità 12 mesi
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In un vaso rappresentate le costellazioni nell'antica Grecia

In un vaso rappresentate le costellazioni nell'antica Grecia
di Grazia Terenzi

Per lungo tempo si è pensato che un'antica coppa per vino di fattura greca recasse confuse rappresentazioni di animali in una scena di caccia. Oggi, invece, ci sono fondate ipotesi che le raffigurazioni sulla coppa si riferiscano allecostellazioni. Se questo fosse accertato, si tratterebbe di un importante reperto per laconoscenza dell'astronomia nell'antica Grecia.
La coppa - uno skyphos - è attualmente in mostra al Museo Archeologico di Lamia e risale al 625 a.C.. Fu scoperta nei pressi di un tempio sull'acropoli di Halai, a circa 40 chilometri a nord di Tebe. Sul reperto sono stati rappresentati un toro, un serpente, una lepre (o un piccolo cane), un grosso cane, uno scorpione, un delfino e una pantera (o un leone).
Questi animali hanno catturato l'attenzione diJohn Barnes, un dottorando in archeologia classica presso l'Università del Missouri, che ha notato la corrispondenza degli animali con alcune stelle. Lo scorpione, per esempio, solitamente non viene rappresentato che sugli scudi e non sulle coppe da vino. In uno studio pubblicato sulla rivista Hesperia, Barnes suggerisce che il toro corrisponde alla costellazione omonima, il serpente alla costellazione di Hydra, il coniglio è Lepus, il cane è il Cane Maggiore o Cane Minore, lo scorpione è Scorpius e così via.
Barnes afferma che gli animali sono disposti in base al loro legame con le stagioni: il toro con l'autunno, il coniglio e il cane con l'inverno, il cane e lo scorpione con la primavera, il delfino e il leone con l'estate.


Fonte: oltrelanotte.blogspot.com

mercoledì 12 novembre 2014

La formula etrusca MLAX MLAKAS

La formula etrusca  MLAX MLAKAS
di Massimo Pittau


Nella rivista «OEBALUS Studi sulla Campania nell'Antichità» (4, 2009, pgg. 365-385), Massimo Poetto e Giulio Mauro Facchetti hanno pubblicato una nuova importante iscrizione etrusca scalfita su un pregevole aryballos portaunguenti, di tipo etrusco-corinzio, ascrivibile alla seconda metà del VII secolo a. C. Siccome la scrittura dell'iscrizione è molto curata e in più la sua struttura linguistica mi sembrava troppo “lineare”, confesso che in un primo momento dubitai della genuinità dell'iscrizione ed espressi questo mio dubbio al collega Poetto. Più tardi ho cambiato idea, tanto è vero che l'ho inserita e tradotta nella recente II edizione digitale del mio Dizionario della Lingua Etrusca (sigla DETR) (Ipazia Books 2014, Amazon).
A causa dei ritardi di carattere editoriale che ormai da tempo affliggono la rivista “Studi Etruschi”, mi era sfuggito che della citata iscrizione aveva dato notizia Giovanni Colonna e insieme era intervenuto per correggere in qualche punto i due editori dell'iscrizione nella rassegna REE, MMVIII (2011) 172, pgg. 417-418.
Io oggi intervengo in primo luogo per segnalare ed eliminare alcuni errori commessi dai tre citati colleghi, in secondo luogo per presentare una mia proposta di traduzione dell'iscrizione.
Innanzi tutto preciso ai tre colleghi che io ho sempre considerato almeno "strana" e "peregrina" la interpretazione della formula mlaχ mlakas come «buono per cosa buona, «cosa buona per un buono», «bello per la bella». Su questa formula invece esisteva da tempo una consolidata comunis opinio (ad esempio di A. Trombetti, C. Battisti, M. Runes, K. Olzscha, F. Slotty, M. Pallottino), secondo cui essa in realtà è una "formula di offerta". Il Pallottino negli "Studi Etruschi" (1931, 1996) aveva scritto ripetutamente e pure testualmente: «Il concetto di donazione ex voto (mlaχ) nell'ambito funerario è ormai acquisito con certezza».

martedì 11 novembre 2014

Età del Bronzo. Meraviglie da un kurgan sarmat

Meraviglie da un kurgan sarmat
di Grazia Terenzi

                                  Lo scheletro ritrovato in Russia (Foto: Leonid Yablonsky)
Quest'estate, nelle steppe meridionali degli Urali, in Russia, è stato scavato un tumulo a Sarmata che ha restituito un insolito e ricco tesoro. I manufatti contenuti all'interno del tumulo stanno contribuendo a far luce su un periodo poco conosciuto della cultura nomade che fiorì nella steppa euroasiatica nel I millennio a.C.. A studiare il tumulo, detto kurgan, ed i reperti in esso contenuti vi è la spedizione dell'Istituto di Archeologia dell'Accademia Russa delle Scienze, guidata dal Professor Leonid T. Yablonsky.
Le popolazioni nomadi non avevano una lingua scritta e gli scienziati possono apprendere notizie sulla loro vita e le loro tradizioni solo attraverso i dati archeologici. Queste antiche sepolture, i kurgan, sono sparsi un po ovunque, nelle steppe, e contengono molte reliquie di Sciti e Sarmati che, pur interagendo economicamente con gli Achemenidi e la civiltà greca, conservarono a lungo una loro identità culturale.
Quest'anno gli archeologi hanno scavato la parte orientale della Tomba 1 del kurgan di Filippovka 1, nella regione di Orenburg. Questa sezione, di 5 metri di altezza e 50 di lunghezza, era stata lasciata inesplorata dalla precedente spedizione di più di venti anni fa. L'obiettivo del Professor Yablonsky era quello di completare lo studio di questo straordinario monumento, già rientrato negli annali dell'archeologia mondiale per la scoperta di 26 statuette d'oro raffiguranti

lunedì 10 novembre 2014

Neolitico recente. Uccelliurlatori dei (Nuraghi): gli Angeli della Preistoria.

Neolitico Recente. Uccelli urlatori dei (Nuraghi): gli Angeli della Preistoria
Articolo di Salvatore Craba

Sono innumerevoli pietre intagliate, modellate a figura di uccello, che si trovano in tutti i territori della Sardegna, scolpite dagli antichi abitanti dell’isola a partire dal Neolitico e utilizzate fino ai primi secoli dell’era cristiana. Si tratta di forme che rivelano appassionanti riti arcaici creati dai preistorici che, concettualmente e metafisicamente, cercavano un contatto trascendentale con entità di natura divina: i loro dei. Le pietre hanno forme che ben rappresentano la mansione di traghettatori, postini...con il compito di trasportare le invocazioni terrene. Un orientamento religioso insomma, con simboli considerati determinanti per relazionarsi con gli dei. Queste pietre modellate, da me denominate uccelliurlatori, si ritrovano esclusivamente con il becco spalancato al fine di trasmettere un messaggio: urlare agli dei invocazioni e desideri. Bocca e occhi, che io evidenzio con il colore, caratterizzano l’unicità di ciascuna delle modellazioni. Uccelliurlatori che, appunto, urlavano nel cielo infinito realizzando un metafisico contatto tra le volontà terrene e le celesti divinità che dimoravano nell’impenetrabile cielo. I nostri antichissimi predecessori erano consapevoli della loro limitatezza di conoscenze e cercavano di intuire le indicazioni degli dei attraverso l’analisi del volo e delle posture degli uccelli. Essi scrutavano il cielo alla ricerca di segnali trasmessi dagli amici messaggeri, decifrando dalle loro direzioni, posture e canti le risultanti presunte indicazioni che gli dei decidevano di inviare, un usanza non esclusiva della nostra isola ma accertata anche in altri popoli delle sponde del Mediterraneo.

Per capire meglio occorre proiettarsi nel passato col pensiero e ragionare come se si stesse vivendo al tempo dei primi elementari apprendimenti vitali e conoscitivi, un periodo insicuro, buio di conoscenze, nel quale gli antichi si misuravano alla pari con la natura e i suoi eventi, attribuendo spiegazioni divine a tutte le circostanze sconosciute. Forse le loro convinzioni erano orientate a immaginare che gli alati pennuti non avessero volontà propria, ma fossero mossi dalle indicazioni impartite dagli dei, pertanto li consideravano a servizio delle entità divine superiori, tramite esistenziale di collegamento tra la terra e il cielo. Insomma, i nostri avi erano convinti che gli uccelli fossero i messaggeri degli dei, e preparavano una figura rappresentativa per effettuare una richiesta e ottenere una risposta: un uccello in pietra al quale affidare l’invocazione. Gli uccelli, unico tramite tra il cielo e la terra, traghettavano la supplica scomparendo come per incanto nel cielo infinito, regno celeste e sconosciuto.

domenica 9 novembre 2014

Archeologia. Nuova tecnica di analisi di antico DNA sperimentata in anfore greche del V a.C.

Nuova tecnica di analisi di antico DNA sperimentata in anfore greche del V a.C.


(Oleksii Zaborovets/iStockphoto.com)

Sono molte le anfore intatte conservatesi nei relitti e in altri siti. Quasi tutte sono però purtroppo vuote, senza alcun evidente indizio di quello che una volta era il contenuto.
Per ricavare il materiale genetico residuo, i ricercatori hanno dunque utilizzato due metodi: uno, classico, è stato eseguito rimuovendo pezzi di ceramica; l’altro, preso da CSI, è stato fatto strisciando le anfore con un tampone. L’idea è venuta dalla Polizia di Stato del Massachusetts, i cui investigatori sono stati interpellati.
Un team guidato dall’archeologo marittimo Brendan Foley, della Woods Hole Oceanographic Institution, ha testato il nuovo protocollo su nove anfore del V-III a.C., rimaste abbandonate in un magazzino di Atene per oltre un decennio. Tutte erano state tirate su dalle reti dei pescatori, prima di essere consegnate al governo greco negli anni ’90.
I risultati suggeriscono che il metodo del tampone funziona meglio. I dati mostrano peraltro che in queste anfore l’olio d’oliva, le olive, o una combinazione dei due, erano più comuni dei prodotti dell’uva come il vino. Molte anfore avevano anche tracce di DNA di origano, timo, menta – forse usati per insaporire e conservare i cibi. Più comune di tutti era però il DNA di cespuglio di ginepro, “non qualcosa di tipico quando si pensa alla dieta degli antichi Greci”, dice Foley. “Forse un bel po’ di bacche di ginepro venivano aggiunte a cibi e bevande nel mondo antico”.
Otto delle nove anfore portavano DNA di una complessa miscela di alimenti, il che ha portato Foley a sostenere l’ipotesi fatta da alcuni studiosi che le anfore venivano riutilizzate per il commercio marittimo, invece di essere buttate dopo un viaggio.
Nonostante il team di Foley abbia provveduto ad evitare contaminazioni, c’è chi è dubbioso che la tecnica abbia funzionato nel modo in cui è stata pubblicizzata. E “notevole” che l’anfora “rilasci DNA endogeno semplicemente strofinando la superficie”, ha dichiarato Craig Oliver, dell’Università di York, in Inghilterra. Craig, specialista nel recuperare DNA e altre molecole dagli oggetti antichi, avrebbe bisogno di vedere altri test di controllo per convincersi.
Ma se la tecnica venisse convalidata, costituirebbe uno strumento prezioso, dicono altri archeologi. “Se quell’analisi potesse essere fatta su un qualsiasi vaso antico conservato in un magazzino da molto tempo, sarebbe una cosa grandiosa”, afferma Mark Lawall, esperto di anfore presso l’Università di Manitoba, in Canada. Consentirebbe ai ricercatori di definire con precisione il contenuto di anfore trovate su uno specifico relitto, per esempio, e poi calcolare il valore del carico della nave – offrendo un’idea migliore sulle economie antiche.

Fonte: Journal of Archaeological Science

sabato 8 novembre 2014

I due milioni per Mont'e Prama? Una bufala strumentalizzata

I due milioni per Monte Prama? Per Cappellacci, ex governatore della Sardegna, sarebbero una bufala di Pigliaru e Barracciu.

"I due milioni annunciati dalla sottosegretaria Barracciu non sono in arrivo dal Governo, ma sono quelli già stanziati nella passata Legislatura". Parole di Cappellacci che ha diffuso la delibera adottata nella precedente Legislatura con cui venivano destinate le risorse per la valorizzazione del complesso scultoreo.
Questo il testo diffuso dall’ex governatore:
"E' con la delibera della Giunta regionale n. 33/2 del 31 luglio 2012, che fa seguito all’accordo firmato dal precedente governo regionale con il ministro, e con quella Cipe 93 del 3 agosto 2012 – spiega Cappellacci- che sono stati stanziate le risorse. Inoltre in seno alla Cabina di Regia permanente, costituita il 4 dicembre 2012, è stata definita la destinazione agli interventi specifici. L'allungamento dei tempi è dovuto alle lungaggini del Ministero, ben distante dalla tanto decantata attenzione.
Delle due è l’una: o la Barracciu ha avuto la sorprendente capacità di reperire ulteriori due milioni oppure, nel tentativo di ritagliarsi una parte, ha convocato in fretta e furia i giornalisti per annunciare un lavoro già svolto da altri.
Sarebbe un'ulteriore capitolo della commedia di questi mesi, come se la scena in cui negli anni passati si è lavorato dovesse essere liberata per dare spazio a qualche passerella mediatica.
E' triste che in tutto questo il presidente Pigliaru si presti a fare da spalla a simili sceneggiate. E’ l’ennesimo episodio in cui la Giunta e il Governo, che non fanno niente e che in conferenze stampa fanno proclami, riescono a ribltare la realtà”.