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venerdì 28 febbraio 2014

Perché in Sardegna costruirono i nuraghi?

Perché in Sardegna costruirono i nuraghi?
di Pierluigi Montalbano


Probabilmente i nuraghi a corridoio precedono il concepimento della prima torre, e sebbene le prove stratigrafiche siano lontane dall’indicarlo indiscutibilmente, effettivamente è un’ipotesi ragionevole. Se così fosse, si tratterebbe di porsi il problema della comparsa dei nuraghi a corridoio, ideati per il progressivo mutare della stratificazione sociale delle comunità dell’età del rame, con la formazione di una “classe elevata” che rivendica una posizione di prestigio attraverso l’edificazione di un edificio simbolo di status, la stessa che, in un secondo momento, richiederà la costruzione di una torre. Il nuraghe a corridoio, stratigrafie alla mano, mostra lo stesso tipo di accumulo antropico delle torri, senza eccezione, indicando che funzione e logica dovevano essere gli stessi. La comparsa della torre in pietra non appare più come una cesura, piuttosto come un’evoluzione, anche se rimane il problema delle differenze architettoniche tra le due tipologie di edifici.
La sovrapposizione delle tipologie stratigrafiche tra nuraghi a corridoio e torri, indicandone la medesima funzione e senso, chiarisce come le errate ipotesi che vorrebbero i nuraghi delle fortezze militari, dei templi o degli edifici simbolici, siano da scartare pur se l’edificio riveste un carattere simbolico come centro di aggregazione della comunità. Nell’ipotesi ragionevole che il nuraghe a corridoio preceda la torre, ci troviamo di fronte a una classe dirigente che, in un determinato luogo, decide di realizzare la prima con le medesime finalità che hanno portato all’edificazione dei precedenti, con la convinzione che un edificio di questo tipo avrebbe maggiormente soddisfatto le proprie necessità. La prima torre fu costruita pensando semplicemente a un edificio che avesse le stesse finalità di un nuraghe a corridoio, ma ne rappresentasse una versione “evoluta” sia in senso funzionale che simbolico.
È bene ricordare che mentre le torri ci sono pervenute praticamente intatte, salvo la struttura del ballatoio, i nuraghi a corridoio sono mancanti dell’eventuale struttura lignea soprastante quella in pietra, la cui percentuale rispetto all’intero edificio, non è nota. Alcune osservazioni equilibrate (ad esempio il compianto Lilliu a proposito del Brunku Madugui di Gesturi), suggeriscono che i primi nuraghi a corridoio potessero essere basamenti per importanti strutture lignee soprastanti e, se così fosse, la struttura generale della successiva torre non sarebbe concettualmente così distante da loro. Si tratterebbe di costruire interamente in pietra un edificio fino ad allora realizzato in pietra sovrastato da una struttura aerea in legno. A mio avviso i nuraghi a corridoio furono una evoluzione dalla semplice capanna di pietre a secco e legno, una sorta di capanne evolute sviluppate da un processo di diversificazione sociale riscontrabile in tutte le società dell’età del rame.
Sottolineo che non si può costruire un edifico intermedio (in pietra, a secco) tra un nuraghe a corridoio e una torre, per il semplice motivo che non starebbe in piedi: una torre realizzata in pietra a secco è un sistema complesso di conci che interagiscono, e alcune delle proprietà dell’edificio sono indipendenti dalla volontà dei costruttori e indispensabili per la stabilità strutturale. In altre parole, una torre nuragica non è un edificio per architetti, perché si rifiuta di adattarsi a certe richieste, imponendo forme, dimensioni e soluzioni tecniche obbligate.
Se la torre è una proprietà emergente della società dell’epoca, la comparsa della prima deve aver indotto una rapida imitazione dei vicini e la sua diffusione, una sorta di moda architettonica dell’epoca.
A questo punto, dobbiamo domandarci se la torre richiese la creazione di nuove nozioni tecniche e la presenza di ingenti risorse.
Gli elementi architettonici per la realizzazione di un nuraghe a corridoio e/o di una torre non erano nuovi né rivoluzionari. La tholos è presente in ogni parte del mondo da tempi ben più antichi ed è una soluzione obbligata al problema di ottenere una volta chiusa in una struttura a secco. Si tratta di una proprietà emergente di un insieme di conci che interagiscono tra loro avendo come stabilizzazione l’azione della forza di gravità e l’attrito reciproco. I sardi, posti di fronte al problema, ottennero la soluzione corretta, come tutti gli altri, prima e dopo di loro, che si trovarono nella necessità di farlo. In altri termini, se un architetto fantasioso disegnasse una torre cava a secco con profilo quadrangolare, non potrebbe costruirla: i sardi non decisero la forma della tholos, furono obbligati. Non sappiamo quanto tempo impiegarono e quanti tentativi, tuttavia un esame delle torri ancora in piedi ne segnala di ben realizzate, di mediocri, di eleganti, di tozze, alcune ristrutturate o rifasciate al fine di stabilizzarle ed evitarne il crollo. Si va dal capolavoro alla porcheria vera e propria, tra soluzioni geniali e incomprensibili sciocchezze. Allora, come adesso, c’erano i costruttori bravi, quelli mediocri e quelli incapaci, e certamente questi ultimi furono posti in condizione di non nuocere, al contrario di quanto accade nella società odierna. Probabilmente si cominciò con torri semplici e si progredì come avviene in qualunque ramo della tecnica, non senza morti, crolli, rifacimenti e tentativi successivi di cui non c’è arrivata traccia.
La torre nuragica risponde a una richiesta specifica: “Voglio una torre in pietra nella quale si possa risiedere, con una scala interna che acceda a un ballatoio superiore praticabile”.
I nuraghi sembrano tutti uguali perché non è possibile altrimenti. Se non fosse così, non si potrebbe costruirli. Resta inteso che ciascuna torre appare differente dalle altre nei dettagli, spesso non secondari, il che rafforza per l’appunto l’assunto che si sia trattato di atti costruttivi isolati e non coordinati. Per chiarire in parte il concetto, sarà bene precisare che la dimensione di una torre cava a secco (diametro per altezza) dipende dalle dimensioni dei conci che si riesce a mettere in opera. Con i granelli di sabbia si può costruire una torre alta pochi centimetri, con conci di un metro cubo si arriva a torri che superano i dieci metri. I nostri antenati massimizzarono le capacità di messa in opera che avevano. Disponendo di forza muscolare umana e animale, di utensili di metallo e pietra per la sbozzatura dei conci e di sistemi di cordami e legno (presenti nelle conoscenze delle società umane da millenni), quando decisero di realizzare la prima torre dovettero semplicemente mettere in pratica, in un progetto appena più ambizioso di un nuraghe a corridoio, il bagaglio di conoscenze che avevano già. Ci provarono un po’ di volte, e tirarono su la prima torre. Da quella, le altre. C’è da rilevare che esistono comunque nuraghi a corridoio dotati di ambienti interni con copertura a tholos, ma si tratta di edifici che hanno subìto ristrutturazioni e modifiche, anche importanti.

Nell'immagine, una delle scale del nuraghe Su Mulinu di Villanovafranca.

giovedì 27 febbraio 2014

Civiltà nuragica: Ballatoi terminali e modellini di nuraghi mai esistiti.

Ballatoi terminali e modellini di nuraghi mai esistiti
di Massimo Pittau

Nel quadro generale di assurdità relative alla civiltà nuragica tracciato da alcuni archeologi, ad iniziare da Antonio Taramelli fino a qualcuno vivente - quadro che è perfino offensivo per la intelligenza di noi Sardi - entrano anche la storiella del «ballatoio o terrazzino terminale» che avrebbero avuto i nuraghi e la storiella dei «modellini di nuraghi». Purtroppo non c’è opera o studio, sia che aspiri ad essere scientifico sia che abbia un intento di divulgazione, che non presenti i nuraghi col ballatoio terminale, come quello delle torri medioevali e post-medioevali. Ed invece questi “ballatoi” e quei “modellini” non esistono affatto e non sono esistiti mai.

I supposti “ballatoi”

L’archeologo che ha scavato il Nuraxi di Barumini ha ritenuto di poter affermare l’esistenza del ballatoio terminale nel grande nuraghe in base al ritrovamento, non in situ, ma sparsi nel terreno, di lunghi massi che egli ha considerato “mensoloni”, i quali appunto avrebbero sostenuto il “ballatoio” terminale dell’imponente edificio.

Egli ha pure disegnato quella che sarebbe stata la posizione originaria di quei mensoloni, ma purtroppo in una maniera tale che è chiaramente contraria alle leggi della statica. Sul piano funzionale egli ha sostenuto che il ballatoio serviva ai guerrieri assediati nella supposta grande fortezza, a far sì che i massi scaraventati sui nemici cadessero a perpendicolo su di essi (quasi che rimbalzando sulla muraglia inclinata non potessero essere altrettanto dannosi!).
 Senonché nessun nuraghe ha mai avuto un “terrazzino o ballatoio terminale”, per il fatto essenziale che lo impediva la tecnica costruttiva di allora, fondata sull’uso esclusivo della “pietra”, per di più senza l’uso di alcuna malta.
Si deve considerare che la costruzione dei ballatoi terminali degli antichi campanili, torri e castelli è stata possibile solamente dopo l’uso di mattoni cotti, cementati da malte molto resistenti. Però nessuno studioso ha mai affermato e tanto meno dimostrato che i nuraghi avessero sulla cima ballatoi costruiti con mattoni e cementati con una qualsiasi malta.
Questa “favola” dei ballatoi terminali dei nuraghi, messa in bella mostra dai cartelloni esplicativi di nuraghi monumentali e dei nostri musei e dai pieghevoli pubblicitari ad uso dei turisti, è partita – come dicevo poco fa - dal ritrovamento, ai piedi prima del Nuraxi di Barumini e dopo di numerosi altri nuraghi, di “mensoloni” che avrebbero per l’appunto avuto la funzione di sorreggere quei “ballatoi”.
Io però avevo pubblicato, già nel 1970 e poi di recente nel 2006, le fotografie di mensoloni situati ancora in situ, sulla cima dei Tresnuraches di Nùoro e del nuraghe Albucciu di Arzachena, i quali risultano separati l’uno dall’altro e intervallati, in una posizione che non ha alcuna funzionalità pratica, mentre mostra di averne una semplicemente decorativa, esattamente come fanno i mensoloni che si trovano sulla cima delle torri dell’Elefante e di san Pancrazio di Cagliari e del Castello dei Malaspina di Bosa (M. Pittau, La Sardegna Nuragica, Cagliari 2006, Edizioni della Torre, pagg. 64, 65; M. Pittau, Il Sardus Pater e i Guerrieri di Monti Prama, Sassari 2009, II ediz., EDES, pag. 16).


A questi esempi sono oggi in grado di aggiungere le fotografie di un nuraghe dei monti di Baunei, che mi sono state fornite da un mio amico del luogo: 


Insomma i mensoloni terminali dei nuraghi in effetti determinavano e costituivano una “corona radiata” con funzione decorativa dell’edificio. Ma oltre che funzione decorativa i mensoloni delNuraxi di Barumini e di altri numerosi nuraghi potevano forse avere una funzione simbolico-religiosa, indicante i raggi del Sole, divinità che indubbiamente anche i Nuragici adoravano.


I supposti “modellini di nuraghe”
Dei “modellini di nuraghe” per il vero si faceva un gran parlare da molto tempo, ma il loro entrare prepotente nelle discussioni è venuto dopo che – finalmente – sono stati effettuati un po’ di scavi nel sito dove sono stati trovati gli ormai famosi Guerrieri di Monti Prama. Uno degli archeologi che hanno effettuato gli scavi ha ritenuto di aver trovati ben 8 modelli di “nuraghi complessi” e poi altri 13 modellini di “nuraghi singoli”. Per il vero egli ha manifestato una notevole difficoltà quando ha tentato di metter su una spiegazione di questi troppo numerosi “modelli e modellini di nuraghi”, ma soprattutto è caduto nell’errore di interpretare un elemento conico che sta sulla cima di questi “modellini” come «la copertura della scala di accesso al terrazzo superiore».
Ma di che materiale sarebbe stata fatta questa “copertura della scala”? forse di plexi-glas? E quale riscontro archeologico è stato mai trovato per essa? Perché quell’elemento conico o cupoletta risulta al centro della cima del “modellino” e non decentrata, come decentrata risulta essere sempre la scala di tutti i nuraghi?
In realtà i supposti 8 modelli di nuraghi complessi non sono altro – come è stato giustamente detto da un altro archeologo – che “basi di colonne” e “capitelli” del tempio ivi esistente.
E nemmeno le altre 13 statuette, alte una trentina di centimetri, sono “modellini di nuraghe”, I) perché risultano troppo alte e sottili, II) perché la loro cima non indica affatto il “ballatoio” dei nuraghi, che non è esistito in nessun nuraghe, III) perché non portano alcun segno per indicare un elemento architettonico indispensabile, l’”ingresso”; IV) alte come sono avrebbero dovuto avere anche un segno di qualche finestrone, come di fatto si constata in alcuni nuraghi piuttosto alti.
In realtà le 13 statuette di Monti Prama non sono altro che miniature di “lucerne” o di “candelabri”, la cui cupoletta finale indica la fiamma accesa.
Si deve considerare con attenzione che la presenza di lucerne o candelabri in miniatura nel sito di Monti Prama ha una sua esatta motivazione nel fatto che erano in un sito sacrale e precisamente in un tempio dedicato al Sardus Pater. Invece eventuali “modellini di nuraghe” quale mai motivazione potevano avere nel tempio e, più in generale, in qualsiasi altro sito? Che senso aveva e quale spiegazione aveva la fabbricazione di molti “modellini di nuraghe” in generale? Nella sala delle riunioni del nuraghe di Palmavera di Alghero la presenza di un altare a forma di coppa o calice ha un senso in vista delle importanti decisioni politico-religiose che vi si prendevano, mentre la presenza di un “grande modello di nuraghe” – come è stato comicamente detto e scritto – non ha alcun senso né alcuna spiegazione.
E pure grandemente errata è la spiegazione che è stata data e corre in giro del cosiddetto “Modellino di Olmedo”. Questo non era affatto il modellino in bronzo di un nuraghe quadrilobato, I) perché i suoi 5 bracci risultano troppo alti e sottili, II) perché la loro cima non indica affatto il “ballatoio” dei nuraghi, che non è esistito in nessun nuraghe, III) perché non portano alcun segno, in quella che dovrebbe essere la lunga cerchia muraria, per indicare un elemento architettonico indispensabile, l’”ingresso”; IV) alti come sono i 5 bracci e soprattutto quello centrale avrebbero dovuto avere anche il segno di qualche finestrone nella loro muraglia e invece non ne hanno alcuno.
E le stesse identiche obiezioni muovo per il bronzetto di Ittireddu, anch’esso erroneamente interpretato come “modellino di nuraghe”.
Invece, a mio giudizio, anche quelli di Olmedo e di Ittireddu non sono altro che il modellino di una lucerna, una “lucerna plurima” a 5 bracci o becchi, analoga ad una plurima di terracotta che è stata trovata a Sant’Antioco. Ed anche a questo proposito vale la importante considerazione or ora fatta: nelle caratteristiche di sacralità che valeva per tutti i bronzetti nuragici – dato che costituivano tutti altrettanti doni fatti alle varie divinità – la riproduzione di una lucerna plurima si spiega perfettamente, la riproduzione di un nuraghe plurimo o polilobato non trova alcuna spiegazione.
È verosimile che queste due lucerne plurime implichino anche una “simbologia cosmica”, come ha scritto il mio amico architetto Franco Laner: i bracci dei quattro spigoli rappresenterebbero i quattro punti cardinali, mentre il braccio centrale rappresenterebbe la dimensione verticale dell’alto e del basso.
In proposito è da ricordare che questa medesima simbologia probabilmente esisteva anche nella cosiddetta “Tomba di Porsenna” di Chiusi, in Etruria.

La “favola” del ballatoio terminale dei nuraghi è entrata anche nella fabbricazione del cosiddetto “modellino di nuraghe quadrilobato di San Sperate”, in pietra arenaria giallo-rosa, esposto in bella evidenza nel Museo di Cagliari, che io di recente ho dimostrato essere nient’altro che un grossolano ed anche ridicolo “falso”. Che di falso si tratti, scolpito da qualcuno che quasi certamente si potrebbe riconoscere dalle carte che riguardano l’acquisizione dell’oggetto da parte della Soprintendenza Archeologica di Cagliari, è dimostrato chiaramente da alcuni fatti, ma soprattutto da due particolari: 1) Il supposto modello di nuraghe presenta un “porticato” che costituirebbe la base dell’edificio; 2) Il muro dei quattro torrioni presenta nella sua parte finale una “rientranza circolare”. Senonché si tratta di due particolari costruttivi che da un lato non si ritrovano in nessun nuraghe reale, dall’altro avrebbero impedito la prosecuzione della costruzione del nuraghe stesso, il quale sarebbe crollato subito, con la messa in opera dei successivi cerchi di massi.
Infine l’oggetto sembra appena uscito dall’officina di uno scultore (e ben a ragione!), dato che presenta molti spigoli della pietra ancora vivi ed intatti.

mercoledì 26 febbraio 2014

Carnevale in Sardegna

Carnevale in Sardegna.


Il carnevale in Sardegna ha mille volti affascinanti. Quello antico dei suggestivi carnevali barbaricini che - con le loro ancestrali maschere antropomorfe e zoomorfe, le vesti di pelli di capra, orbace e campanacci – rievocano riti misteriosi, danze propiziatorie e un rapporto stretto tra uomo e animale. Quello vibrante dei carnevali a cavallo, come quello di Oristano ("Sa Sartiglia"), durante il quale i cavalieri devono infilare in corsa una stella di metallo, auspicio di buon raccolto, e quello di Santulussurgiu ("Sa Carrela 'e nanti") nei quali i cavalieri mostrano il loro valore, coraggio e abilità, sfidandosi in corse temerarie per il centro cittadino. Oppure quello irriverente di Tempio con il fantoccio di Re Giorgio processato e bruciato in piazza, senza dimenticare la simbologia dei travestimenti di Bosa.
Il carnevale di Ottana affonda le sue radici nel mondo sardo arcaico e nei suoi valori agropastorali, e perpetua una tradizione mai interrotta. È una delle ricorrenze più attese dalla popolazione che partecipa attivamente dimostrando un profondo senso di appartenenza alla propria cultura.
Le maschere descrivono, attraverso spontanee interpretazioni che si sviluppano in una sorta di canovaccio, personaggi, ruoli e situazioni della vita dei campi, quali l'aratura, la semina, il raccolto; la cura, la domatura, la malattia, la morte degli animali.
A Bosa il Carnevale viene denominato Karrasegare, termine utilizzato anche per indicare i tre giorni finali e i più importanti della festa: domenica, lunedì e martedì. Il Carnevale è la festa della comunità in cui anche i ruoli sociali sono meno rigidi, è quindi caratterizzato da aspetti parodistico - satirici, con la messa in scena di eventi che coinvolgono gli abitanti del paese attraverso l'esecuzione di canti satirici.
Il carnevale di Fonni è caratterizzato dalle antiche maschere de s'Urthu e sos Buttudos che rappresentano la lotta quotidiana dell'uomo contro gli elementi della natura. S'Urthu è vestito di pelli di montone o di caprone di colore bianco o nero, ha un grosso campanaccio legato al collo, la faccia annerita dal sughero carbonizzato ("s'inthiveddu"), ed è tenuto al guinzaglio con una rumorosa catena di ferro. Sos Buttudos indossano un cappotto di orbace sopra abiti di velluto, scarponi e gambali di cuoio, sulle spalle i campanacci ("sonaggias").
S'Urhtu, l'orso, lotta continuamente tentando di liberarsi dalle catene, aggredendo uomini e cose che incontra sul suo cammino, arrampicandosi dappertutto, sugli alberi e sui balconi, aizzato ad avventarsi sulla gente e soprattutto sulle ragazze che subiscono le sue esuberanze, mentre sos Buttudos tentano di domarlo.
Il carnevale di Gavoi inizia il giovedì grasso, "jobia lardajola" (così chiamato perché in questa occasione si preparavano le fave con il lardo), con "sa sortilla 'e tumbarinos", il raduno di centinaia di tamburini. Gli strumenti sono costruiti interamente a mano con pelli di capre e pecore; anticamente si adoperavano anche le pelli di cane o d'asino. Per la realizzazione dei tamburi si riutilizzano i setacci per la farina o le forme in legno per il pecorino o i vecchi secchi di sughero usati per la mungitura e per cagliare il formaggio ("sos malùnes") o i grandi contenitori per conservare il grano ("sos majos").
Il Carnevale di Lodine si svolge il Mercoledì delle Ceneri (Merhulis de Lessia) e il protagonista del Carnevale è un fantoccio con una maschera di legno, scolpita da un artista locale, avente le fattezze o di un personaggio della comunità che durante l'anno si è distinto per un comportamento non ben accetto dal paese, oppure di un personaggio nazionale o internazionale che si è messo in evidenza con connotazioni negative.
La maschera protagonista del carnevale di Lula è Su Battileddu, la vittima. È vestito di pelli di pecora o montone, ha il volto sporco di fuliggine e di sangue e la testa coperta da un fazzoletto nero femminile, porta un copricapo con corna caprine, bovine o di cervo tra le quali è sistemato uno stomaco di capra ("sa 'entre ortata"). Sul petto porta i "marrazzos" (campanacci), sulla pancia seminascosto dai campanacci porta "su chentu puzone" , uno stomaco di bue pieno di sangue e acqua, che ogni tanto viene bucato per bagnare la terra e fertilizzare i campi.
Il carnevale di Mamoiada è uno degli eventi più celebri del folclore sardo. Le maschere tradizionali di questo carnevale sono i Mamuthones e gli Issohadores, che fanno la loro apparizione in occasione della festa di Sant'Antonio tra il 16 e il 17 gennaio, poi la domenica di carnevale e il martedì grasso. Le origini del carnevale di Mamoiada, conosciuto anche come "la danza dei Mamuthones", sono oscure, molte sono le ipotesi che sono state avanzate, nessuna effettivamente dimostrabile.
Secondo alcuni il rito risalirebbe all'età nuragica, nato come gesto di venerazione degli animali, per proteggersi dagli spiriti del male o per propiziare il raccolto.
Il carnevale a Nuoro prevede ogni anno una serie di eventi che si svolgono nelle vie del centro e che coinvolgono la popolazione ed i turisti.
Come in molti paesi della Barbagia, anche a Nuoro la festa si apre il 16 gennaio con i falò in onore di Sant'Antonio Abate, fra cui sarà premiato il fuoco più bello per magnificenza e per il coinvolgimento della comunità.
Oltre al carnevale dei bambini, che ha luogo il 2 febbraio, e ai tradizionali balli in piazza, vengono organizzate altre iniziative (cacce al tesoro, eventi di spettacolo, concorsi ecc.) che possono variare di edizione in edizione.
La manifestazione prevede poi una sfilata per le vie del centro, il pomeriggio di sabato 26 gennaio, a cui partecipano le maschere tradizionali della Barbagia, fra le quali i Mamuthones e gli Issohadores di Mamoiada, i Thurpos di Orotelli, i Bundos di Orani, i Tumbarinos di Gavoi.
Il carnevale di Ollolai è reso particolarmente suggestivo dalla presenza di numerose maschere tradizionali: Sos Bumbones. Nello specifico sos Truccos o sos Turcos sono avvolti in un telo di pizzo bianco, "inghirialettu", in passato utilizzato per ricoprire i piedi del letto ove giaceva il defunto prima della sepoltura, e portano sulle spalle su mantella rubia, uno scialle ricamato in rosso, viola e blu che per tradizione veniva usato per avvolgere il neonato durante il battesimo
Il carnevale di Olzai ha la particolarità di proseguire oltre la tradizionale data di chiusura delle manifestazioni carnascialesche: i festeggiamenti si protraggono, infatti, fino alla domenica successiva. Dalla domenica di carnevale fino al mercoledì delle Ceneri e poi anche la domenica della Pentolaccia, le strade del paese vengono percorse da vivaci sfilate di maschere.
La maschera tipica del Carnevale di Oniferi, Su Maimone, scomparsa alla fine degli anni '50 del Novecento, è stata recuperata solo da una decina d'anni, grazie alla tradizione orale tramandata dagli anziani del paese e all'apporto di alcuni studi.
Il termine Maimone deriverebbe dal greco mainomai, sono posseduto, e più in particolare dall'epiteto del Dio Dioniso, Mainoles, il pazzo, il furioso, e viene impiegato, assieme al termine Mamuthone, che presenta la stessa radice, in diversi paesi della Barbagia proprio per indicare le maschere che, rifacendosi al culto dionisiaco, impersonano i seguaci del Dio o il Dio stesso, simbolo di ebbrezza ed estasi.
Il carnevale dei Bundos, pur riallacciandosi alle antiche credenze contadine, ha probabilmente origini successive rispetto agli altri più noti carnevali barbaricini. Su Bundu è una creatura metà umana e metà bovina; il colore rosso della maschera che gli copriva il volto in origine veniva ottenuto proprio con il sangue di bue, mentre il loro forcone, "su trivuthu", simboleggiava le origini contadine.
La Sartiglia è una delle manifestazioni carnevalesche sarde più spettacolari e coreografiche. Il nome deriva dal castigliano "Sortija" e dal catalano "Sortilla" entrambi aventi origine dal latino sorticola, anello, ma anche diminutivo di "sors", fortuna. Nell'etimologia del termine è racchiuso il senso della giostra equestre legata strettamente alla sorte. Le origini della Sartiglia sono da ricercarsi nelle gare equestri medievali, praticate già dai Saraceni ed introdotte in Occidente dai Crociati tra il 1118 e il 1200. Questa corsa all'anello, probabilmente presente ad Oristano già nel 1350, potrebbe essere stata eseguita per la prima volta in occasione delle nozze del giudice Mariano II.
I protagonisti del Carnevale di Orotelli sono i Thurpos, che inscenano diverse situazioni legate alla tradizione contadina: Su Thurpu Voinarzu (il contadino) che deve governare i testardi Thurpos Boes (i buoi); i Thurpos seminatori che spargono crusca lungo il cammino; Su Thurpu Vrailarzu (il fabbro) che ferra Su Thurpu Boe e Su Thurpu che accende il fuoco con un acciarino, una pietra focaia e un cornetto di bue pieno di midollo di ferula secca ("corru esca"). Come gli altri carnevali sardi a sfondo agropastorale, il carnevale di Orotelli ripropone in chiave grottesca il capovolgimento del rapporto uomo-animale e la lotta dell'uomo contro la natura, con un rituale di propiziazione della pioggia e della fertilità della terra.
Il carnevale viene però tradizionalmente letto come rappresentazione del rapporto proprietario terriero-braccianti. L'occasione consentiva eccezionalmente ai braccianti di Orotelli di mimare l'autorità dei "padroni", senza doverne subire le conseguenze. Le persone più ricche del paese venivano inoltre "catturate" e costrette ad offrire da bere. Dal capovolgimento dei ruoli una temporanea rivincita dei più deboli.
Il carnevale a Ovodda si festeggia il Mercoledì delle Ceneri, "Mehuris de Lessia", e costituisce un momento di forte identificazione della comunità con le proprie tradizioni secolari.
Personaggio principale è Don Conte, fantoccio antropomorfo maschile, talvolta ermafrodito; indossa una larga tunica colorata da cui traspare una grossa pancia fatta di stracci che copre l’anima in ferro che lo sorregge. Sono diversi gli elementi che differenziano questo evento dagli altri carnevali barbaricini: non solo il fatto che si svolge il Mercoledì delle Ceneri, Mehuris de Lessìa, ma anche la totale assenza degli enti istituzionali nell'organizzazione dell'evento e la mancanza di qualsiasi tipo di propaganda.
I protagonisti principali del carnevale di Samugheo sono: Su Mamutzone, maschera muta col volto annerito dal sughero bruciato che, sopra un abito di fustagno nero, indossa una casacca di pelli di capra senza maniche, con una cintura da cui pendono diverse file di sonagli ("campaneddas e trinitos"); s'Urtzu, la vittima della rappresentazione, indossa un completo di pelle di caprone nero, pelli di capretto sul petto ed un unico pesante campanaccio come la capra che guida del gregge; s'Omadore, il pastore, con un lungo pastrano nero e il viso coperto di fuliggine, tiene "sa soga" (la fune), un bastone, una zucca contenente vino e il pungolo; su Traga Cortgius, personaggio che trasporta pelli bovine secche e rappresenta un presagio di morte. Il carnevale di Samugheo affonda le sue origini nella cultura agropastorale e conserva parecchi elementi del culto di Dioniso rappresentato da s'Urtzu che ne inscena la passione e la morte. Ai riti dionisiaci si può ricondurre anche il comportamento dei Mamutzones che saltano invasati intorno a s'Urtzu.
La sacralità dei Mamutzones è testimoniata dalla cantilena da questi tradizionalmente recitata mentre inseguono i bambini del paese: "S'Ocru mannu piludu non timet a nissunu, solu du Deus mannu, s'Ocru mannu corrudu..." (L'Orco grande peloso non teme nessuno, solo il grande Iddio, l'Orco grande cornuto...).
Il Carnevale di Santu Lussurgiu è caratterizzato dalla corsa a pariglie detta "Sa Carrela 'e nanti" ("strada che si trova davanti": la corsa ha preso il nome della via dove tradizionalmente si svolge l'evento, un tempo strada principale, oggi via Roma). Tra le più spericolate e spettacolari dell'isola, la corsa dei cavalli di Santu Lussurgiu chiama intorno a sé l'intera comunità: non vi è solo lo spettacolo offerto dalle audaci acrobazie equestri, ma anche la partecipazione della folla che in massa si apre un attimo prima dell'arrivo dei cavalli in corsa per richiudersi subito dopo il loro passaggio.
Le tradizioni equestri, come Sa Carrela 'e nanti, sono molto antiche, risalgono ai tempi dei Giudici di Arborea e dei viceré spagnoli che incrementarono l'allevamento razionale dei cavalli, tanto da ottenere razze speciali per le corse.
Nelle corse a pariglia che si svolgono durante il Carnevale a Santu Lussurgiu, i cavalieri mostrano una grande abilità equestre e molta compostezza, come impongono le regole di questo genere di manifestazione che ha origini nelle esercitazioni e nelle tradizioni delle cavallerie leggere.
La maschera principale del carnevale di Sarule è "sa Maschera a Gattu", che porta "duos oddes", le due gonne del costume tradizionale indossate al rovescio per nascondere i ricami e garantire l'anonimato, una copertina bianca sulla testa come simbolo della nascita, un velo nero davanti al viso come emblema della morte, e una fascia rossa intorno al capo per simboleggiare il matrimonio. Con la scelta degli indumenti usati, "sa Maschera a Gattu" perpetua simbolicamente riti agrari di morte e rinascita della natura diffusi nel mondo antico mediterraneo, tra questi i rituali dionisiaci.
Il carnevale di Tempio comincia il giovedì grasso con l'entrata trionfale in città del Re Giorgio, rappresentato da un fantoccio. La domenica si celebra il matrimonio tra Re Giorgio e la popolana Mannena, di solito abbigliata in modo audace; come vuole la tradizione, Mannena darà al re un figlio che sarà Re Giorgio per il successivo carnevale. La sfilata dei carri allegorici del carnevale tempiese ha luogo per la prima volta nel 1956. Il personaggio principale è "Giorgio", un tempo chiamato Jolgliu Puntogliu, oggi invece "Sua Maestà Re Giorgio" che rappresenta il potere in tutte le sue forme.

martedì 25 febbraio 2014

Convegno al Nuraghe Cuccurada di Mogoro: Fenici o Shardana?

Convegno al Nuraghe Cuccurada di Mogoro: Fenici o Shardana?



Mogoro, Nuraghe Cuccurada.


Si svolgerà sabato 1 Marzo, dalle ore 16.00, l'atteso dibattito su una questione che divide gli studiosi fra chi segue un percorso metodologico accademico e ritiene che i fenici siano un popolo che colonizzò la Sardegna a partire dal IX secolo a.C., e chi ritiene, invece, che si tratti dei discendenti degli shardana, i guerrieri che combatterono una serie di guerre nel Vicino Oriente, a volte fra le fila degli egizi del tempo dei faraoni ramessidi, altre volte fra gli eserciti degli ittiti, i potenti turchi delle montagne che fecero di Hattusa, la loro capitale.
Secondo le più recenti ricerche accademiche, nel corso dei secoli IX e VIII a.C., si hanno notizie della presenza fenicia lungo le coste della Sardegna, dove importanti villaggi costieri situati nelle rade del meridione e a occidente dell'isola, già frequentati dai commercianti levantini nel periodo nuragico, divennero veri e propri empori nei quali si scambiavano metalli con oggetti di pregio provenienti dal Vicino Oriente. Con il costante prosperare dei commerci, i villaggi si ingrandirono sempre di più, accogliendo stabilmente al loro interno l'esodo delle famiglie fenicie che si allontanarono dal Libano. In questa lontana terra esse seguitarono a praticare il loro stile di vita, i loro usi, le proprie tradizioni e i loro culti di origine, apportando in Sardegna nuove tecnologie e conoscenze. Tramite matrimoni misti e in un proficuo e continuo scambio culturale, i due popoli coabitarono e i villaggi costieri divennero importanti centri urbani, organizzati in maniera simile alle antiche città stato delle coste libanesi. I primi insediamenti sorsero a Karalis, a Nora, a Bithia (nei pressi di Pula), a Sulci nell'isola di Sant'Antioco, a Tharros nella penisola del Sinis, poi a Neapolis (Guspini) e a Bosa.
Questa visione accademica è in contrasto con studi che propongono i sardi come artefici degli scambi, e vedono la Sardegna come una potenza internazionale in grado di gestire gli approdi, e il mercato interno, grazie alle ricchezze (economiche, militari e tecnologiche) maturate nei secoli precedenti e all'organizzazione sociale evoluta che si formò nel corso della seconda metà del II Millennio a.C., l'età del Bronzo in Sardegna.
Altri studiosi propongono altre teorie, ad esempio vedono l'arrivo degli shardana al termine delle guerre del XIII a.C., quando una coalizione denominata convenzionalmente "Popoli del mare" si riversò nel Vicino Oriente distruggendo le città più importanti, impadronendosi delle amministrazioni locali e riuscendo, addirittura, a cancellare per sempre una serie di potenze dell'epoca: i micenei, gli ittiti e riducendo notevolmente l'influenza egizia nelle provincie africane e asiatiche.

La serata inizierà con la visita guidata del Nuraghe Cuccurada, a cura dell'archeologa che ha scavato il sito: Alessandra Carta.
Al termine del dibattito sarà offerto un rinfresco dalla cantina "Il Nuraghe di Mogoro" e dalla pasticceria "Shardana di Terralba".

Ingresso al convegno libero.
Visita guidata al nuraghe 4 Euro.
Il sito sarà aperto dalle ore 15.00 per consentire l'afflusso dei visitatori.
Ricordiamo che il Nuraghe Cuccurada aprirà i battenti in occasione di questo evento grazie alla collaborazione della soprintendenza archeologica e all'amministrazione comunale di Mogoro che hanno concesso il benestare allo svolgimento dell'evento.



lunedì 24 febbraio 2014

Nuraghi, Shardana, scrittura e altre questioni di Giovanni Ugas

Nuraghi, Shardana, scrittura e altre questioni
di Giovanni Ugas


Ancora sulla funzione dei nuraghi.
Sono molte le questioni archeologiche ancora da approfondire e conoscere, ma tante altre sono oramai chiare alla scienza archeologica. Gli studi di Pais, Taramelli, Lilliu, Contu e tanti altri archeologi hanno ampiamente dimostrato, attraverso l’analisi dei complessi archeologici, delle caratteristiche ambientali, delle forme architettoniche e dei manufatti ivi rinvenuti, non solo la pertinenza cronologica dei nuraghi all’età del Bronzo, ma anche la loro funzione di edifici fortificati, usati come residenze di capi, nettamente differenti dalle case monocellulari, coperte di frasche dei villaggi.

Fig. 1 - Tavola di segni alfabetici

Tra i nuraghi esiste una gerarchia di articolazioni (torri singole, bastioni pluriturriti, bastioni con cinta esterna turrita) che può essere spiegata in maniera soddisfacente soltanto presupponendo una parallela articolazione sociale. Soprattutto il numero limitato (soltanto una cinquantina tra le migliaia), dei nuraghi con bastione difeso da una cinta turrita esterna, che potevano ospitare una consistente guarnigione di soldati, presuppone l’esistenza di autorità gerarchicamente superiori di capi che stavano al vertice della comunità.
Ovviamente, in quanto residenze (fortificate) di capi, esattamente come i palazzi residenziali dell’Egeo e del Vicino Oriente, i nuraghi erano abitati e infatti vi si trovano i resti relativi alle diverse funzioni e attività quotidiane, quali le strutture per le riserve alimentari e idriche, avanzi di cibo e strumenti per ottenerlo, le armi dei guerrieri (frombolieri, spadaccini, arcieri, lancieri) e così via. Semmai come nei palazzi micenei e orientali, nei nuraghi poteva esserci un angolo di sacro (si pensi al megaron). Detto ciò, le persone che nonostante gli incontrovertibili dati della ricerca archeologica, insistono ciecamente nel ritenere che i nuraghi fossero templi dovrebbero cercare di rispondere, tra i tanti altri, a questi quesiti:

1) perché i nuraghi sono costruiti con torri culminanti con terrazzi sorretti da mensole come i castelli medioevali?
2) perché i nuraghi sono così differenti tra loro nell’articolazione?
3) per quale ragione il nuraghe di Su Nuraxi in Barumini, nel corso del Bronzo finale, fu rifasciato e l’ingresso fu trasferito dal piano terra a circa 7 metri d’altezza?
4) perché, se fossero templi, i nuraghi furono sistematicamente devastati e poi nel I Ferro non furono più costruiti ma semplicemente ristrutturati?
5) perché nei nuraghi non si trovano oggetti connessi coi culti e con le offerte sacre di corredo sacro prima degli inizi del I Ferro o (se si vuole per qualche archeologo) prima del Bronzo Finale, mentre all’opposto si trovano manufatti necessari per la sussistenza quotidiana e le armi?
Ammesso che qualcosa fosse sfuggito agli archeologi, è impensabile che nei livelli del tardo Bronzo non abbiano visto nulla di afferente con la generale sacralità degli edifici.

Invero i sostenitori dell’equazione nuraghi=templi sono prigionieri di preconcetti teorici. Quanto all’orientamento, gli edifici sono disposti in modo da godere al massimo della luce e gli ingressi non volgono mai direttamente verso i quadranti notturni ed esposti al freddo. Tutto il resto è conseguente. Anche le case campidanesi di ladiri avevano gli ingressi verso la luce e il calore e di certo non erano certo templi. Ma se anche fossero orientati su particolari posizioni del sole, della luna e di qualche stella, può ben significare che i nuraghi erano sotto la protezione delle divinità che tali astri rappresentano, e non che essi erano templi di tali divinità. In età arcaica e classica, anche i reticolati geometrici delle città (Marzabotto, città romane etc.) rispecchiano determinati parametri astrali e nessuno si sogna di dire che erano templi. Tutt’al più questi studi sono utili per risalire al grado di conoscenza degli astri dei nostri antenati e alla identificazione di qualche culto. E’ ben noto, al riguardo, che il culto della luna, del sole e di qualche stella era già praticato in età prenuragica.
Che poi i nuraghi fossero semplici silos, è parimenti impossibile non soltanto per la loro collocazione, che presuppone spesso esigenze difensive, ma anche per la presenza (in genere su due file) di finestre, che ben poco si conciliano con la funzione di silos degli edifici, nelle torri laterali del bastione e della cinta antemurale (e occorrerebbe spiegare perché il mastio non le ha). Inoltre, chi difendeva queste riserve? Il popolo che risiedeva nelle capanne monocellulari dei villaggi, spesso lontani dai nuraghi? Occorre rispondere anche alla domanda perché mai diversi autori greci, affermavano che i Sardi Iolei (Iliesi) erano soggetti a dinastie regali, dunque a capi, e perché già in precedenza nelle statue-menhir appaiono i simboli (pugnale, scettro) del potere nell’ambito delle comunità. In effetti, i nuraghi sono gli elementi basilari di un’arcaicistica struttura matrilineare, rigidamente ancorata al vincolo del sangue e non c’è nessun appiglio per ipotizzare una struttura democratica o comunista nell’età del Bronzo in Sardegna. Importanti per l’economia, dei territori ma del tutto privi di mura recintorie, i villaggi del Bronzo recente e finale sono palesemente in condizione di grave subalternità rispetto ai possenti nuraghi; in tali condizioni, il territorio non può che appartenere ai capi e gli abitanti dei villaggi sono solo i concessionari delle terre, non i padroni. Nell’isola, una società democratica (per i Greci “aristocratica”), fondata sui consigli degli anziani, appare soltanto nel I Ferro; solo allora nasce la proprietà privata e gli abitanti dei villaggi sono finalmente i padroni delle terre.

Sull’uccisione rituale dei vecchi padri
I dati della letteratura antica, vanno interpretati e prima di rifiutarli occorre dimostrare che non hanno ragion d’essere. Nel caso specifico, l’uccisione dei vecchi padri (a cominciare ovviamente dai capi) era proverbiale, in Sardegna, già al tempo di Omero (basti pensare al raccordo con il riso sardonico di Ulisse, e con la spina sardonica del figlio di Ulisse Telegono), dunque risale già all’età del Bronzo, ed è rimasta nella tradizione etnografica sino ai nostri giorni. Perché rifiutare per la Sardegna un rito, attribuito anche a diverse altre società a successione matrilineare in relazione ai tempi eroici dell’Età del Bronzo, sostenuto tra l’altro in quest’età dalla continuazione del costume neolitico delle sepolture rannicchiate in tombe collettive, implicante una società ancora legata a un culto radicato della Dea madre? Una volta che i re venivano sacrificati con la cicuta, colpiti con frecce, bruciati (mito di Kronos e di Talos, ripreso nella tradizione carnevalesca), gettati dalle rupi (Gairo) o in un crepaccio (Golgo), i loro resti potevano essere dispersi o, al contrario, benché non sia logico, sepolti anch’essi nelle tombe comuni. Il fatto che non si sia scavato (e non il fatto che non si sia trovato!) nei luoghi indicati dalla etnografia e dall’archeologia per i sacrifici umani, non è una buona ragione per negare questo interessante e straordinario fenomeno che ha le sue radici nella società neolitica e nuragica. Ovviamente nelle comunità matrilineari era la regina che decideva quanto tempo doveva vivere il re sacro e al riguardo basti richiamare il ben noto episodio di Clitennestra che fa uccidere il marito Agamennone da Egisto, il nuovo re sacro, prima che il figlio Oreste, uccidendo la madre e sposando la principessa ereditaria, facesse mutare il costume matrilineare in uno patrilineare. Il termine “vecchio” non significa decrepito, sul punto di morire, ma piuttosto implica l’incapacità riproduttiva e il venir meno della forza fisica, doti fondamentali per far crescere la comunità e difenderla dai nemici. Nella tradizione letteraria si fa risalire all’intervento di Eracle la cessazione dei sacrifici umani (tra cui ovviamente quello dei vecchi padri). Col tempo, specie in ambito etnografico, il rito può aver assunto altri significati che giustificano azioni di “pietas” opposte all’etica nuragica dell’Età del Bronzo.

Scrittura e segni numerali in Sardegna nell’età del Bronzo e nel I Ferro
Ribadisco che finora non sono stati individuati segni di scrittura nei manufatti nuragici dell’età del Bronzo studiati dall’archeologia, a parte le sigle (singoli segni, non iscrizioni) in scrittura lineare egea (A, B, e minoico cipriota) che si osservano sui grandi lingotti in rame “ a pelle di bue”. Inoltre, sono stati ritrovati dei sigilli d’importazione (a cilindretto, scarabei etc.) alcuni dei quali sul piano strettamente cronologico possono essere attribuiti all’età del Bronzo, ma provengono tutti da contesti del I Ferro, ad esclusione del cilindretto di Su Fraigu riferibile allo scorcio del Bronzo finale. Il che significa che questi oggetti sono stati riutilizzati e non si sa con certezza quando furono importati nell’isola. Stando agli analoghi manufatti trovati sempre in contesti del I Ferro in ambito fenicio- di varie regioni, si è portati a credere che nella gran parte dei casi, questi antichi oggetti siano stati “riciclati” col commercio di collanine ed altri ornamenti. Detto questo è evidente che manca qualsiasi prova oggettiva della pratica della scrittura, fosse imprestata o imitata da un’altra regione o inventata nell’isola durante l‘età del Bronzo. Mi spiace dire che purtroppo, allo stato attuale degli studi, tutti gli altri manufatti con segni di scrittura finora attribuiti all’età del Bronzo nuragica, non appartengono affatto a questo periodo, quand’anche non siano semplici imitazioni di reperti archeologici.

Tab I - Segni numerali

La stessa cosa va detta per i segni ponderali, finora assenti nei manufatti nuragici dell’età del Bronzo. Tuttavia, in questo periodo, sono documentati pesi da bilancia e altri manufatti (spade, mattoni di fango, lingotti di rame) da cui è possibile risalire attraverso le misure di peso e quelle metrico-lineari al sistema ponderale o metrico in uso nell’isola.
La situazione muta decisamente nel I Ferro, a partire dal sec. IX. Come ho avuto occasione di scrivere un anno fa in un articolo della rivista Tharros Felix 5 (non è ancora uscito) e in una notizia dell’Unione Sarda ripresa in alcuni blog, in ambito indigeno isolano (dunque non fenicio) durante il I Ferro fu adottato un sistema di scrittura alfabetica con vocali, affine a quello in uso in Beozia agli inizi del sec. VIII. A parte l’incertezza sul valore da assegnare ad alcune lettere, per il resto non vi sono dubbi riguardo all’origine e al significato dei segni. La maggior parte dei segni alfabetici appaiono su manufatti in ceramica, pietra e metallo. Finora, le iscrizioni sono poche e limitate a una sola parola, e perciò, anche se è stato fatto un passo importante, occorre ben altro prima di azzardare ipotesi sul lessico e sulla lingua (o sulle lingue) parlate in Sardegna in età nuragica.
Lo stesso sistema alfabetico fu adoperato altresì nell’ambito di un sistema di numerazione, benché per indicare le cifre si fece ricorso anche, in un momento più recente, a un codice più semplice e pratico, simile a quello in uso in ambito etrusco e romano. Per rendere più chiaro il discorso, allego due tabelle inedite, benché già presentate in incontri di studio e conferenze, relative ai segni numerali (Tab. 1) e al sistema alfabetico in uso nell’isola durante il I Ferro (Tab 2), e una tavola (vedi fig 1, in alto) con segni alfabetici riportati su vasi da Monte Zara e M.Olladiri di Monastir, Soleminis e sullo spillone bronzeo da Antas già edito (rovesciato e come fenicio, da P. Bernardini) e che va letto AISHA, piuttosto che KISHK.

Tab IV - Sistema alfabetico durante il I Ferro

I rossi popoli delle Isole nel cuore del Mediterraneo
Non è possibile, rispondere in poche righe alla problematica questione degli affreschi delle tombe tebane dei visir Senmut, Useramon e Rekhmira, che ho esaminato in un lavoro ancora inedito. L’analisi di J. Vercoutter, in vero molto dettagliata, ha indotto molti studiosi a riconoscere i Micenei negli inviati delle “Isole nel cuore del Verde Grande” che portano i loro doni per i re egizi Ashepsuth, Tuthmosis III e Amenofi II. L’idea del Vercoutter poggia su alcune affinità fisiche e di costume di questi “isolani” con i principi di Keftiu, dunque con i Cretesi, sulla decifrazione non semplice dei prodotti, sull’idea che i Micenei avessero estromesso i Cretesi dai commerci e dalle relazioni con l’Egitto.
Vi sono almeno cinque principali motivi per sostenere, diversamente dal Vercoutter, che i principi delle Isole non potevano essere i Micenei:
1. I Micenei, o meglio gli Achei, appartengono a una terra (la Grecia) che è sul mare, ma non in mezzo al Mediterraneo;
2. I Micenei usavano scudi a 8, e solo alla fine del XIII – inizi XII secolo apparvero in Grecia i primi scudi tondi (vaso dei guerrieri, Achille nell’Iliade). Erodoto sosteneva che gli scudi tondi provenivano ai Greci dagli Egiziani; egli errava, ma riconosceva il fatto sostanziale che essi non erano di origine greca; in effetti i primi a usare gli scudi tondi furono gli Shardana, che provenivano - essi certamente- dalle Isole ubicate nel cuore del Verde Grande.
3. Sul piano figurativo, mentre i Greci distinguevano i gruppi umani in rossi (ma le donne, bianche) e dei neri, gli Egizi rappresentavano le popolazioni: rosse quelle mediterranee (Egizi, i Cretesi in primo luogo), ed etiopi eritree; chiare, a carnagione giallina, i semiti e gli indoeuropei (es. Ittiti), nere le genti dell’Africa centro-meridionale, equatoriale. Questa concezione antropologica egizia trova riscontro non solo nella convenzione figurativa ma anche nelle stirpi umane concepite nel Vecchio testamento, derivate da Noè e distinte in Giapeti, Camiti e Semiti. Negli affreschi egizi, gli inviati delle “Isole nel cuore del Verde Grande” sono sistematicamente rossi e pertanto non è possibile identificarli negli Achei che appartenevano al ramo delle genti giapetiche indoeuropee e avevano la carnagione chiara, non rossa.
4. Dal III millennio a. C., sino all’epoca alessandrina (con sovrani greci, ricordiamo!), la Grecia veniva chiamata dagli Egizi Hau Nebu, un paese importante e non troppo distante dall’Egitto e non è possibile che ad un tempo i Micenei abitassero le Isole ubicate lontano nel cuore del Verde Grande”. Il fatto, poi, che la terra di Hau Nebu fosse ubicata a Settentrione, oltre che a Ovest, come del resto le Isole del Cuore, non è ragione valida per collocarla nei posti settentrionali più disparati, perché per gli Egizi, data l’ubicazione della loro terra, tutti i popoli del Mediterraneo, isolani e continentali, erano necessariamente settentrionali!
5. Sino al V anno di Meremptah, quando appaiono gli Equesh, identificati da diversi studiosi con gli Akaioi omerici, non risultano attestate in Egitto genti greche, a parte, come detto, gli abitanti di Hau Nebu. Tra i popoli delle Isole, soltanto gli Shardana sono espressamente menzionati nei documenti egizi e vicino-orientali fin dal XIV se non dal XV sec. a.C., e non a caso essi richiamano i portatori di doni delle tombe tebane di visir, ma gli Shardana per le loro armi, l’abbigliamento militare e le caratteristiche fisiche non possono essere, come detto, una popolazione achea.


domenica 23 febbraio 2014

Storia del gioiello, dall'antichità status symbol del potere economico.


Storia del gioiello, dall'antichità status symbol del potere economico.
di Samantha Lombardi


Fonte: http://www.ilpatrimonioartistico.it

Se tra le prime capacità dell’uomo ci fu probabilmente quella di esploratore, l’impiego di ornamenti personali è antico quanto l’uomo che, sin dal Paleolitico Superiore (30000/20000-8000 a.C.), sviluppò la tendenza a realizzare collane composte da conchiglie, pezzetti d’osso e di pietra e denti di animali; testimonianze, che sono state rinvenute nelle capanne, nei ripari sotto roccia e nelle tombe.
E’ evidente che quando l’uomo imparò a lavorare l’oro, l’unico metallo che si trovi allo stato naturale nelle sabbie del deserto o fra i sassi dei fiumi, si ebbe un rilevante aumento sia nella qualità che nella diffusione degli oggetti ornamentali. Si aggiunga anche l’organizzazione dei sistemi di scambio a breve, medio e lungo raggio che fece confluire, nei territori del Vicino Oriente e in Egitto, molte pietre preziose che si trovavano accostate con l’oro e con l’argento in sofisticati monili già quando, nella prima metà del III millennio a.C., si consolidarono le grandi civiltà urbane nella Valle del Nilo, nelle Valli del Tigri e dell’Eufrate.
Lo svilupparsi di una società gerarchizzata, con al vertice il faraone o il re-sacerdote e al livello intermedio gli artigiani, privilegia i gioielli come simboli di diversificazione sociale: essi sono riservati, di conseguenza, al re e agli alti dignitari, oltre che ovviamente alle divinità, concepite in veste umana.
Questa funzione esclusiva di cui beneficiano i gioielli per almeno duemila anni in Egitto e nell’Asia anteriore antica, sia nell’ambito religioso e funerario che nella vita quotidiana, si riduce in parte all’inizio dell’età del Ferro a causa dei Fenici, che per le esigenze legate al loro commercio, con i popoli mediterranei, creano e diffondono, accanto a vari gioielli di raffinata fattura in oro e pietre dure, ornamenti personali in argento, bronzo, pasta vitrea ecc.
Il declino delle aristocrazie greche ed etrusche, porta all’involuzione della produzione orafa, che, in Grecia, si allontana inevitabilmente dai modelli della grande opera scultorea, causando un impoverimento di tipi e di tecniche, salvo alcune rare eccezioni, nel V secolo a.C.
Non è una coincidenza se nel mondo greco l’arte orafa assume nuovamente valore autonomo, perché, ciò avviene ancora una volta nell’ambiente di corte e precisamente in quello macedone di Filippo II. La tradizione aulica continua anche con il figlio dello stesso Filippo, Alessandro Magno e con i suoi successori, dove i gioielli regali sono destinati sia all’uso quotidiano che alla collocazione nelle sepolture.
Dopo il rigore dei tempi repubblicani, anche a Roma, a partire dalla prima età imperiale, si accolgono orafi e incisori di gemme, di origine greca, per soddisfare la crescente richiesta di sfarzosi manufatti per ornamento personale riservati alle donne ma anche agli uomini più illustri sia per nascita che per censo. La documentazione che ci hanno lasciato i centri vesuviani, sepolti nell’eruzione del 79 d. C., può considerarsi esaustiva perché ci permette di conoscere i tipi di gioielli in uso a Roma e nel resto del mondo romano nella prima età imperiale.
E’ senza dubbio l’Egitto a costituire una tappa importantissima nella storia del gioiello preclassico, sia per l’antichità delle testimonianze pervenuteci, grazie al perfetto stato di conservazione e, quasi sempre in contesti ben databili, che per lo straordinario livello tecnico raggiunto dagli orafi, ma soprattutto per la vastità della documentazione che trova evidente confronto, oltre che nei testi, anche nella ricchissima serie di scene di vita quotidiana, rappresentate sulle pareti interne delle tombe, dove sono riconoscibili le varie fasi di lavorazione dei gioielli con un’attenzione del dettaglio che trova sporadicamente riscontro in altro luogo.
L’esigenza fondamentale proposta della gioielleria egiziana fu, all’inizio, quella di creare oggetti che, sia per le proprietà intrinseche dell’oro, sia per la facile lettura dei motivi che essi raffiguravano, fossero in grado di annullare le forze del male. Da ciò deriva la presenza di gioielli-amuleti che ritraevano quegli stessi animali pericolosi da cui si voleva allontanare il pericolo. Per lo stesso motivo si crearono amuleti a protezione delle parti più sensibili del corpo che, per i faraoni, erano realizzati in metalli e pietre preziosi, configurandosi di conseguenza come veri e propri gioielli.
Questa perfezione tecnica, raggiunta nei gioielli dell’Antico Regno, intorno al 3000 a.C., è soprattutto evidente nei braccialetti in argento, metallo assai raro in Egitto fino al Medio Regno, con intarsi in corniola, turchese e lapislazzuli. L’abilità nel lavorare a sbalzo, a stampo e a fusione l’oro e l’argento, accostandoli a pietre dure dai colori smaglianti, raggiunge vertici eccezionali nei gruppi di oreficerie del Medio Regno (2040-1785 a.C.) provenienti da Dahshur, el-Lisht e Lahun, località che si trovano a sud di Saqqara, dove sorgevano le tombe reali della XII dinastia (2000-1850 a.C.), che si contraddistinguono per la raffinata creatività dei modelli destinati a diventare usuali nella gioielleria faraonica; ne sono esempio i pettorali a forma di tempietto con scene simboleggianti il viaggio ultraterreno del defunto regale e la sua resurrezione. La delicatezza e l’eleganza delle linee di contorno delle figure, ravvivate da intarsi di pietre dure policrome, decadranno, nei pettorali della XVIII e XIX dinastia, in un barocco appesantito da intricati motivi, la cui pesantezza non viene diminuita nemmeno dal cromatismo degli smalti, sempre più stridenti e pomposi.
Nei gioielli del Medio Regno, compare, per la prima volta, la tecnica della granulazione: di origine mesopotamica raggiunge la Valle del Nilo, attraverso Biblo, probabilmente con l’intermediazione siriana. Mentre nel Nuovo Regno (1550-1075 a.C.), nelle tombe dei faraoni, fanno la comparsa massicci pettorali, ricchi di intarsi colorati che comprendono pasta vitrea e smalti.
Il sorprendente corredo di oggetti preziosi, collocato nella tomba del faraone Tutankhamon nella Valle dei Re a Tebe (1341-1332 a.C.), ritrovato intatto da Howard Carter e Lord Carnavon nel 1922, testimonia a quale livello di originalità e di fastosità fosse giunta, verso la fine della XVIII dinastia, la lavorazione dell’oro e delle pietre preziose.
La straordinaria perfezione tecnica, degli orafi di corte, si rivela principalmente negli anelli d’oro, con castoni incisi, ma anche nei numerosissimi pettorali che custodivano la mummia del re. Nonostante la magnificenza degli smalti in pasta vitrea, che ben si combinano, nella tecnica del cloisonné (veniva utilizzata per incastonare intarsi di pietre preziose, semi-preziose o di pasta vitrea colorata in un alveo d’oro), con oro e corniola rossa, traspare una certa pesantezza nel disegno se confrontati con i pettorali dai motivi più eleganti e distanziati del Medio Regno.
L’ultimo enorme complesso di oreficerie faraoniche, in grado di rapportarsi con quelle di Tutankhamon, proviene dalla necropoli di Tanis, la città del Delta egiziano, dove furono sepolti i sovrani della XXI dinastia (1085-945 a.C.) ed alcuni della XXII (945-773 a.C.).
Sono principalmente i corredi di Psusennes I e di Amenemope a confrontarsi, in splendore e perfezione tecnica, con quelli della XVIII dinastia. La superiorità delle oreficerie di Tanis (XI-VIII secolo a.C.), che utilizzano abbondantemente l’argento, si evidenzia nei pendagli con un imponente scarabeo alato, in diaspro, che sostiene il cartiglio del faraone, posto, nei pettorali a tempietto di modello più tradizionale.


A differenza dell’Egitto, territorio ricco di materia prima quale l’oro, la Valle dei Due Fiumi vive situazioni discontinue nello sviluppo dell’arte orafa, perché, le stesse sono condizionate sia dalle ostilità politiche, che dalla mancanza di materie prime quali metalli e pietre preziosi, anche se è, archeologicamente provato, che l’oro era conosciuto nel Nord del Paese sin dal tardo IV millennio. Con la stabilizzazione delle città-stato sumeriche ( circa 3000-2400 a.C.) e con il concentrarsi della ricchezza nell’ambiente regale e templare sorgono gruppi più consistenti di oreficerie. Le più note, per qualità e quantità, provengono, senza dubbio, dalla necropoli reale di Ur, nella Bassa Mesopotamia, utilizzata tra il 2600 e il 2000 a.C.

sabato 22 febbraio 2014

Minosse, Re di Creta. Uno studio propone la sua sepoltura in Sicilia.

L'ultima dimora del Re, un libro di Rosamaria Rita Lombardo
recensione di Vincenzo D'Alessio



L’agile volume dell’archeologa Rosamaria Rita Lombardo dal titolo L’ultima dimora del re, pubblicato nelle edizioni Fara di Rimini, è un contributo a quella branca scientifica dell’Archeologia che prende in seria considerazione il pensiero di Paul Faure: “Chi lo resusciterà del tutto? Chi, se non colui che reputa le leggende ricche di realtà, ed i sogni altrettanto rivelatori di una confessione?” (vedi pag. 90 del libro) e lo fa proprio. Non basta l’esistenza a contenere la passione per la terra che ci appartiene. L’Archeologia risuona in noi (archeologi di montagna) come lo scorrere dei versi dell’Odissea di Omero dove nella metrica si palesa l’appartenenza alla memoria collettiva orale.
Il lavoro della Lombardo è eminentemente scientifico: poggia su testi autorevoli di autori greci, latini e studiosi di chiara fama. Tra questi vorrei ricordare la figura dell’archeologo Paolo ORSI resa mitica in molti libri fra i quali "La collina del vento", di Carmine Abate (Mondadori,2012), dove la spinta alla ricerca di ORSI sulla collina del Rossarco dell’antico insediamento di Krimisa in Calabria era legata alla memoria orale.
Anche in questo caso il Monte Guastanella nell’agrigentino e la realizzazione della mitica deposizione del Re Minosse (da Creta) si legano alla tradizione orale sottoforma di versi:
“Lu re Mini-Minosse è / drivucatu intra la muntagna di Guastanedda. / È tuttu chinu d’oru / e quannu lu scoprinu / iddu addiventa un crastu d’oru / e unu av’ arrimaniri” (pag. 56).
Anch’io ho iniziato il percorso di archeologo dilettante e successivamente di Ispettore Onorario del Ministero dei Beni Culturali collegandomi al momento esistenziale dell’infanzia quando i nonni materni mi raccontavano le leggende che da secoli (e forse più) aleggiavano sulle antiche case del luogo natale.
La memoria collettiva mi ha premiato nel lavoro di ricerca sul campo e fa bene al cuore trovare confronto nell’ottimo lavoro della professoressa Lombardo, che dedica amorevolmente il lavoro alla figura paterna (allo stesso modo fa Carmine Abate nell’epigrafe al suo volume) ripreso fotograficamente nella tavola 10, a pag. 52, che ha posto in lei il seme della gratitudine verso lo scrigno della terra dove gli antenati hanno reiterato e desiderato rivelare le ricchezze dell’antico passato.
Riprendendo per analogia questo lavoro archeologico anche per me la leggenda di una grotta con un tesoro era collegata al ritrovamento insperato da parte dei poveri contadini, che volevano arricchirsi facilmente e velocemente, e il sacrificio umano come contraccambio: la leggenda della “Chiocciola con i pulcini d’oro”. Mentre nel caso della tomba di Minosse il tesoro è rappresentato da “un capro tutto d’oro”. Un altro riscontro filologico è legato al culto cristiano dell’Angelo (l’Arcangelo Michele) sviluppatosi in tutta l’Italia Meridionale a partire dai primi secoli dopo Cristo (si veda Sant’Angelo Muxaro prossimo a Monte Guastanella) proprio in grotta: similitudine con la Grotta del Gargano da dove prende avvio il culto che accomuna le nostre ricerche a quelle ipogee della Lombardo.
La ricchezza, rigo dopo rigo, dei riferimenti ai testi antichi e moderni consolida la ricerca scientifica e la pone come metodo di ricerca per chi legge. Il richiamo alle fonti bibliografiche riempiono la mancanza di campagne di scavo accurate e arricchite dalle prospezioni satellitari oggi diffuse nell’Archeologia ufficiale sul territorio. Una ricerca archeologica utilizzabile come testo scolastico per avvicinare gli studenti alla passione fondante che collega la Lombardo ai grandi nomi dell’archeologia italiana.

Fonte: http://www.faraeditore.it/nefesh/dimorare.html

venerdì 21 febbraio 2014

Il bitume, un elemento sfruttato dall’uomo fin dalla preistoria.

Il bitume, un elemento sfruttato dall’uomo fin dalla preistoria.

Secondo la rivista "Nature" (n° 380, pg. 336, 1996) i primi impieghi del bitume da parte dell'uomo risalirebbero addirittura al medio paleolitico, quindi a circa 42.000 anni addietro. Anticamente il bitume era reperibile in natura, nelle pozze ove affiorava il petrolio di giacimenti superficiali, perlopiù in medio oriente; solo col tempo, quello "a portata di mano" è finito, e si è cominciato a ricercarlo più in profondità. L'uomo imparò ben presto, quindi, a utilizzare a proprio vantaggio le particolari caratteristiche di questa insolita materia nera, che fu perfino utilizzata come una medicina e spalmata sulla pelle per curarne alcune malattie, o come arma, combinato con lo zolfo nel famigerato "Fuoco Greco" tanto usato dai Bizantini.
Ma gli usi più comuni erano ovviamente altri, la presenza del bitume come legante tra un mattone e l'altro, ad esempio, caratterizza le imponenti costruzioni mesopotamiche di Ur, Lagash e Babilonia, ma anche alcune egizie di Tebe; costruzioni spesso magnificamente conservate e che risalgono fino a 6.000 anni addietro.
Risultando particolarmente tenace e duraturo come adesivo, era impiegato anche per incollare a mura e palazzi decorazioni in maiolica o pietre. Gli occhi in vetro o in pietre dure di tante statue erano incollati proprio con il bitume.
Nella produzione artistica dell'umanità questo materiale non fu solo un predecessore del "Bostik", quanto anche una preziosa materia prima: nello splendido museo egizio di Torino si ammira infatti l'elegantissimo sarcofago del dignitario egizio Kha, realizzato con due soli colori: nero e oro, entrambi straordinariamente lucidi; il nero non è altro che asfalto accuratamente lisciato e lucidato.
Tra l'altro l'uso del bitume era importante anche dentro i sarcofagi egizi, nella mummia, per l'allora indispensabile conservazione eterna del defunto; e anche attorno al sarcofago ritroviamo il bitume a sigillare anfore piene di grano e strane scatole di terracotta contenenti carne e altri alimenti perché al defunto non mancasse cibo durante il lungo viaggio verso l'aldilà. E’ proprio qui che emerge la vera e importante qualità del bitume, quella di essere il più antico materiale a disposizione dell'uomo per impermeabilizzare e sigillare.
Sempre in Egitto troviamo questo uso documentato dalla Bibbia: "… la donna prese un cestello di papiro, lo spalmò di bitume, vi mise dentro il bambino e lo depose fra i giunchi sulla riva del Nilo..." quel bambino era Mosé.
Prima di lui l'umanità si era già affidata al bitume per salvare sé stessa e ogni specie vivente dall'acqua del Diluvio Universale: "… fatti un’arca di legno di cipresso, dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori…". L'acqua, appunto, un elemento indispensabile per la vita e per lo sviluppo della civiltà (come la capacità di controllare e utilizzare il fuoco), che il bitume ha aiutato in molti modi a controllare e gestire: ad esempio calafatando le imbarcazioni perché sull'acqua galleggiassero, rendendo più semplici e veloci i trasporti che potevano così "tagliare" il tragitto attraverso fiumi e mari e facilitare quell'importante attività di comunicazione e scambio di cose e idee che è stato il commercio.
Oltre a specifiche categorie e specializzazioni, come marinai, pescatori e navigatori, il bitume fu un indispensabile elemento di civiltà e comfort garantendo case impermeabili e asciutte, un uso importante ancora oggi. In conclusione, il bitume è stato ed è un utile elemento naturale. Quello che usiamo oggi è prodotto dal petrolio, ma non è diverso da quello che si utilizzava quarantamila anni fa, prodotto dalla natura (ma sempre dal petrolio). Se tante generazioni di uomini lo hanno estratto, commerciato, lavorato, spalmato, lucidato e perfino tenuto in casa come soprammobile, o addirittura come pavimento; se vi hanno affidato le loro vite in mare (e quelle di bambini come Mosé); se vi hanno conservato il cibo e hanno impermeabilizzato i tetti sotto cui dormivano con la famiglia, significa che si tratta di un prodotto sufficientemente testato e di cui possiamo fidarci.

giovedì 20 febbraio 2014

Saracu, Tzerac (c)cu «Servo», di Massimo Pittau

Saracu, Tzerac (c)cu «Servo»
di Massimo Pittau


Saracu, saraccu, serac(c)u, tzarac(c)u, tzerac(c)cu, cerac(c)u, tharac(c)u, therac(c)u, tarac(c)u, terac(c)u-a «servo pastore, servo agricolo», «domestico-a», dal bizantino sarhakinós «saraceno, schiavo saraceno» (già in Eusebio, Hist. Eccl. VI 42, 4, come Sarhakenós).
Anche nella Sardegna medioevale è documentata la presenza di schiavi saraceni, catturati come rivalsa per i cristiani rapiti dai Saraceni e venduti come schiavi nell'Africa settentrionale E pure sul piano linguistico sono documentati gli antroponimi.
Sarakinu e Sarakina, dai quali, in quanto interpretati come diminutivi, per retroformazione si sono avuti saracu e saraca col significato prima di «schiavo, servo-a saraceno-a» e dopo di «servo-a» in genere. Anche nell’antico italiano è documentato un appellativo saraco «musulmano spagnolo» (GDLI).
Sul piano fonetico è illegittimo opporre la mancata sonorizzazione della velare -k- nel logudorese e nel campidanese perché si tratta di un prestito bizantino che, in quanto tale, non doveva sottostare alle norme della fonetica storica del sardo come lingua neolatina. Sempre in epoca medioevale e in zone circoscritte e più esposte saracu ha preso anche il significato di «ragazzo, giovane», con uno slittamento semantico che trova esatto riscontro in vocaboli di molte altre lingue e parlate, i quali hanno appunto avuto e hanno contemporaneam. i significati di «ragazzo» e «servetto»: greco paîs, lat. puer, franc. garçon, ingl. boy, spagn. muchacho, ted. Knabe, napol. guaglione, ital. ragazzo (M.P., SSls 13-34; LCS I 113-136). Vedi sarahinu, teracchía.

***Estratto dall'opera di Massimo Pittau, Nuovo Vocabolario della Lingua sarda – fraseologico ed etimologico, edizione digitale accresciuta ed emendata, “Ipazia E-Books” (Amazon).

mercoledì 19 febbraio 2014

Scoperta una tavoletta mesopotamica in caratteri cuneiformi. Dice che l’Arca di Noè aveva una forma tonda.

Una tavoletta mesopotamica in caratteri cuneiformi dice che l’Arca di Noè aveva una forma tonda.

Un’alluvione catastrofica minaccia l’umanità e Dio si rivolge al suo prediletto rivelandogli come salvare la sua famiglia e gli animali. Deve farli salire in coppia su una nave costruita seguendo precise indicazioni. Sembra il racconto di Noè e dell’Arca, ma non si tratta del testo biblico bensì della traduzione di una tavoletta mesopotamica in argilla, antico 4 mila anni e ricoperto di segni incisi in cuneiforme. A leggerlo e interpretarlo è il curatore del British Museum, Irving Finkel, che ha subito capito di trovarsi di fronte alla descrizione del Diluvio Universale. Tuttavia ha notato un dettaglio originale: nel testo ci sono le indicazioni per costruire una enorme barca di forma circolare.
“È stata una sorpresa scoprire che l’Arca era rotonda”, ha detto lo studioso ai giornalisti dell’Associated Press.

Sul suo blog ha aggiunto: “Nessuno aveva mai pensato a questa possibilità. La tavoletta descrive il materiale necessario per costruirla: corda in fibra di palma, nervature di legno e tinozze di bitume bollente per rendere il vascello impermeabile. Il risultato è un tradizionale coracle (una barca fluviale tondeggiante, tuttora usata nel Regno Unito e in Oriente), ma di dimensioni gigantesche, con una superficie di 3600 metri quadrati, equivalenti a mezzo campo di calcio, con pareti alte 6 metri. La quantità di corda necessaria, se distesa in linea retta, collegherebbe Londra a Edimburgo”
L’Arca rotonda, sigillata con il bitume, non sarebbe affondata e sarebbe scivolata sulle acque tempestose di quella disastrosa alluvione. “Non doveva navigare ma solo galleggiare, e ancora oggi è conosciuta in Iran e in Iraq per trasportare il bestiame da un lato all’altro dei fiumi”, ha detto Finkel al quotidiano The Telegraph. Ma la sua traduzione ha fatto infuriare i gruppi cristiani fondamentalisti e creazionisti, religiosi che ritengono la Bibbia un testo sacro da prendere alla lettera. Per questi, la Genesi è da contrapporsi al Darwinismo.
Le pagine dell’Antico Testamento descrivono accuratamente l’Arca di Noè, nella quale (secondo la versione mesopotamica) gli animali entrarono a coppie, per salvarsi da 40 giorni e 40 notti di pioggia torrenziale. L’imbarcazione di legno era lunga 300 cubiti, larga 50 ed alta 30, ossia circa 137 metri di lunghezza, 23 di larghezza e 13 di altezza, dimensioni che nulla hanno a che fare con la forma tonda della tavoletta del British Museum.

Per questo motivo Ken Ham, uno dei fondatori dell’associazione Answers in Genesi, ha contestato quel testo antico. “La verità è quella riportata dalla Bibbia, un libro ispirato da Dio ma nel tempo corrotto dai Babilonesi. Le altre leggende di alluvioni sono state create dagli uomini che hanno raccontato il Diluvio di Noè, avvenuto 4400 anni fa“, ha scritto Ham, senza accettare ragioni.
Oggi gli studiosi sono concordi nell’affermare che furono gli Ebrei, durante il periodo Babilonese del VI secolo a.C., ad assimilare i miti e le tradizioni del popolo che li aveva conquistati e deportati. Nel 1872, fu scoperta la prima versione babilonese del diluvio all’interno dell’Epopea di Gilgamesh, l’antico poema babilonese nel quale il re e semidio, nel suo viaggio alla ricerca dell’immortalità, incontra Utnapishtim , l’uomo al quale il dio Ea/Enki ha permesso di salvarsi con le varie specie animali a bordo di una grande nave sigillata con pece e bitume.
Ma lo stesso racconto è presente in versioni ancora più antiche, con protagonista il re Atrahasis (in accadico il molto saggio) e il re sumero Ziusudra (dalla lunga vita). Nomi diversi utilizzati per la medesima vicenda mitica.

C’è da dire che un’arca a forma di scodella,comporterebbe problemi di vario genere, inoltre Il diluvio è riportato in molti antichi miti, cambiano solo i nomi. Tra tutti, quello del diluvio rivela una concezione ciclica del cosmo. Nell’Antico Testamento il diluvio è unico, ma in altri testi (anche di epoche diverse) ha come principale protagonista la Luna .
Per esempio la narrazione babilonese parla di Isthar, la dea Lunare. E’ descritta come la causa del diluvio, ma allo stesso tempo anche la salvatrice dei sopravvissuti, raffigurata nel battello che lei, come Noè, aveva costruito. Il settimo giorno inviò una colomba in segno di pace e di cessato pericolo.
In Cina abbiamo un mito con protagonista la dea lunare Shing- Moo, divinità femminile che per tradizione è comparabile alla Vergine Maria. Dopo il diluvio Shing-Moo manda sulla terra gruppi di persone per il ripopolamento.
Nell’Antico Testamento, il nome Noè è una forma di NUAH, una dea lunare babilonese. La terminologia “Arca” s’identifica anche alla parola indù Argha. Forse il rapporto Luna e acqua può riguardare anche l’influsso della Luna sulle maree.
Il diluvio corrisponde a un cataclisma particolare perchè l’acqua, nella sua simbologia, è rigenerante: distrugge forme e genti ma successivamente c’è una rinascita con una nuova umanità. L’acqua ha una duplice funzione, quella di lavare le colpe e ridare la purezza, come avviene nel battesimo Cristiano.

martedì 18 febbraio 2014

Archeologia: missione spagnola ritrova tomba intatta del 1.600 a.C.

Archeologia: missione spagnola ritrova tomba intatta del 1.600 a.C.
di Paola Del Vecchio.


Una tomba intatta, risalente al 1600 a.C. di un uomo chiamato Neb, che getta luce sulla XVII dinastia dell'antico Egitto. è stata portata alla luce dai ricercatori del Progetto Djehuty, condotto nell'estremo nord della necropoli di Dra Abu el-Naga, a Luxor, l'antica Tebe. Il ritrovamento del sarcofago, ha spiegato José Manuel Galan, direttore del progetto, contribuisce alla conoscenza di un periodo storico, durante la XVII dinastia, ancora poco conosciuto, quando la città di Tebe diventa capitale del regno e si pongono le basi dell'impero e della dominazione egiziana sulla Palestina, la Siria e Nubia. Il corpo di Neb è stato ritrovato in una camera sepolcrale, scavata nella roccia a quattro metri di profondità. Il sarcofago, lungo 2 metri e largo 50 centimetri, è in buono stato di conservazione, con i colori della decorazione originale.
L'ingresso alla camera sepolcrale era perfettamente chiuso con ornamenti, per cui si desume che non era mai stato aperto dopo il deposito del feretro. Nella piccola stanza è stato ritrovato un sarcofago di legno decorato secondo lo stile 'rishi' (in arabo significa ali), caratteristico della XVII dinastia. "Per questo motivo sul feretro é stato dipinto un paio di ali estese, come se una dea alata abbracciasse il defunto dalle spalle, assicurandogli la sua protezione nell'aldilà", spiega Galan. Il ricercatore sottolinea che "lo stile del sarcofago fu usato molto poco e per un breve periodo di tempo, quando l'Egitto ancora non era unificato. Pochi esemplari del genere - aggiunge - sono stati ritrovati nei luoghi originari e sono stati ben documentati nel loro contesto archeologico". Una iscrizione sulla copertura del feretro contiene una invocazione di offerta a un uomo chiamato Neb, la cui mummia è ancora dentro la cassa e in apparente buono stato. Il ritrovamento, fatto durante la campagna di scavi archeologici alla quale prendono parte 16 specialisti spagnoli e 4 stranieri, conferma che Dra Abu el-Naga era il luogo in cui si interravano i membri della famiglia reale della XVII dinastia e i loro cortigiani, nel 1.600 a.C. Un periodo chiave per comprendere le origini dell'impero egiziano, la struttura e il funzionamento dell'amministrazione di Tebe. La dinastia in questione si inquadra nel periodo storico denominato Secondo Periodo Intermedio (fra il 1800 e il 1550 a.C.), caratterizzato dall'egemonia di governanti di origini siro-palestinesi insediati nel Delta orientale e degli Hyksos. Si tratta di un'epoca di grande complessità politica, in cui il potere effettivo era nelle mani di governanti locali.

Fonte: ANSA

lunedì 17 febbraio 2014

Sensazionale scoperta: un tunnel di epoca punica unisce la Sicilia e la Calabria nello Stretto di Messina?

Sensazionale scoperta: un tunnel di epoca punica unisce la Sicilia e la Calabria nello Stretto di Messina?

A riferirlo nei giorni scorsi sono stati diversi siti d’informazione calabresi e siciliani, ma la notizia non ha ancora trovato conferma, sarà mia cura nei prossimi giorni verificarne l'attendibilità. Personalmente ritengo improbabile che un tunnel sotterraneo possa congiungere le due estremità in quanto la profondità del mare in quella zona supera i 500 metri, tuttavia ho deciso di divulgare l'informazione.

Un vero e proprio tunnel sotterraneo riconducibile al periodo romano è stato scoperto nello Stretto di Messina, da un gruppo di operai che stavano effettuando una serie di carotaggi sul tratto autostradale che collega Villa San Giovanni a Scilla. Secondo i primi rilievi fatti da un team di archeologi e geologi incaricati dalla Soprintendenza il tunnel, profondo tra gli 80 metri e i 200 metri e lungo più di tre chilometri, dovrebbe collegare le due sponde dello Stretto. L'entrata si trova sotto la Torre Cavalloe l'uscita nelle vicinanze del Pilone a Messina.
Il ponte sullo Stretto che tanto ha diviso l’opinione pubblica tra favorevoli e contrari, avrebbe quindi un autorevole antenato: un tunnel sotterraneo che passerebbe proprio nel bel mezzo dello Stretto di Messina. Il sottopassaggio segreto risalirebbe al periodo delle guerre puniche e sarebbe stato scoperto alcuni giorni fa dagli operai impegnati nei lavori di consolidamento autostradale della Salerno-Reggio Calabria, precisamente all’altezza di Villa San Giovanni.
Il tunnel sarebbe un vero e proprio passaggio di collegamento fra la terraferma e l’isola del Mediterraneo, i cui “imbocchi” sarebbero situati a Torre Cavallo (Calabria) e al Pilone (Sicilia). La larghezza del tunnel sarebbe particolarmente limitata, perché non supererebbe i 175 cm, con la conseguenza che al suo interno – riferiscono le fonti giornalistiche – può entrare soltanto una persona per volta.
Il lungo corridoio sarebbe intervallato da camere più ampie, in cui si trovano anche sedili in pietra e secondo gli archeologi citati nell’articolo, sarebbe servito per far passare le truppe romane. La Sicilia fu, infatti, teatro di sanguinose battaglie per la supremazia nel Mediterraneo che si combatterono nell’ambito delle guerre romano-puniche, fra il 264 e il 241 a.C e che videro contrapposti gli eserciti di Roma e di Cartagine.
La stampa riporta poi la notizia secondo cui non sarebbe il solo presente in Sicilia. Nell’Isola, infatti, ci sarebbero molti sottopassaggi simili a quello scoperto, alcuni dei quali sarebbero collegati a questo da una rete di cunicoli. Un tunnel di collegamento sarebbe stato rilevato, ad esempio, a Ganzirri, nel Messinese.
Dai primi rilevamenti al carbonio si può dire con certezza che è stato costruito nel periodo delle guerre puniche (264 - 241 a.C.) e probabilmente sarà servito anche come riparo dai fenomeni naturali e dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Secondo gli esperti, questa rete di tunnel si estende in tutta la Sicilia, da Messina fino a Sciacca.
L’archeologo Marco Manti spiega, parlando al Daily Mail, che “Solo a Villa San Giovanni abbiamo trovato 700 metri di questa rete di tunnel sotterranei. A Ganzirri ne abbiamo trovati altri 350 metri.. Si tratta di cavità ampie solo 170 centimetri, appena sufficienti a permettere il passaggio di una persona. I tunnel sono intervallati da piccole camere di stoccaggio e posti a sedere”.
Dopo la messa in sicurezza del tunnel, a giorni sarà organizzata una spedizione di speleologi che da Torre Cavallo arriverà fino a Ganzirri

domenica 16 febbraio 2014

Archeologia. Il simbolo della clessidra.

Il segno a clessidra
Donatello Orgiu


La cosiddetta figura a clessidra è uno dei segni geometrici che compare abbastanza di fre-quente nelle decorazioni dei manufatti e monumenti preistorici e, contrariamente a quanto può sembrare a prima vista, il simbolo fu probabilmente suggerito da fenomeni osservati innatura. Su questo segno la Gimbutas scrive:
“il triangolo è la vulva (il triangolo pubico) e la clessidra è formata da due triangoli uniti agli apici. Queste forme geometriche diventanoantropomorfe aggiungendo testa o seni, braccia e gambe. Ma non sono braccia umane bensì di uccello quelle aggiunte alle figure a clessidra. Il triangolo e la clessidra sono simboli della Dea nella sua epifania di uccello da preda”.

Conclude poi affermando che due triangoli congiunti sono una forma di “antropomorfismo semplificato della Dea della rigenerazione nelle sembianze di rapace”. Pur accettando sostanzialmente l’ipotesi della Gimbutas,si può altresì ipotizzare che l’origine del segno a clessidra risieda nella visione dualistica dell’esistenza. Come afferma la studiosa, il triangolo potrebbe indicare la vulva, la vita, la forza creativa e il femminile, perciò il secondo triangolo rovesciato potrebbe acquisi-re un significato opposto, non più di vita ma di morte, non più femminile ma maschile ecc. Il simbolo così composto confermerebbe, in fondo, ciò che asserisce la Gimbutas: la morte è contrapposta alla vitae in fondo risultano “inseparabilmente unite”. Come già detto, sono sostanzialmente d’accordo con la studiosa sul significato del segno anche se ritengo che la sua originenon derivi dalla riproduzione
del triangolo pubico, ma da uno schema suggerito dal movimento apparente del Sole e della Luna. In precedenza abbiamo visto che i punti di levata e di tramonto del sole sull’orizzonte durante l’anno si spostano: quando sono in crescita essi si muovono da sud verso nord mentre nel periodo di calo da nord verso sud. Si può inoltre notare che il punto in cui sorge il Sole al solstizio estivo(S.E.) è opposto a quello in cui tramonta al solstizio invernale(S.I.), così come il punto in cui sorge al S.I. è opposto a quello del tramonto al S.E. (Fig.1 e 2).

Di conseguenza la postazione da cui si osserva l’alba al S.E. diventa teoricamente, dopo sei mesi, il punto in cui tramonta il Sole al S.I., osservato, quest’ultimo, da quel punto che, sei mesi prima, era di riferimento per l’alba del S.E., così come il punto di osservazione dell’alba del S.I. diverrà il punto di riferimento per il tramonto al S.E. (stesso discorso è valido per il ciclo draconico della Luna).Se l’osservazione ha luogo da una postazione fissa, queste due linee solstiziali si incrociano sul punto in cui è collocato l’osservatore formando un segno a “X”. Aggiungendo al segno a X due segmenti, uno sopra e uno sotto, per rappresentare il tratto di orizzonte calcato dagli astri, i segmenti chiuderanno i triangoli formando, appunto, una clessidra che risulterà composta da due triangoli, uno formato dalle due albe solstiziali che può essere coerentemente ricondotto al concetto di vita che inizia, di forza creativa e di femminile (quindi anche al triangolo pubico); l’altro dai due tramonti solstiziali che rimanda all’idea di morte, di di-struzione e di maschile. Il simbolo della clessidra concepita in tal modo si forma sulla base di idee di natura dualistica dove Morte (= tramonto) e Rigenerazione (= alba) si ritrovano,come afferma la Gimbutas, “inseparabilmente unite”. Le zampe d’uccello che solitamente caratterizzano la clessidra fanno pensare ad una natura uranica della figura, confortando l’ipotesi che essa si riferisca a divinità celesti come appunto la Luna e il Sole.

La clessidra raffigurata nel coccio di M. Majore (Fig. 3) presenta una linea verticale che divide in due la figura e si prolunga fino a costituirne il collo. Se,come ipotizzo, le linee incrociate rappresentano i punti limite dell’escursione della Luna e del Sole (lunistizi e solstizi) quella centrale diventa, conseguentemente, la linea equinoziale. Si ripete, anche in questo caso, lo schema che abbiamo già visto nel bronzo di Padria (e in una certa misura anche nella parete dipinta di Mandra Antine III): è sempre all’equinozio il punto focale, momento in cui avviene il passaggio tra la stagione invernale e quella estiva e viceversa. Con un po’ di attenzione, si posso-no ricavare indicazioni utili anche da piccoli particolari. Riprendendo il discorso sul fenomeno dei punti su cui sorgono e tramontano la Luna il Sole che si muovono in continuazione durante il loro ciclo, va rilevato che il Sole per giungere ai due estremi impiega sei mesi “in andata” e sei mesi “al ritorno” mentre alla Luna bastano poco meno di 28 giorni per compiere il medesimo percorso (14 “all’andata” e 14 “al ritorno”). Si noti la decorazione della parte bassa del vestito (Fig. 3), in alto è composta da strisce conti-nue orizzontali tendenzialmente arcuate che seguono la curvatura finale della “gonna” mentre la metà inferiore è decorata con dei puntini. La linea che divide in due il vestito e l’intera figura delimita sette file di puntini (in verticale) su ogni parte del vestito. Se immaginiamo la clessidra collocata sul territorio (Fig. 1), le 14 file di puntini impressi sulla “gonna” ripetono i “passi” che la Luna compie quando si sposta dal lunistizio superiore a quello inferiore e viceversa (Fig. 3 e 4).

I piccoli segni impressi nella “gonna” rappresentano i giorni che la Luna realmente impiega per compiere quel tragitto. Anche in questo caso, come nel nuraghe S. Millanu (Fig.5), si ripete l’utilizzo del numero sette con un significato praticamente identico: nel nuraghe con sette filari si passa dalla finestrella equinoziale a quella solstiziale dove il Sole impiega in tre mesi per realizzare il tragitto mentre alla Luna bastano solo sette giorni.
I sette puntini e i sette filari hanno probabilmente il medesimo significato giacché sembrano riferirsi al medesimo fenomeno Si noti, anche, come le linee decorative e il bordo inferiore della “gonna” siano arcuate (Fig. 3).

Il particolare è probabilmente frutto del fatto che l’orizzonte apparecurvo ai nostri occhi. La figura aclessidra di Monte Majore non è probabilmente la stilizzazione del corpo della donna, ma si t ratta, viceversa, della rappresentazione antropomorfa dello schema geometrico dei moti apparenti della Luna e del Sole.