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venerdì 1 giugno 2012

Pelasgi, megalitici e...sardi.


La Sardegna è figlia dei pelasgi-megalitici?
di Pierluigi Montalbano



L'articolo pubblicato ieri sull'architettura megalitica, tratto dal libro "Sardegna, l'Isola dei Nuraghi" (in pubblicazione fra pochi mesi), ha suscitato parecchia attenzione, e sono giunte in redazione varie mail di lettori che chiedono se la Sardegna sia stata influenzata dai popoli megalitici. Ho già scritto in "Antichi Popoli del Mediterraneo" che le caratteristiche delle genti pelasgiche-megalitiche si possono sintetizzare in 4 tracce evidenti:
1) conoscenza profonda delle tecniche di navigazione,
2) culto della Dea Madre,
3) capacità di movimentare e sovrapporre elegantemente le grandi pietre
4) rappresentazione delle corna del toro e, al contempo, dell'utero (richiamo al sole e alla luna, alla terra e all'acqua).
Questi elementi li troviamo racchiusi nella storia della Sardegna, già dal Neolitico. Pertanto la risposta alla curiosità dei lettori è affermativa: i sardi sono figli di quelle idee, e la società era organizzata secondo le direttive dei capi di quelle genti.
Per ampliare il panorama legato alla manipolazione delle pietre, ho pensato di aggiungere un altro breve passo del nuovo libro.

I muretti a secco
di Pierluigi Montalbano

Recentemente ho avuto modo di studiare il lavoro di ricerca della D.ssa Rossella Barletta “Architettura Contadina del Salento”, trovando interessanti spunti applicabili alla realtà sarda. Così come avviene in Puglia, anche nell’isola dei nuraghi lo sguardo paesaggistico verso la campagna, offre un affascinante repertorio di rara entità, con multiformi testimonianze della civiltà contadina realizzate con la pietra grezza del posto. Mezzo secolo fa, Ferdinando Manno scriveva nel suo “Secoli fra gli ulivi”: “Da generazioni e generazioni, i contadini rastrellano questa immensa quantità di sassi ordinandoli uno ad uno in quelle recinzioni campestri che chiudono poderi, giardini e campi in una rete di cortili per alberi. È un’esplosione di geometrie, con pietre utilizzate anche per fare capanne nuragiche per ricovero, nelle notti, a guardia contro ladruncoli e caprai, i nemici della terra, gli oppositori secolari dell’istinto di possesso dei contadini. Ora, in tempo di latte industriale, sono ruderi maestosi che vanno diroccandosi, resti di vita e di costumi spenti per consumazione”.


A volte la pietra si presenta con forme modellate senza intervento dell’uomo, erosa dal vento e dalla pungente salsedine portata dai venti di scirocco e maestrale. Spesso è assemblata in spettacolari muretti, realizzati da contadini caparbi che strappano alla roccia un fazzoletto di terra. Gli spazi delimitati dai muretti accolgono ortaggi, filari di vite, alberi d’ulivo, di fico, di carrubo o di mandorlo, organismi vegetali che resistono all’aridità del terreno. In altri casi i muretti delimitano le proprietà terriere e i percorsi di campagna, separano appezzamenti in altra maniera coltivati, stabilizzano le scarpate o sostengono i terrazzamenti che hanno consentito di praticare specifiche coltivazioni.
È ancora Manno a raccontare questo paziente lavoro: “La biblica fatica dei nostri contadini, che assalgono a colpi di zappa una terra pietrificata dalla siccità, ha un senso benedettino di lotta e di preghiera. Le loro mani nodose e laboriose, simili ad attrezzi agricoli, hanno reso produttivo quel palmo di terra”.
L’abitudine connaturata al contadino di riciclare materiale ritenuto da altri inutile ha portato, nei secoli, all’utilizzo completo di ogni cosa, seguendo lo stesso principio dello sfruttamento totale del maiale macellato; degli altri animali da cortile e da allevamento, dal gallo alla gallina, le cui zampe servivano come richiamo per catturare i polpi; del toro, del quale si recuperavano perfino le corna apponendole all’ingresso dell’abitazione o della stalla perché ritenute antidoto contro il malocchio; delle pecore, con il commercio del vello da vive, mentre di quelle macellate la pelle era richiesta dai fabbricanti di tamburelli.
Le pietre ricavate dal dissodamento di un terreno sono state sovrapposte una sull’altra con certosina pazienza e ordine meticoloso, per ottenere solidi muretti a secco che, nella loro dinamica articolazione, sembrano rincorrersi creando un affascinante reticolo di linee e di nervature. La calda luce mediterranea partecipa al gioco dell’aria, con alcuni muretti dotati di aperture a vista che, se osservati da particolari posizioni, paiono porte di accesso alla contigua vastità del cielo o, vicino alle coste, alla profondità del mare. I muretti sembrano fragili, provvisori, ma sono ancora al loro posto senza dare segni di stanchezza o cedimento. Forniscono quotidianamente un’umile ma necessaria presenza, necessaria a svolgere una funzione primaria: l’aria, non trovando una barriera impenetrabile, s’insinua leggera tra le sconnessure delle pietre, tra le maglie larghissime di questo merletto lapideo. Sempre la Barletta aggiunge che indipendentemente dalle funzioni delle strutture murarie, vi è una stretta relazione con la natura geologica del materiale lapideo di consistenza differente. È possibile vedere muri le cui pietre possono essere piatte e porose, trapezoidali e dure, farinose, ricche di gusci di conchiglie fossili. Frequentemente i muretti a secco sono stati costruiti per cingere gli appezzamenti di terreno, al fine di ostacolare l'ingresso ai greggi che brucando mettono a soqquadro campi interi. Un caratteristico muretto, di omerica memoria, recinge l'ovile: è provvisto di uno stretto passaggio per le bestie e consente di contarle al rientro dal pascolo. Altri sono realizzati dove spezzoni di roccia affiorante si presentano a terrazzamenti inclinati consentendo a pecore e capre di sdraiarsi e rimanere asciutte perché le deiezioni, colando, si depositano fra le fessure del calcare. Al suo interno si collocano mangiatoie di pietra, abbeveratoi scavati nella roccia e tettoie di frasche, ossia ripari per animali e contadini. Qualche albero di fico o di carrubo allunga la sua ombra, quanto mai gradita nelle assolate estati. All'interno dei recinti i ripari sono orientati per fruire una migliore esposizione solare, e per essere riparati dai venti dominanti. I muretti sono sempre ben visibili e facilmente raggiungibili in caso di abigeato. È difficile stabilire con esattezza a quale età storica risalgono. Forse i più antichi svolgevano una funzione difensiva poiché erano grandi muraglie robuste, composte diimponenti massi sovrapposti a secco. In alcuni casi si è fatto ricorso a lunghe pareti per confinare un possedimento feudale o per circoscrivere un casale, e su queste antiche delimitazioni si sono attestati i confini di alcuni comuni.


Gli antichi contadini inventarono un'economia lavorando con umiltà, liberando il terreno dai sassi e utilizzandoli nello stesso tempo. Ai romani si riconosce il merito di avere sviluppato un procedimento tecnico, certamente più antico ma meno diffuso, che rivoluzionò il modo di costruire gli edifici, rendendoli monumentali e robusti. Si tratta di una sorta di cemento armato: l’opus incertum, solido e impermeabile col quale si poteva costruire in altezza e velocemente, tutte caratteristiche che andavano incontro alle esigenze dei romani. Intorno alla metà del III a.C., la scoperta nel golfo greco-sannitico di Napoli della pozzolana, materia molto simile alla malta cementizia permise di sostituire, nei muri di pietre irregolari, l'antico riempimento d'argilla e di fare a meno di adeguare con precisione i singoli blocchi, poiché la massa legava e teneva assieme il tutto. I romani copiarono e perfezionarono un'invenzione sarda: la muratura a sacco, consistente nel mettere in opera una doppia cortina di pietre scelte con cura e colmare l'interno con pietrisco. Vitruvio, nel “De Architectura” definisce significativamente “ortostati” le diverse fasce o cortine costruite dai romani che colmavano l'interno del sacco con una miscela di malta e piccole pietre. A causa della differente forma e pezzatura delle pietre, l'opera muraria non adotta una trama geometrica predefinita: il paramento a vista è disposto senza preoccuparsi di ottenere una continuità di allineamento, né orizzontale, né verticale, né obliqua. Il muro avanza con grazia e la sua composizione a strati assicurava una grande consistenza e stabilità oltre che un isolamento acustico e termico. Una sentenza popolare ricorda che pietra su pietra si alza il muro, sottintendendo metaforicamente che ogni contributo, materiale o psicologico, è utile al raggiungimento di un obiettivo. L'antica attitudine di limitare un confine o una superficie terriera con muretti a secco non si è mai interrotta ed è giunta fino a noi inalterata nelle procedure tecniche. Secondo l'opinione comune i contadini hanno iniziato a costruire i muretti a secco dopo aver bonificato il terreno per aumentare lo spazio coltivabile. Questi braccianti del calcare hanno sviluppato un “senso” dell’equilibrio statico che deriva da anni di esperienza. I più esperti sono depositari di tecniche e di metodi rigorosamente rispettati durante la messa in opera, trasmessi oralmente dal padre e, andando a ritroso, per intere generazioni. Soltanto chi conosce profondamente e ha dimestichezza con la pietra riesce a collocarla istintivamente nella posizione migliore, creando una consonanza col terreno. Non si tratta soltanto di sovrapporre una pietra sull'altra, ma di conoscere la varietà e la differente struttura geologica, di imprimere in mente le forme e le dimensioni di un concio, in modo da distribuire appropriatamente ogni elemento e rispettare gli indispensabili principi di gravità e di attrito.


Bisogna saper usare la pietra, integrarla e sovrapporla agli elementi che già esistono, creare una corretta combinazione delle forze, generata anche dall'inserimento a incastro negli interstizi di scaglie che contribuiscono a rendere il desiderato consolidamento perpetuo del muro. Questi accorgimenti, insieme all'uso della necessaria utensileria, non potevano essere posseduti dal contadino, impegnato quotidianamente nei molteplici lavori agricoli, un uomo che incontrava le pietre durante l’aratura e le infilava in un angolo del terreno. Si tratta di abili maestranze, diverse da zona a zona, che hanno lasciato l'impronta distinguibile del proprio stile. La preparazione culturale di questi artigiani, benché quasi digiuna di geometria o di fisica, procedeva sul filo di un ragionamento logico. Per costruire il muro è preliminare raggiungere il banco di roccia o lo strato di terreno più solido e compatto sul quale si traccia lo scavo, una specie di fondamenta, denominato scarpa, sulla quale si pongono due file parallele di grosse pietre, facendo combaciare il più possibile il profilo con il terreno. Dalla precisione di queste prime operazioni dipendono la durata e la solidità del muro. Prima di procedere oltre occorre disporre un numero variabile di feritoie che permettono il deflusso dell'acqua piovana, altrimenti assorbita dal muro e nociva alle caratteristiche di durata del muretto stesso. Sulle prime pietre vengono poggiate le altre, generalmente di dimensioni inferiore a mano a mano che il muro cresce in altezza. Si allineano seguendo una guida costituita da due cordicelle annodate a pali posti all'esterno del muro. Lo spazio che si crea tra le due file di pietre, in gergo cassa, è colmato con pietrame informe. Una regola vuole che le pietre si pongano in modo che si incastrino quanto più è possibile le une alle altre, al fine di conferire maggiore stabilità al muretto. I vuoti che si creano sulle pareti sono otturati con schegge di pietra talvolta ottenute dal martellamento di un masso più grosso. Sia pure impercettibilmente, quasi tutti i muri presentano una graduale rastremazione effettuata su ambo le facce, così da presentare una base leggermente più spessa del colmo. Tale accorgimento consente di avere un'ottima resa statica e un bilanciamento dei pesi. A corredo di alcuni muretti lungo le strade di campagna sono state introdotte grandi pietre sporgenti dalla struttura muraria per consentire il collegamento, e quindi il passaggio da un terrazzamento all'altro, o per facilitare chi doveva montare in sella.

Le immagini, dall'alto:
Pranu Muttedu (Goni), foto di Cristiano Cani
ponticello nuragico (Alghero), foto di Sara Montalbano
Tomba di Giganti Is Concias (Quartucciu), foto di Cristiano Cani
Nuraghe Mannu, foto di Sara Montalbano

Foto e testo sono protetti da copyright, pertanto occorre sempre citare fonte e autore



2 commenti:

  1. Mauro, associazione Janas1 giugno 2012 alle ore 16:16

    Al contrario da quanto si vede da questa bella foto la tomba dei giganti di is concias- quartucciu, attualmente non si presenta più in quello stato di perfetta geometria, perchè l'ultimo filare sulla sommità dell'esedra è stato "depredato" di diverse pietre se non tutte. Questo è un danno incalcolabile, e io stesso sorpresi una ditta di costruzioni idrauliche di Dolianova nell'atto di asportare le pietre e sporsi immediata denuncia sia ai carabinieri di selargius sia al comune di quartucciu stesso. Purtroppo, dopo un anno circa nulla è cambiato e le condizioni del sito sarebbero addirittura peggiorate se io e altri amici non avessimo eseguito più volte le pulizie del sito asportando quintali di spazzatura non solo dai pressi della tomba ma perfino nel fantastico bosco sottostante e lungo e perfino dentro il fiume. Vorrei esortare tutti coloro che sono in grado di esercitare qualche tipo di ascendente nei confronti delle istituzioni a "spingere" insieme a noi, sia con opere di "volontariato ecologico" sia con iniziative di denuncia sociale e culturale...Insomma, parlatene e diffondete queste notizie, ogni qualvolta ve ne capiti l'occasione. Grazie.

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  2. Grazie Mauro per la segnalazione, e vediamo di preparare un bel messaggio per farlo girare su facebook.

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