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lunedì 30 aprile 2012

Nobili Atlantidi, di Paolo Bernardini


Nobili Atlantidi
di Paolo Bernardini


In relazione al convegno di Monte Claro sul tema Atlantide e i nuraghi, vi propongo il primo dei tre interventi di cui riferirò in questo quotidiano. Seguiranno quello di Alfonso Stiglitz sulle "Colonne d'Ercole" e di Mauro Perra su "Grano, granai e pane all'epoca dei nuraghi".

Paolo Bernardini:
Devo all’impegno e all’entusiasmo dell’amico Pierluigi Montalbano, che ringrazio, l’occasione odierna che mi chiama, insieme ad alcuni colleghi, a discutere su “Atlantide e i nuraghi”; poiché il mio contributo replica, con alcune brevi aggiunte, quello presentato a Villanovaforru alcune settimane or sono, debbo innanzitutto precisare, come feci allora, provocando magari una delusione al nostro pubblico, che non è mia intenzione parlare dei rapporti tra la Sardegna e l’Atlantide né delle numerosissime proposte di localizzazione di quest’ultima nel vasto mondo che ci ospita; non ne parlerò affatto per un motivo semplicissimo che voglio subito chiarirvi.
Il problema della localizzazione della terra di Atlantide ha trovato la sua morte definitiva, per manifesta indegnità di accesso nel campo delle riflessioni di storia e di archeologia, nel lontano 1841 attraverso le parole, chiarissime, di Thomas-Henry Martin contenute nella sua Dissertazione sull’Atlantide, parole che oggi voglio ricordarvi: “L’Atlantide non appartiene alla storia degli eventi né alla geografia positiva… essa appartiene a un altro mondo, che non è nell’ambito dello spazio, ma in quello del pensiero”. Per l’esattezza, del pensiero platonico, poiché l’Atlantide è creazione potente del filosofo greco, mito funzionale alla sua concezione filosofica e alle sua utopia politica.
Poiché l’Atlantide è anti-storia, essa non può essere richiamata, neppure attraverso una severa confutazione delle assurdità che in sua difesa sono state scritte e ancora si scrivono, in un discorso in cui si parla di storia e di archeologia; essa non vi appartiene, non vi è mai appartenuta; potrà, se mai, essere studiata e valutata, come è stato fatto ripetutamente e con risultati egregi, nell’ambito di una storia dei miti e delle idee che si sono formate sui miti nel corso dei secoli o nell’ambito delle ideologie politiche che spesso sui miti hanno trovato linfa e vigore.
Desidero invece parlarvi del mito di Atlantide come è stato immaginato da Platone, del suo significato e delle sue moltiplici valenze; desidero parlarvi di una nobile Atlantide, una delle tante e belle nobili menzogne che appartengono alla rivoluzionaria mitologia platonica.
Il concetto che Platone esprime sui miti è netto e categorico: il mito è un discorso falso. Eppure nella mitologia del filosofo, nell’uso che Platone fa di vari racconti fantastici, questo concetto del tutto negativo si attenua e il mito assume un carattere differente: pur restando sempre un discorso falso esso diventa anche un contenitore di elementi di verità. Ma questa verità non appartiene alla storia ma all’etica, alla morale; la verità del mito è allora una nobile menzogna.
La sua nobiltà morale risiede nella sua capacità di coinvolgere l’interesse e l’entusiasmo, di attrarre il coinvolgimento e la partecipazione della comunità dei cittadini verso l’insieme dei valori che costituiscono appunto la tradizione della città; attraverso quelle narrazioni di racconti, in cui come dice il filosofo: “poiché non sappiamo il vero circa gli eventi antichi, cerchiamo di approssimare il più possibile la menzogna alla verità, rendendola in questo modo utile”; e del resto, riflette Platone in un altro passo, “c’è pericolo che i nostri governanti debbano spesso ricorrere alla menzogna e all’inganno nell’interesse dei sudditi”.
Ma in che senso il racconto su Atlantide è una menzogna utile e nobile, una “menzogna di stato”? Attraverso le parole riportate da Crizia che riferisce il resoconto del suo avo Crizia il Vecchio che riporta altre parole, questa volta di Solone, che dai sacerdoti egizi ha appreso la storia antichissima della guerra che Atlantide muove ad Atene, il mito descrive l’Atene di un lontanissimo passato –sono trascorsi novemila anni dalle storie che vengono raccontate –che assomiglia moltissimo, nella sua organizzazione e nelle sue istituzioni, a quella città ideale che Platone disegna nella Repubblica. E’ l’ordinamento di questa bella città, scompartita in filosofi, guerrieri e produttori, che l’Egitto ammira ed imita ed è quest’ordinamento che consente ad Atene di trionfare contro le armate dei ricchi e superbi Atlantidi che vogliono conquistare il mondo.
La città ideale platonica è in questo modo collocata nello spazio di una nobile menzogna, di una realtà falsa, che ha, come mito fuori della storia, la sua utilità e la sua nobiltà; perché “se è accaduto nell’infinito tempo passato, o anche oggi accade in qualche regione barbarica a noi ignota per la sua lontananza, oppure se accadrà nel futuro che una qualche necessità induca chi eccelle nella filosofia a prendersi cura di una città, allora siamo pronti a sostenere che quando la Musa della filosofia domini lo stato, la costituzione da noi descritta è esistita o esiste o esisterà”. Se è esistita l’Atene primitiva, potrà esistere la città ideale di Platone.
I dialoghi Timeo e Crizia sono stati scritti intorno alla metà del IV sec.a.C.; è il periodo in cui Atene si accinge a superare, politicamente, l’esperienza del trionfante imperialismo marittimo che aveva governato i suoi orizzonti strategici all’indomani della conclusione delle guerre persiane e a ritornare quella città austera e moderata che caratterizza la città ideale di Platone, lontana dalle lusinghe e dai lussi dell’impero marittimo, ma fiera e fiduciosa dei suoi guerrieri di terra, dei suoi opliti.
Atene preistorica, essenziale e rigorosa, incarnazione fintamente storica della ideale Atene della Repubblica platonica, sconfigge un impero vasto e opulento, il regno di Atlantide, che vuole superare le colonne d’Ercole e conquistare il Mediterraneo e le sue genti e che assume i tratti di un impero barbarico, immerso nel fasto e nell’abbondanza di metalli preziosi, fiero della sua architettura ridondante, tracotante nel suo ruolo di potenza egemone del mare, imperialista quanto non mai, fiduciosa della forza della sua flotta.
Comprendiamo adesso a pieno cosa sia veramente Atlantide, descritta analiticamente da Platone con la forza dei numeri e delle quantità: essa è la corruzione dell’opulenta monarchia persiana –e molti suoi caratteri richiamano, anche nello stile erodoteo che Platone imita in modo superbo, i grandi paesaggi dell’Oriente evocati dallo storico di Alicarnasso –ma è anche l’Atene nata dalla politica di Pericle, l’Atene democratica e imperialista padrona dei mari; la contesa tra Atene e Atlantide, raccontata nel linguaggio degli storici –Erodoto e Tucidide –che il filosofo imita per imitare la storia nella sua nobile menzogna –è la guerra tra Atene e la Persia, ma è anche una guerra civile tra due Atene inconciliabili.
Platone, quindi, imita la storia, o meglio, il racconto della storia e i grandi storici greci che la storia raccontano; ma da essi prende forse anche gli spunti “storici” sui quali ricamare la sua Atlantide: che sia la regione del monte Atlante citata da Erodoto sulla terra d’Africa oltre le Colonne o quella isola Atalante, nella Locride Opunzia, che Tucidide ricorda distrutta da un maremoto.
Filosofo, abile manipolatore degli stili dei grandi storici della Grecia, Platone è anche uomo capace di ironia e di sottili rimandi che rivelano la falsità della storia di Atlantide, la collocazione mitica della sua invenzione; perché il racconto è narrato da Solone poeta che si colloca a fianco di Omero e di Esiodo, i più famosi narratori di miti: “Se Solone non avesse fatto della poesia un passatempo ma vi avesse applicato tutte le sue cure come gli altri, se avesse dato forma compiuta a quel racconto che aveva portato con sé dall’Egitto in Grecia, e se le sedizioni e il resto che trovò qui al suo ritorno non lo avessero costretto a trascurare la poesia, né Omero né Esiodo, né alcun altro poeta sarebbe mai stato, a mio parere, più celebre di lui”.
Sconfitta da Atene, l’Atlantide-Atene periclea e democratica soccombe sotto la furia di Poseidone; ma il suo futuro è straordinario e non dipende dal suo inventore, Platone: immagine del male e dell’assoluto negativo per il filosofo greco, essa diventerà utopia positiva, paese meraviglioso, paradiso terrestre, l’isola Bensalem della Nuova Atlantide governata dagli scienziati di Francesco Bacone, su cui ironizzerà Jonathan Swift con la sua Laputa, straordinaria isola volante, città sospesa nel cielo, governata dai saggi occupati in ricerche di altissimo rilievo, come ottenere luce dai cocomeri.
E si svilupperà nei tempi e fino ad oggi quella sindrome di Atlantide di cui ho deciso di non parlare, e che scorre dietro di me in immagini di pura fantasia, contenute ai due estremi dal richiamo di Goya al sonno della ragione che genera mostri e dalla nave dei folli di Bosch; quella paranoica ricerca di un luogo reale e realmente esistito, quell’isola che non c’è che ha fatto e fa innumerevoli vittime, nobili e meno nobili.
Lo sviluppo storico del mito atlantideo, come dicevo all’inizio, appartiene alla storia delle idee, delle utopie politiche, dei movimenti degli Stati, degli obiettivi nazionalistici e indipendentisti; ne parla egregiamente il grande Pierre Vidal-Naquet nel suo denso libro del 2005, riportando un’amplissima e seria bibliografia attraverso la quale, chi ne fosse interessato, potrà trovare ampi spazi di approfondimento e di riflessione.
Di questo itinerario voglio soltanto ricordare quello a noi più tragicamente prossimo, legato al sorgere in Germania del nazismo e della follia hitleriana, quando l’Atlantide è ingoiata in quel mostruoso calderone di occultismo, storia antidiluviana, concezioni del cosmo, saggezza magica e arianesimo che doveva produrre, nella mente distorta dei suoi seguaci, una nuova età e una nuova razza, trionfatrice sui gretti detriti e impacci culturali giudeo-cristiani. Dalle derive razziste della Thule Gesellschaft, associazione occultista e teosofica ariana che Hitler e Himmler trasformeranno in partito politico di massa, alle concezioni allucinanti della terra cava, dell’eterna lotta tra il ghiaccio e il fuoco, Atlantide e la terra di Thule si incontrano ripetutamente; la favola platonica diventerà quella mitica isola del Settentrione, sede di una civiltà perfetta e superumana, l’inevitabile precipizio in cui sprofonda periodicamente l’ideologia della destra radicale.
La pura razza degli Atlantidi, corrotta dal contatto con razze inferiori, subisce la catastrofe; pochi sopravvissuti di quel popolo daranno origine alla superiore razza “ariana”, cui spetta il compito di rinnovare i fasti atlantidei; cosa abbia portato all’Europa questa insana missione è noto a tutti e certamente amplifica di mille e mille volte l’immagine di Atlantide pensata da Platone, quella di un impero del male.
In un recente e bel lavoro titolato “Sardegna ariana” l’amico Alfonso Stiglitz ha ripercorso, con serietà e ironia, le vicende del pensiero razzista di stampo fascista che, tra il 1938 e il 1943, ha tentato di inquinare la storia e l’archeologia della Sardegna; fortunatamente, si deve concludere con l’autore, con scarsi risultati e poco spessore. Eppure, vengono da quelle esperienze alcuni spunti che, proprio perché non elaborati criticamente, ritornano in modo significativo, e direi preoccupante, nei discorsi attuali che da più parti si fanno, anche da parte di chi sicuramente non professa nessun razzismo e nessun fascismo, intorno all’identità sarda e che rimettono in causa la civiltà nuragica, Atlantide e i Sherden (che per tutti, in modo lessicalmente scorretto, sono diventati i Shardana): in questi tre termini, percepiti e letti in modo del tutto antistorico, si colgono infatti elementi fondativi di presunti valori identitari e insieme caratteri di conoscenza superiore, di superiorità intellettuale e tecnica, di supremazia morale ed etnica.
In questo panorama rientrano anche i numerosi proclami e esternazioni sulla scrittura degli antichi sardi; non voglio qui tornare su un argomento, per il quale, e dopo un mio ironico richiamo a protoscritture di invenzione, dal protougaritico al protochissachè, peraltro altrettanto di fantasia della scrittura che si pretende ora rivelata, vengo ripetutamente e metodicamente insultato in vari blog presenti sulla rete; la prossimità alla Pasqua, appena trascorsa, mi spinge ad auspicare per i miei acerrimi avversari la benedizione divina e che soprattutto il Signore restituisca loro il senno.
Ma voglio tornare in conclusione all’Atlantide di Platone e al filosofo che l’ha concepita per farmi e per fare a tutti voi un augurio che è anche una speranza. Platone ha fatto un sogno e l’ha scolpito per sempre nella sua filosofia; non facciamo di questo sogno un incubo ricorrente nutrito di razzismo, ignoranza e inciviltà.
Immagine di: expianetadidio.blogspot.com

domenica 29 aprile 2012

Sardegna: Tharros, città eterna.


Città fenicio-puniche
di Carla Del Vais


Questo articolo è frutto di appunti annotati nel corso di un'escursione a Tharros con la Prof.ssa Carla Del Vais. Si tratta di una mia elaborazione, eseguita trascrivendo le frasi dell'autrice. Mi scuso per eventuali errori, imputabili esclusivamente a mia imperizia nel riportare gli appunti.


La storia fenicia di questa città si svolge a partire dal IX a.C. circa, quando controllava il golfo di Oristano, insieme ad altre due città: Othoca, che si trova in corrispondenza del paese di Santa Giusta, e Neapolis, in territorio di Guspini. L’abbandono dell’area in età medievale ha favorito la conservazione del sito. La presenza di due necropoli che da molto tempo restituiva materiali preziosi ha attirato, dal Cinquecento in poi, cercatori di tesori che hanno saccheggiato le tombe. Le necropoli si trovano nel villaggio di San Giovanni di Sinis e a Capo San Marco. La prima è parzialmente coperta e rovinata da un villaggio per le vacanze impiantato negli anni Cinquanta. L’abitato punico si trova al centro, presso il colle sulla cui sommità si trova la collina di San Giovanni. Il villaggio era protetto dal maestrale, un forte vento che arriva da nord-ovest e investe il versante orientale del colle. La frequentazione di quest’area precede la fondazione della colonia da parte dei fenici. Con gli scavi condotti nel tophet, a partire dagli anni Ottanta, sono stati rinvenuti frammenti di tradizione cipriota e micenea che suggeriscono una frequentazione dell’area già alla fine del II Millennio a.C. L’insediamento era presente in età nuragica, e ciò costituisce un’ulteriore prova dell’interesse da parte dei nuragici per il mare. Abbiamo, infatti, un villaggio nuragico importante proprio nell’area in cui poi sorgerà il tophet, ma altri nuraghe si trovano su Capo San Marco e, probabilmente, sotto la torre di San Giovanni. Non conosciamo il rapporto fra i primi arrivati dall’Oriente e i nuragici. I materiali trovati sono fuori contesto e le prime certezze, quelle che riconducono ad una fondazione della città di Tharros, sono cronologicamente attestate all’ VIII a.C. I Fenici, che arrivarono prevalentemente dalla città di Tiro, non hanno lasciato tracce documentarie. Ad esempio nel tophet, che si sovrappone allo strato nuragico, non ci sono materiali riferibili alla fase di arrivo dei fenici, e il villaggio nuragico sembra essere stato abbandonato prima. La prima impressione è che nel momento in cui i fenici arrivano nel sito, i nuragici sono presenti solo nell’entroterra. Un segno importante è quello recente di Monte Prama, dove è presente una importante necropoli nuragica databile sempre intorno all’ VIII a.C. Questa necropoli ha restituito un manufatto di produzione orientale che si trovava dentro una delle tombe nuragiche, a dimostrazione di un contatto fra le due popolazioni in quel periodo.
Alcune necropoli sarde sono state indagate a fondo dagli archeologi, come quelle di Sulci-Sant’Antioco e Cagliari-Tuvixeddu. Possiamo affermare che la disciplina archeologica sarda, in particolare quella fenicio-punica, è nata proprio con gli scavi in questi siti e a Nora. Già il canonico Spano sulla base dei materiali recuperati, soprattutto nella necropoli meridionale, iniziò a parlare di colonie egiziane proprio basandosi sull’aspetto egittizzante dei manufatti. Si pensava che a Tharros, e in altre zone della Sardegna, ci fossero queste colonie, ma oggi sappiamo che gli artefici di quegli insediamenti furono i fenici, e che i materiali venivano importati o realizzati su imitazione di quelli orientali. A Tharros hanno lavorato vari personaggi importanti per l’archeologia e, oltre lo Spano, ricordiamo il generale Alberto Ferrero Della Marmora che in quel periodo controllava le torri costiere dell’isola, e soggiornò varie volte nella torre di San Giovanni. I soldati, visti gli scarsi compiti che dovevano svolgere, avevano tempo a disposizione per dedicarsi all’asportazione di ciò che trovavano nel sito. Carlo Alberto, nel 1842, venne col padre in Sardegna in pompa magna per una visita e, fra le attività che svolse, ci fu quella di scavare alcune tombe di Tharros. Nel 1850 il canonico Giovanni Spano scavò 5 tombe per una settimana e ci ha lasciato una descrizione puntuale, con disegni e schemi. Nelle foto scattate durante gli scavi si possono vedere le tombe aperte, proprio come si presentavano al momento dell’apertura. Nel 1851 avvenne uno dei fatti più gravi per la storia di Tharros: dopo l’intervento di un inglese, Lord Vernon, che fece scavi fruttuosi portando via 14 carri di materiali dei quali abbiamo perso le tracce nella zona di Firenze, si scatenò una sorta di caccia all’oro della durata di tre settimane, con oltre 100 persone del luogo che sconvolsero la necropoli. I materiali sono stati dispersi in molte collezioni private, e solo una piccola parte è stata acquisita dai musei di Cagliari e Sassari. Altri materiali sono finiti nei musei italiani e del resto del mondo. Un altro danno venne fatto da Gaetano Cara, allora direttore del museo di Cagliari, che fece scavi regolari pagati dal ministero, ma probabilmente vendette tutto ciò che trovò sotto falso nome. Erano 1700 pezzi e ancora oggi vengono battuti nelle aste a Parigi e Londra, o fanno parte di importanti collezioni. Dopo queste date, la necropoli è stata ulteriormente depredata e sappiamo che nel 1864, Filippo Nissardi, un ispettore di zona della soprintendenza di Cagliari, condusse delle ricerche nell’area e fece un primo rilievo in scala 1:500 della zona per stabilire i limiti della necropoli. Alla conclusione delle campagne di scavo, nel 1885, affermò che la necropoli era definitivamente distrutta, in modo irreversibile. Alla fine di quel secolo la situazione della necropoli era irrimediabilmente degradata. L’attività clandestina, invece, continua ancora oggi. La distruzione dei contesti delle tombe ha, tuttavia, consentito a diversi musei di acquisire molti pezzi che sono alla base degli studi. Ad esempio gli scarabei e i gioielli sono importanti per capire le vicende dell’epoca. La necropoli meridionale, in base agli studi fatti a partire dal 2001 dalle Università di Cagliari e Bologna, ha documentato qualche traccia dell’aspetto originale. In età fenicia, ossia a partire dal VII a.C., nel periodo in cui prevale l’incinerazione, le tombe erano delle semplici fosse scavate nella roccia. È stato recuperato qualche pezzo, come ad esempio un piatto. Nel 2002 è stata individuata una tomba ancora integra che ha contribuito a farci capire come era fatta la necropoli arcaica. Le tombe erano coperte con lastre in pietra ben cementate, e al di sotto c’erano i resti incinerati in deposizione secondaria del defunto con i materiali di corredo ceramico, costituito da brocche e da materiali che ricorrono spesso nelle tombe e sono utilizzati per i rituali funerari, ossia la preparazione del cadavere e la successiva incinerazione. In età successiva, quando arrivano i cartaginesi, la necropoli cambia. Nella prima fase i fenici arrivano in Sardegna fondando Cagliari, Nora, Bithia, Sulci, Monte Sirai, Tharros, Othoca, Neapolis e Olbia. Tuttavia sono entità autonome, non collegate fra loro e sfruttano l’immediato entroterra che serve per la loro sussistenza. Hanno una minima penetrazione verso l’interno, ma a partire dal VII a.C. Cartagine, una delle città fondate dai fenici, riesce a imporre la propria influenza culturale, economica e politica alle città della Sardegna, della Sicilia e di altri lembi di territorio costiero nel Mediterraneo. Si ha un passaggio culturale e rituale importante, e si va formando una politica unitaria, a carattere imperiale. La storia della Sardegna cambia, ma ci sono ancora forti legami con l’oriente.
Il primo cambiamento rilevante si nota nel rituale funerario: si passa dall’incinerazione all’inumazione, e si cambia da semplici tombe a fossa scavate nella roccia di forma ellittica, a fosse ben squadrate di forma parallelepipeda, per finire con le grandi tombe a camera. Le tombe sono coperte da grandi lastre cementate con argilla, e presentano delle riseghe sui lati per favorire la copertura. Le tombe a camera hanno un vano di accesso fornito di scale (dromos) che introduce alla camera per la deposizione. Quando le tombe furono tante, si presentò il problema dei vani d’accesso e delle scale perché spesso le camere si incrociavano e bisognava realizzare modifiche, ad esempio realizzare scale più strette.



Le camere tombali sono molto semplici, costituite da un vano rettangolare posto più in basso del livello del dromos, e a volte c’è un gradino nell’ingresso per favorire la discesa. In qualche caso sono documentati i segni lasciati dai piedi delle bare. A Tharros, recentemente, è stata confermata la presenza di pittura funeraria, simile a quella di Tuvixeddu. Anche a Sant’Antioco e Monte Luna di Senorbì abbiamo trovato tracce di pittura. Essendo applicata direttamente sulla roccia, è difficile trovarne tracce perché è delicata e con il tempo scompare. Dal punto di vista culturale, queste tracce mostrano chiaramente una presenza e una influenza africana dirette.
La necropoli settentrionale, indagata nuovamente dal 2009, si trova distante da quella meridionale, in un’area oggi occupata dall’abitato, ma negli anni Cinquanta era libera. Sono visibili solo alcuni lembi della necropoli e i nuovi scavi hanno documentato ciò che rimane. Dal punto di vista tipologico e cronologico è perfettamente uguale a quella meridionale. Le tombe mostrano, oltre al bancone in roccia scavato, anche un bancone in sabbia che suggerisce una arcaicità maggiore. Il corredo funerario si trova sia sopra che dentro la tomba. Sono stati trovati anche reperti come collane in pasta vitrea e gioielli in metallo prezioso. Lungo la costa ci sono altre tracce e si è scoperto che i tombaroli, per risparmiare lavoro, sono arrivati, in varie tombe, a sfondare direttamente il muro di separazione fra una camera e l’altra, risparmiando il vano d’accesso che, quindi, rimane integro.
A Tharros troviamo numerosi segnacoli funerari, e il sito è classificato come quello che ne ha restituito in numero maggiore, a parte Cartagine. Dovevano essere presenti in tutte le necropoli, ma si sono conservati raramente. Erano posizionati sui coperchi delle tombe, oppure utilizzati direttamente per chiudere le tombe a fossa.
Amuleti, orecchini e bracciali in oro, sigilli e scarabei in pietra dura sono fra i manufatti più importanti. A volte gli scarabei avevano la montatura in oro e raffiguravano simboli religiosi egizi come, ad esempio, il sole. Sul ventre, ossia sul retro, erano riportati i simboli per sigillare i documenti. In Mesopotamia, e altri luoghi nei quali si trovavano regni importanti, i documenti erano sigillati con le cretule, cioè palline di argilla sulle quali veniva impresso il simbolo. Nel mondo punico i documenti utilizzavano un supporto in papiro che poi veniva arrotolato, chiuso con una piccola corda chiusa con una bulla, ossia la pallina di argilla, e su questa veniva impresso il sigillo. Gli scarabei sono tutti differenti e ognuno di essi doveva essere la firma di una persona diversa. Per aprire il documento bisognava spaccare la cretula e il proprietario si sarebbe accorto della violazione del documento. Forse qualche scarabeo era utilizzato come amuleto, ma la quasi totalità era utilizzata per scopi pratici.
I gioielli erano realizzati su una lamina che veniva decorata con la tecnica della filigrana, ossia con minuscoli granelli d’oro saldati sulla superficie a realizzare dei disegni. Serpenti egizi, occhi di Orus e altre iconografie, ci rimandano all’ambito culturale orientale, ma non investono tanto la religiosità, sono probabilmente degli amuleti che dovevano proteggere le persone (bambini, puerpere, madri…) da pericoli specifici e venivano portati nella cintura o nelle vesti. Al museo di Cagliari si trova un bracciale con uno scarabeo quadri-alato, con testa di falco e, ai lati, dei motivi vegetali. Ogni oggetto aveva un valore magico specifico.
La città punica di Tharros non ha lasciato molte tracce perché si trova sotto la città romana. Ha vissuto dall’VIII a.C. fino ad età bizantina. L’abbandono è stato progressivo, ed è sancito definitivamente nel 1071 d.C. dallo spostamento della capitale giudicale e della sede episcopale ad Oristano. Ancora oggi si può notare che a livello del piano di calpestio ci sono rocce affioranti, pertanto sotto non può esserci alcuna struttura. Un elemento di rilievo sono le fortificazioni puniche presso la collina di San Giovanni.

Circondavano completamente la città, passavano sotto la torre di San Giovanni, dove ci sono dei blocchi che si riferiscono ad una struttura preesistente. Dalla torre, le mura scendevano giù con un percorso a cremagliera (a zig zag), e arrivavano a chiudere la città sul lato orientale. La torre, messa in opera utilizzando delle grappe in legno duro a coda di rondine, non si è ancora capito con certezza a quale periodo si riferisca. Al termine degli scavi nella necropoli, si avvierà una campagna proprio nella torre per accertarne la cronologia.
Le fortificazioni sono state scavate da Barreca e dal CNR negli anni Ottanta. Sono costituite da mura nelle quali si notano due fasi di edificazione: punica e romana. Le prime sono databili al V a.C. e hanno subìto una sistemazione in età repubblicana con la costruzione di un muro che determina un fossato, e un paramento murario che si addossa al precedente ed è fornito di porte. In età romana imperiale ci fu un parziale riutilizzo come necropoli perché non c’era bisogno di difendersi e l’area venne dismessa. L’abitato fenicio non è stato mai trovato, forse le due necropoli sono segno di due nuclei abitativi separati, ma l’ipotesi più probabile è che l’abitato si trovasse al centro, sotto quello punico. L’abitato attualmente visibile è di età romana, ma si impiantava su strutture puniche già esistenti. Le tecniche costruttive sono puniche, a suggerire che i romani preferirono mantenere quelle tipologie perché erano architettonicamente affidabili.
Nel 1956 Gennaro Pesce intraprese uno scavo nell’abitato di Tharros. Tutta l’area era coltivata e sfruttata anche dai pastori, ma in pochi anni venne portata alla luce tutta la città. Le cisterne sono puniche e l’approvvigionamento idrico avveniva quasi esclusivamente con l’acqua piovana. Con la pioggia si riempivano le cisterne che garantivano il fabbisogno della comunità. Sono i romani ad introdurre gli acquedotti e lo smaltimento delle acque tramite fogne. Le cisterne a bagnarola, ossia di forma allungata con i lati curvilinei, erano coperte da lastre a doppio spiovente, o semplicemente appoggiate. Nel 1993 è stata scavata una cisterna vicina al tophet, con un tipo di intonaco che corrispondeva alla tecnica più arcaica, al cui interno c’erano materiali bizantini. C’è continuità di utilizzo perché, evidentemente, erano valide e adeguate allo scopo.
Del mondo punico sono rimasti anche i templi, il più importante dei quali è il cosiddetto delle semicolonne doriche. Fortunatamente è conservato nel basamento perché in età augustea è stato distrutto ed è stata fatta una gettata di terra sopra di esso per realizzare una grande piazza. Questo tempio non è costruito, ma risparmiato nella roccia dopo essere stato scavato tutto attorno. Su tre lati del basamento i punici hanno scolpito delle semicolonne di influenza ellenistica. Sopra il basamento doveva esserci una struttura, ma abbiamo perso tutto e non sappiamo ricostruirla, pur se nell’area ci sono tanti elementi architettonici smontati dal tempio e riutilizzati in strutture romane. Nella parte superiore delle colonne dovevano esserci dei capitelli di tipo eolico-cipriota sugli spigoli, mentre sui lati i capitelli erano di tipo dorico. C’erano anche dei leoni, simili a quelli di Sulci, con la coda che si attorciglia sulla coscia dell’animale. Pesce propone che sopra il basamento vi fosse un tempietto a edicola, mentre per Acquaro c’era un altare. In un’altra area ci sono i resti di un tempietto, denominato K, inserito su una struttura romana, che conserva elementi di tradizione egiziana e punici. Nel sito si nota la differenza dei materiali utilizzati dai romani (laterizio) e dai punici (pietra tenera come l’arenaria). I punici non conoscevano il mattone cotto e utilizzavano quello crudo, che purtroppo non si conserva. Barreca nel 1956 individuò un altro tempio che si trova nell’area di Capo San Marco, ben distinta dall’abitato. Si tratta di un edificio costituito da due vani affiancati. In uno troviamo un bancone , mentre l’altro è delimitato da pilastri. Nella parete di fondo c’è un altare su cui era posto un betilo. Oggi si ritiene che questo tempio sia recente, di età ellenistica a cavallo fra IV e III a.C. ed essendo visibile dal mare, pur se posto molto in alto e non si può accedere al tratto costiero, era forse legato ai naviganti o alle divinità marine.



Il santuario più importante della città è il tophet. Nell’area centrale del Mediterraneo (Cartagine, Sardegna e Sicilia) è considerato il santuario tipico del mondo culturale fenicio punico. Si ritiene che sia un’invenzione cartaginese che poi si è diffusa nella sua area di diretta influenza già prima che la città prendesse possesso delle colonie. Quello di Tharros è l’unico posizionato sopra un villaggio nuragico. È stato individuato nel 1963 ma scavato solo dagli anni Settanta. Il basamento, con gli sgabelli litici e gli altari, è ben visibile nell’area.
Il porto di Tharros, invece, non è stato ancora individuato. Si pensava fosse all’esterno, localizzato nel mare morto, perché il mare vivo è sottoposto a forti maestralate, e nessun marinaio si sarebbe azzardato ad approdare in un luogo così problematico e pericoloso. È certamente da localizzarsi all’interno del Golfo di Oristano, forse nella zona di Capo San Marco, o poco più a nord dove ancora oggi c’è il porticciolo dei pescatori. L’ultima ipotesi è che si trovi nel bacino interno, denominato mistral, a ridosso della città. L’area, dal punto di vista morfologico, è cambiata parecchio nei secoli, e gli studiosi stanno cercando di ricostruire l’antica linea di riva. Il mare, dall’epoca della fondazione di Tharros da parte dei fenici, ha subito un innalzamento di circa 150 cm e, per proporre delle ipotesi verosimili, non ci si può basare sulla situazione attuale. Bisogna anche tener conto dell’apporto fluviale dei detriti che hanno mantenuto, comunque il fondo sempre a una profondità costante. La linea di riva doveva essere notevolmente più avanzata rispetto ad oggi. La Regione Sardegna ha finanziato recentemente un progetto per delle ricerche geomorfologiche, già iniziate nel 2003. Le indagini sono state fatte dalla D.ssa Melis, dell’Università di Cagliari, in collaborazione con una equipe di studiosi dell’Univerità di Sassari. Il carotaggio ha mostrato che l’area di Mistral fino ad una profondità di 12 metri presenta contesti che alternativamente hanno indizi lagunari e segni di insenatura marina protetta. Il rilevamento del carotaggio mostra, infatti, strati alternati di sabbia fine, argilla, posidonia, conchiglie, sabbia fine con resti di faune salmastre, altra sabbia, altre conchiglie, ancora resti vegetali di fauna salmastra, e così via a strati alternati fino a 12 metri di profondità. Quando si alzava il livello del mare, si alzava conseguentemente anche quello del fondo dello stagno. Lo spazio conquistato e poi perso dal mare è stato preso volta per volta dall’apporto fluviale. Quando il mare si è alzato, la linea di costa ha subito altri fenomeni e si è delineata autonomamente.

Fino a quando si costruirono la diga del Tirso, e le moderne canalizzazioni, era sufficiente una forte pioggia per scatenare un allagamento di vaste proporzioni in tutta la zona. Per questo motivo le valutazioni della morfologia antica sono particolarmente difficili. Il problema del carotaggio è ricostruire la cronologia: si procede con il metodo C14 e altri metodi scientifici. La carota mostra il livello nuragico, il punico, quello fenicio, il romano e quelli più recenti. Con il carotaggio si hanno forti indizi utili per ricostruire la storia del sito. Nel 2009 c’è stato uno scavo subacqueo, pur considerando che il fondo misura circa mezzo metro. Con una pompa sono stati aspirati i detriti, è stato fatto un rilievo delle strutture sommerse, è stato grigliato tutto il materiale e si è documentato graficamente un muro costruito con grandi blocchi, lungo 200 metri e spesso 4 che, probabilmente, non è riferibile al porto di Tharros. Probabilmente si tratta di una struttura medievale.
L’area occupata in parte dalla laguna di Mistral e in parte da sedimenti recenti, è chiusa da una striscia di sabbia aperta solo in prossimità della peschiera. Fino agli anni Trenta la laguna era in collegamento con lo stagno di Cabras. Dalle foto aeree è stato individuato un muro che attraversa l’acqua e si è cercato di capire se potesse essere collegato al porto di Tharros. L’Università di Sassari avrebbe individuato nella zona il porto fenicio, ma è un’ipotesi da confermare e bisogna essere molto prudenti. L’area lagunare è visitabile parzialmente solo in estate, perché nella stagione invernale il terreno cede ed è pericoloso avventurarsi in auto nelle sabbie circostanti. Effettivamente la zona si presterebbe per accogliere un porto, ma al momento non è stata individuata alcuna struttura. In un’altra zona, poco distante, affiora un basamento, e gli archeologi contano di fare un’indagine di scavo per studiarla, ma al momento non possiamo sapere di cosa si tratta. Il muro lungo 200 metri che collega la linea di sabbia all’isolotto (sul quale nidificano alcune specie protette e pertanto non si potrà scavare), presenta caratteristiche interessanti ed è stato oggetto di due piccole campagne di scavo, sul lato esterno e sul lato interno. Con sistemi non invasivi si è letta la stratigrafia delle strutture sotto il livello del fango, tenuto conto che si tratta di una zona privata e, comunque, un’area protetta. I materiali sono stati accuratamente grigliati e i residui sono stati scaricati in un’area ben precisa per evitare l’intorbidimento dell’acqua. I metodi utilizzati hanno richiesto una notevole delicatezza operativa per rispettare l’ambiente circostante. I carotaggi hanno documentato un muro in grandi blocchi non rifiniti, costituito da due paramenti, con all’interno pietrame e terra pressata, che presentava delle strutture in legno sul lato esterno, quello verso il mare. Erano dei pali posti a distanza regolare. Il muro alto 80/90 centimetri, che in una fase cronologica ha chiuso Mistral, poggia su uno strato di sabbia marina (lo ha rivelato la granulometria), e questa struttura, che è più moderna dello strato punico, ha determinato un cambiamento della situazione ambientale. All’interno abbiamo residui lagunari, all’esterno doveva esserci una linea frangiflutti. Sotto lo strato marino all’esterno del muro, ci sono gli strati punici, ossia un’area di pertinenza del porto punico di Tharros, che devono ancora essere trovati e indagati. La Regione Sardegna ha finanziato uno studio con carotaggi ed ecosonar, così da capire la geomorfologia della zona.

sabato 28 aprile 2012

Storia di Olbia. 3° e ultima parte



Storia di Olbia
di Durdica Bacciu. ultima parte



CAPITOLO V
L’antico porto di Olbia

Le prime notizie su un approdo nella Costa Nord della Sardegna ci vengono fornite da Tolomeo che riferisce di uno scalo marittimo nel Golfo di Cugnana, probabilmente nel litorale di Golfo Aranci, e in ambito romano da Plinio il Vecchio che riferisce di due isole nel quadrante delle coste sarde, Callodes e Heras Lutra, quest’ultima identificata con l’isola di Soffi o Mortorio, situate presso il Golfo di Cugnana.




Queste isole sono sempre state considerate importanti sino dall’antichità perché costituivano il canale d’accesso al sito di Olbia, località ritenuta chiave d’ingresso alla Sardegna dall’età arcaica sino ai giorni nostri. Il Panedda invece non condivide i dati sopra detti precisando anzitutto che un porto deve avere un immediato retroterra e un centro abitato che possa sostenerlo in funzione, e che abbia tutte le strutture per ricevere e consegnare le merci, strutture che sino ad oggi non sono state rilevate, pur se nella costa di Golfo Aranci sono stati rinvenuti diversi materiali di epoca romana, ma nessuna struttura portuale o stradale che potesse collegare il sito di Golfo Aranci con la città di Olbia.
Concludendo il Panedda afferma: “la differenza di gradi constatata in Tolomeo si può spiegare con l’analoga toponomastica odierna…anche oggi la grande insenatura che si apre tra capo Figari e Punta del timone, viene chiamata Golfo di Olbia, comprendendovi anche Golfo Aranci…”.
Di conseguenza, il Panedda, secondo la tradizione tramandata nel toponimo, indica come porto della città romana, l’insenatura dell’ex Idroscalo, baia alla quale tutt’oggi è rimasto il nome di Porto romano, denominazione che porta ancora il quartiere prospiciente. Ma secondo il Panedda non è impensabile che nel periodo punico essa fosse adattata a porto interno dove le navi arrivavano per essere ancorate o semplicemente tirate a secco. Mai però in questa baia furono segnalati resti di banchinaggio sul lato sud dal Tamponi, mentre furono descritte strutture nel tratto poco dopo il bivio della ferrovia Olbia – Golfo Aranci per una lunghezza totale di m 160, realizzate con blocchi quadrangolari di granito. A m 134 dall’inizio della struttura sono stati individuati due moli, uno dei quali arretrato e proporzionalmente più piccolo dell’altro, strutture che vengono indicate dal Panedda come “ …quello che doveva essere, date le proporzioni, il molo principale di tutto il porto”.
Questa interpretazione è stata ormai abbandonata dopo gli studi effettuati dal D’Oriano, che riconosce in questi ruderi i resti di torri e di una apertura, verso il Nord Sardegna, della cinta muraria settentrionale.
La precisa ubicazione del porto di Olbia si è avuta in seguito agli scavi archeologici del lungo mare di via Principe Umberto e via Genova, effettuati in tre fasi successive: nel 1999, nel 2000 e 2001 sempre sotto la direzione di D’Oriano.




Si è potuto chiarire che il porto si estendeva nello specchio di mare antistante il settore centro orientale del centro urbano ad una distanza di circa m 90 dalla cinta muraria orientale e antistante l’inizio di Corso Umberto che dovrebbe coincidere con il decumanus maximus dell’Olbia romana e indicando in quest’area il principale approdo della città antica, non a caso davanti al decumanus maximus. L’area scavata non conserva alcun tipo di stratigrafia archeologica essendo costituita da un fondale di fango plastico interessato da periodici rimescolii dovuti alle dinamiche di tipo continentale e marino, con rimescolamenti di materiale di cronologie e origine diversa: oggetti gettati in acqua perché deteriorati durante il viaggio, perduti durante il carico o scarico della merce, rifiuti urbani giunti in mare per effetto di piogge torrenziali o simili. Il rinvenimento di una statuina in terracotta stile ionico del VI a.C. come anche il ritrovamento di un frammento di collo di brocchetta fenicia del VIII-VII a.C. testimoniano la frequentazione arcaica dell’area, ma il maggior numero di reperti ritrovati è attestata al IV-III a.C. in seguito alla fondazione punica della città; fino al periodo immediatamente precedente l‟età imperiale sono in funzione entrambi i settori, nord e sud, frontali al porto, ma probabilmente il porto meridionale aveva maggior affluenza in base alla quantità di materiale ritrovatovi. Per facilitare gli scavi e gli studi l’area antica portuale è stata suddivisa in due settori (sud-ovest e nord-est), suddivisione che appariva già in antichità attraverso una lingua di terra (dove nella prima età imperiale vi era ubicato un cantiere navale) che separava in due il tratto portuale urbano.






Durante il I d.C. risulta essere ancora preferito il settore meridionale dell’area portuale, abbandonato dopo l’età neroniana- vespasianea insieme al cantiere navale presente sulla lingua di terra suddetta. L’abbandono può essere stato causato da una catastrofe naturale, poiché è stato rinvenuto uno strato spesso di fango non distinguibile dal resto dell’interro, ma contenente grosse quantità di materiale appartenente al periodo suddetto compresi i relitti di due navi. Tali relitti, uno rinvenuto nel settore sud e l’altro presso il cantiere navale, possono essere datati per tecnica costruttiva e contesto ceramico all’età neroniana – vespasianea. Il primo costituito da pochi elementi degradati e sconnessi di una piccola imbarcazione, forse utilizzata per la navigazione nel golfo interno di Olbia; il secondo di dimensioni di gran lunga maggiori presenta similitudini con il relitto Laurons 2 ( GASSEND et alii 1984) rinvenuto presso il golfo di Alghero. Allo stesso contesto storico sono attribuibili due parti di alberi di nave ( m. 7,8 x cm. 42 – m. 7,3 x cm. 34 ) e cinque aste da timone di cui tre in buono stato di conservazione. Dal II d.C., in seguito all’abbandono del settore meridionale, l’attività portuale si concentra nel settore settentrionale dell’area delimitata a nord-est da
una diga artificiale, (probabilmente opera dell’epoca), che univa la terraferma all’isola Peddona.
Nel V d.C. si verifica l’affondamento di 10 navi mercantili di m 15-30, avvenuto, secondo gli studi del D’Oriano, sicuramente mentre erano ormeggiate in porto, in quanto i relitti risultavano paralleli tra di loro e perpendicolari alla linea di costa. Esse presentano tecniche costruttive innovative con il ricorso all’unione della tecnica a scafo portante e di quella a scheletro portante, cosi che pur rimanendo tutto lo scafo portante, lo scheletro diventa più coeso in modo da aumentare la robustezza della costruzione. L’affondamento quasi certamente non era dovuto a catastrofe naturale, ma provocato dall’uomo; il porto di Olbia era uno dei più sicuri e riparati del Mediterraneo e comunque, se si fosse verificato un disastroso evento naturale, la posizione dei relitti non sarebbe stata cosi ordinata, mentre la presenza di innumerevoli tratti anneriti tra i reperti, può testimoniare un incendio provocato dall’uomo. Tracce di incendio sono state individuate infatti su alcuni legni vicino alla linea di galleggiamento, sui frammenti di una statua bronzea facente parte del carico e tra il fasciame e le ordinate di diversi relitti.
La cronologia dell’affondamento è stata stabilita in base al materiale ritrovato nel contesto: sigillata africana D forma Hayes 61, 67, lucerne forme Atlante VIII, sigillata grigia forma Rigoir 3, anfore Keay XXV, B-D-E etc, tutte forme già attestate nel IV d.C., ma la datazione viene stabilita nel V d.C. grazie a due termini post quos (come sostenuto dal D’Oriano): il primo è rappresentato da monete rinvenute nel relitto tra il fasciame e le ordinate, quindi sicuramente appartenenti al carico della nave affondata ( per esempio una moneta coniata nel 396 di Teodosio I, certamente circolante nel V d.C. ); il secondo è rappresentato da un passo di Claudio Claudiano ( De Bello Gildonico, XV, 518-9 ), nel quale si testimonia che una parte della flotta da guerra imperiale viene accolta da “Olbia col suo muro lungo il mare”. Pertanto se nel 397, parte della flotta imperiale si trovava nel porto di Olbia, l’affondamento di cui si parla non poteva essere ancora avvenuto, in quanto i relitti avrebbero impedito l‟accesso al porto a navi di medie e grandi dimensioni. In base ai dati sopra elencati, il D’Oriano stabilisce la cronologia dell’affondamento e ne individua la causa antropica, inquadrandola nelle scorrerie dei Vandali, che sotto la guida di Genserico, attaccano la Corsica, la Toscana, la Sardegna, la Campania, e Roma stessa nel 455. Tali attacchi sono dovuti ad una strategia mirata a “una conquista dei granai di Roma, e tagliare i rifornimenti all’ impero romano”. Sempre secondo le considerazioni del D’Oriano, è difficile stabilire chi veramente abbia affondato le navi, se siano stati proprio i Vandali o i difensori per non farle cadere in mano nemica, oppure la loro colata a picco può essere stata causata accidentalmente durante uno scontro armato, nel corso del quale non è totalmente controllabile da parte alcuna quanto accade. Inoltre, se l’attacco è avvenuto dal mare, come mai le navi non si sono allontanate per la stessa via? Causa più probabile la particolare configurazione del golfo o addirittura l’arrivo dei nemici per via terra, dopo essere sbarcati in altri scali vicini, come il Golfo di Cugnana, Porto S. Paolo e così via, ma potrebbero farsi anche tante altre ipotesi. Lo studioso conclude con l’affermazione che un dato certo circa l’affondamento delle navi di cui sopra è rappresentato dal fatto che esso avviene in un momento non più florido della città di Olbia dal punto di vista economico, sociale e amministrativo, tanto che essa non è in grado di rimettere in efficienza il porto con la rimozione dei relitti e quindi di riportare l’unico specchio d’acqua della città alla sua piena attività, da cui per secoli l’intera area urbana ha tratto vita e ricchezza.

Materiale ritrovato durante lo scavo
La classe ceramica più frequente e significativa è rappresentata dalla sigillata africana D, con frammenti di medie e grandi dimensioni, sono stati individuati 5 diversi tipi di impasto, differenti per cottura, colore, inclusi, vernice, brillantezza e spessore. I dati che emergono dallo studio della ceramica confermano la cronologia dell’affondamento dei relitti durante il V d.C., precisamente tra il 420 e il 450. La presenza di questo tipo di ceramica evidenziano una continuità nei rapporti con l‟Africa, che però vengono a mancare nei decenni seguenti, come può testimoniare la scomparsa della sigillata africana C e le ceramiche africane da cucina e, intorno al VI d.C., la scomparsa definitiva della sigillata D. Oltre a questi tipi di ceramica, sono stati recuperati migliaia di oggetti attinenti alla vita quotidiana e alla attività portuale, come ad esempio anelli, lucerne, statuette di divinità, un brucia profumi a forma di pigna, una collana di pasta vitrea, vasi con fregi e decori, anfore, strumenti di lavoro, pesi, monete, un askòs per liquidi di pregio a forma di tonno, una coppa a rilievo con scene di battaglia tra Greci e Barbari, un bicchiere con corsa di quadrighe nel Circo Massimo in pasta vitrea, una matrice fittile con scene di trionfo, crani umani e tantissime ossa animali (ovini, caprini e suini).
Oggetti di culto individuati nel porto
Tra l’enorme quantità di reperti rinvenuti nello scavo del porto, D’Oriano cita gli oggetti di culto finora individuati : una statuetta fittile di Afrodite, una conchiglia e una ancora in miniatura di piombo con foro di affissione, una statuetta acefala di Osiride in steatite, un frammento di collanina ionica in argilla, un frammento di statuetta Sarda Ceres, un ciondolo fallico di terracotta, un matrice fittile con scena di trionfo, alcuni vasi in miniatura, tutti reperti di età romana e una testa femminile fittile tardo-arcaica in stile ionico. Tutti gli elementi provengono dal settore Nord dello scavo e molto probabilmente sono giunti casualmente da terra, come afferma sempre il D’Oriano; infatti è difficile che si tratti di materiale perduto dalle navi o eliminato in quanto deteriorato, se si considera l’atteggiamento di cura, di rispetto e spesso di superstizione che i romani, e in particolare i marinai, mostravano nei confronti degli oggetti di culto. Pertanto, è da ritenersi probabile la provenienza di questi oggetti da un luogo sacro non lontano dall’area portuale, dedicato ad una divinità femminile individuata nella figura di Afrodite – Venere – Iside – Ashtart il cui culto è presente in genere nei centri portuali e tra la gente di mare che invoca Afrodite come protettrice della navigazione (Euploia). A sostegno di questa tesi possono essere citati la statua della stessa dea, la conchiglia di piombo, l’ancora in piombo con due tacche orizzontali e un segno a forma di V (Venus? segno presente su vari ceppi d’ancora) e l’identificazione di Iside in Venere. Che in questa area vi fosse un culto religioso risulta da testimonianze del 1647 riportate da contemporanei documenti e nel 1848 attraverso una Mappa De Candia, che riferiscono dell’esistenza di due chiese gemelle dette “di mare” dedicate a S. Maria e S. Antonio Abate. La vicinanza tra le due chiese extra-urbane, che non rispecchia le tecniche urbanistiche medievale e post-medievale sarde mentre ben si adatta a quelle classiche, può dimostrare l’esistenza nella stessa area di luoghi di culto più antichi, di età romana, punica e arcaica ( ritrovamento della testa fittile nello scavo); ma il culto può addirittura risalire all’VIII-VII a.C., all’epoca della prima frequentazione fenicia e greca del sito urbano, alla quale si può ricondurre il santuario di Melqart – Herakles - Iolao.







Considerazioni finali sul porto
Gli scavi effettuati tra il 1999 e il 2001 nell’attuale lungomare di via Principe Umberto e via Genova, durante i lavori per la realizzazione del tunnel sotto le medesime vie, e precisamente nell’area corrispondente a quella del porto antico, hanno rappresentato l’intervento più importante dell’intera ricerca archeologica della Gallura e uno dei più importanti nella storia dell’archeologia mediterranea, hanno diffuso il nome di Olbia a livello internazionale e hanno consentito il ritrovamento di un’enorme quantità di materiale di ogni genere, da collocarsi cronologicamente dall’VIII a.C. all’Ottocento, parte del quale è ancora in fase di studio.
Sono stati rinvenuti in totale 24 relitti di navi di cui due di epoca neroniana - vespasianea, 16 risalenti al periodo dell’invasione barbarica, 6 di epoca medievale, una straordinaria quantità di reperti che testimoniano 25 secoli di storia della città di Olbia, cosi che tale scoperta archeologica documenta l’importanza dello scalo olbiese nel Mediterraneo, consentendo collocazioni cronologiche più precise degli eventi storici ed una conoscenza più approfondita delle condizioni di vita in questa area della Sardegna e delle sue relazioni con il resto del mondo sino ad allora conosciuto.

CONCLUSIONI
Con il lavoro da me intrapreso mi sono proposta una migliore conoscenza della antica di città di Olbia dove sono arrivata all’età di 8 anni e sono stata fin dall’inizio colpita dalla presenza di numerosi resti antichi e interessata a conoscerne la storia. Forse proprio questa curiosità ha determinato la scelta dell’indirizzo dei miei studi universitari e in particolare del lavoro conclusivo del triennio, in quanto sempre interessata sopratutto all’aspetto architettonico delle città dove Roma ha dominato. Fondata nel IV a.C ad opera dei punici, rimase a lungo con il suo porto la città principale della costa settentrionale sarda, posizione felice dovuta alla sua ubicazione all’interno di una profonda insenatura protetta dai venti che rendeva il suo porto uno dei più attivi centri commerciali rivolti verso la penisola italic, soprattutto durante il dominio romano. La dominazione punica dura poco più di un secolo, durante il quale Olbia eredita strutture e infrastrutture tipicamente puniche: l’impianto urbanistico a pianta ortogonale, il porto antico sito nella stessa area di quello attuale e non nell’area denominata Porto Romano dal Panedda, la cinta muraria con presenza di numerose torri sul lato occidentale e settentrionale, proprio in difesa di attacchi che potevano avvenire da gente indigena e il santuario di Melqart-Ercole situato sul punto più alto dell’antica città (m 13 s.l.m ) nella collina dove sorgeva la chiesa di S. Croce e oggi sorge la chiesa di S. Paolo. Con l’arrivo e la conquista romana, si ha un trapasso indolore del potere dove la vita punica continua ad esistere anche durante la presenza romana e nel corso dell’età tardo republicana e all’inizio di quella imperiale si registrano diversi interventi edilizi, come la costruzione di due templi nei pressi del santuario di Melqart nel I a.C. e tra il I e il II d.C. un muro perimetrale per racchiudere l’area sacra, diminuendo il recinto che fu già punico. Durante questa dominazione l’area e i templi furono consacrati ad Ercole, affiancato a Melqart. Inoltre, si ha la ristrutturazione dell’acquedotto, che portava l’acqua dalle falde del Monte Cabu Abbas sino in città per una lunghezza totale di circa km 3.5, acqua che serviva per il fabbisogno cittadino e per le terme.
Dagli studi sopra riportati, possiamo affermare che Olbia era provvista di due impianti termali, i primi erano divisi in zona chiusa costituita dal Calidarium, dal Tiepidarium e il Frigidarium e dalla zona aperta costituita da diverse vasche collegate ad una centrale molto grande. Questo impianto può essere ricondotto all’età Claudiana o all’inizio di quella neroniana e quindi al I d.C. Il secondo impianto invece scoperto in Via Nanni, potrebbe essere collegato a quello su detto o appartenere ad una domus. Il fatto che ad Olbia sono presenti due terme e testimonianza di nuove opere ampliate o restaurate, può essere collegato al II - III d.C. quando Roma fece un massiccio intervento in tutte le sue colonie sarde, riportando cosi Olbia alla stessa importanza di Nora, Turris Libisonis, Neapolis e Fordongianus. A partire dal IV d.C., iniziano a comparire le prime installazioni di nuove aree funerarie all‟ interno del circuito murario che determinano un processo di crisi nell’antico abitato e nel III – IV d.C. sul rilievo di S. Paolo vi fu una obliterazione di una importante tratto stradale. Nel V d.C. invece con l’arrivo dei Vandali, Olbia conosce definitivamente il suo declino che però non determina l’abbandono definitivo della città, in quanto ci sono tracce di restaurazione i alcune torri poste a settentrione e di una iscrizione su una lastra marmorea che parla di una restituito di una struttura in ruina.


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venerdì 27 aprile 2012

Archeologia. Storia di Olbia, di Durdica Bacciu. (2° parte di 3)




Storia di Olbia

di Durdica Bacciu


Dopo la prima parte della tesi di laurea della D.ssa Bacciu pubblicata ieri, oggi proponiamo la 2° parte dedicata alle terme e all'Acropoli.


CAPITOLO III
Le Terme

I resti delle terme meglio conosciute di Olbia, si trovano in pieno centro storico, in un area compresa tra Via delle Terme, appunto, (a N-E ), Corso Umberto I (a S ) e Via S. Croce (a W), ed interessano una superficie di circa mq 160071. I primi rinvenimenti effettuati in quest’ area, sono della seconda metà del 1800 e vengono riportati negli scritti del Tamponi e riferitici dal Panedda in ordine cronologico mentre l’ultimo risale al 1991 riferitoci dal D’Oriano.
1) Nel 1864, dove oggi è ubicata la Biblioteca Simpliciana, furono ritrovate due piscine e un deposito di centinaia di bipedales con bollo delle officine vicciane di Rutilia (importante gens romana), lo stesso bollo che è stato ritrovato nei bipedales che sostenevano il pavimento del calidarium.
2) Nel 1880, nel cortile dietro la Biblioteca, furono ritrovati altri bipedales.
3) Nel 1881, sempre nello stesso cortile, oltre ai resti del calidarium, vennero scoperti: un tratto murari appartenente probabilmente al lato orientale delle terme, un pozzo ed una piscina con dei ruderi non ben identificati.
4) Nel 1882, nel tratto all’angolo tra Via S. Croce e V. delle Terme, fu scoperta una vasca rettangolare.
5) Nel 1896, nel lato S-W dell’area, furono rimesse in luce una serie di vasche (6) collegate con una centrale di grosse dimensioni attraverso dei canali e un tratto di selciato stradale .
6) Nel 1991, nel cortile della Biblioteca, ci fu il rinvenimento di strutture legate ad ambienti di servizio degli impianti termali. A tale proposito ricordo che già Panedda segnalava la presenza di due vasche in questa zona.


Gli studi lasciatici dal Panedda in base ai ritrovamenti effettuati nell’800 e all’esame attento dei ruderi dell’impianto termale ancora visibili all’epoca in cui egli scrive, sono fino ad ora fonte molto più che attendibile in quanto negli ultimi scavi non sono stati rinvenuti ulteriori resti collegabili alle terme. A tale proposito si può osservare che nell’area in cui il Panedda racchiude le terme, precisamente in Via delle Terme e Via Porto romano sono stati fatti recentemente degli scavi, ma non hanno riportato alla luce nessun elemento rapportabile alle terme, ma resti di abitazioni di cui una col pavimento in terra battuta e l’altra con pavimento che presentava sporadiche tessere di mosaico. Nonostante la mancanza di una visione coordinata dei ruderi suddetti, rinvenuti sempre in seguito a scavi occasionali, il Panedda, in base anche ad un attento studio topografico, evidenzia che in gran parte del lato Nord si trovavano i bagni al coperto mentre a Sud-ovest erano situati i bagni allo scoperto. Inoltre, ci fornisce importanti testimonianze sulle tecniche utilizzate per portare l’acqua alle terme e per drenarla verso il mare, segnalando due tipi di condutture ancora visibili alla sua epoca.
La prima conduttura, atta a trasportare l’acqua alle terme, aveva un tracciato pari a m 6, a sezione ogivale, muri in blocchi di granito legati con calce, una copertura con due spioventi di lastroni di granito, lo specus era rivestito in finissimo granigliato con il pavimento in opus signinum, con una luce di m 1,50 e un’altezza pari a m 3,60 al vertice della volta. Questo specus costituirebbe l’ultimo tratto di acquedotto in connessione con le terme, ma il Panedda, non avendo prove a sufficienza, afferma di non poter dire in quale tratto avvenga tale connessione. E’ probabile anche che questa condotta non servisse esclusivamente alle terme, ma che potesse distribuire l’acqua ad altre opere pubbliche della zona: ipotesi del Panedda in base al ritrovamento, nel 1882, di ruderi con pavimento a mosaico sul quale sono stati rinvenuti un migliaio di gusci appartenenti a resti di ostriche.
La seconda conduttura serviva per il drenaggio delle acque verso il mare e presentava un doppio canale, rivestito con il classico granigliato rosso, il pavimento ricoperto in opus signinum e la volta ricoperta con ciottoli arrotondati legati con malta; la stessa tecnica si poteva notare all’interno delle vasche di decantazione di Sa Rughitta. La presenza di due canali fa supporre al Panedda che l‟acqua provenisse da due zone diverse dell’area interessata e che i due canali, perfettetamente allineati nel tratto finale, funzionassero come unico collettore di scarico per tutte le terme.
Altri ruderi meglio conservati al periodo del Panedda, riguardavano la zona dei bagni al coperto, situata a settentrione dell’area termale (lato adiacente a Via delle Terme). Questi ruderi erano attinenti soprattutto al calidarium che il Panedda ricostruisce come una sala rettangolare (m. 8,50 x 9,50), nei lati più lunghi della quale erano situate quattro esedre semicircolari (due per lato di diametro di m 4; il pavimento era costituito da uno spesso strato di opus signinum che poggiava su una distesa di bipedales, a loro volta sostenuti da pilastri di mattoni (suspensurae) e veniva riscaldato con un sistema di tubuli in terracotta, fissati con dei sostegni di ferro al muro perimetrale, distante dal pavimento cm 9 e la cui struttura presentava due tecniche edilizie diverse: l’opus incertum sul lato Ovest e l’opus listatum sul lato Sud. Le volte erano state realizzate con massicce colate a secco. Nonostante i ruderi non gli permettessero di avere un’idea precisa sull’intero complesso, il Panedda ne ipotizza una lunghezza di circa m 40, dove potevano essere situati il Calidarium, il Tepidarium e il Frigidarium. Sul lato sud (lungo il Corso Umberto I) il Panedda ha potuto prendere in esame i ruderi dell’area dei bagni allo scoperto: resti di una grande vasca ovale centrale (m. 12,50 x 2,80 x 2,75) collegata da canali per il deflusso delle acque a sei vasche minori. Tutto l’insieme del complesso all’aperto poteva occupare una superficie di mq 600. Nei pressi dell’area occupata dalle vasche sopradescritte (a Ovest) è stato rintracciato un piano stradale (m. 6,50 x m. 6,20) ricoperto da materiale proveniente dai resti di un cunicolo in mattoni, per il drenaggio. Nell’area occupata dalle terme sono state trovate altre quattro vasche, che potrebbero essere collegate al funzionamento delle terme: due nell’angolo sud-est (tra Corso Umberto e Via delle Terme); una di fronte al calidarium (cortile Mossa); una nell’angolo N-W (cortile Colonna ), tutte in genere con le stesse caratteristiche edilizie (rivestimento con finissimo intonaco e pavimento in opus signinum), tranne quella rinvenuta nel cortile Colonna, che si differenzia perché presenta una bordatura perimetrale realizzata con regolari pietre granitiche legate con calce.
Per quanto riguarda la datazione, il Panedda ritiene fondamentali i bolli dei bipedales delle Figline Vicciane rinvenute nel calidarium, come la tecnica dell’opus listatum utilizzata nello stesso calidarium ma anche in opere situate in diverse aree dell’ impero, in Sardegna e della penisola, opere queste databili tutte tra il I e il II d.C. In relazione a tale datazione, sembra opportuno evidenziare i ritrovamenti effettuati agli inizi degli anni novanta dal D’Oriano nell’area attualmente occupata dalla Biblioteca Comunale Simpliciana (fronte Corso Umberto I ), che hanno restituito frammenti ceramici di sigillata africana tipo “A” databile certamente al II d.C. La datazione delle terme viene presa in esame anche dal Sanciu, il quale in un accurato studio sugli scavi dell’acquedotto effettuati nel 2001, osserva che i bolli dei bipedales regenti il pavimento del calidarium sicuramente sono databili al I d.C. Anche il Panedda riferisce di due tecniche edilizie diverse nel calidarium e di due momenti differenti della sua pavimentazione, mentre nel 1991 D’Oriano rinviene in un ambiente di servizio delle terme materiale ceramico databile al II d.C. Pertanto il Sanciu afferma che ci sono stati almeno due periodi diversi di costruzione dell’impianto termale. Il primo è da attribuire all’età claudia o molto più probabilmente all’età neroniana e comunque prima che a Olbia soggiornasse Ate, la liberta amata da Nerone, che vi rimase forse tra il 63 e il 65 d.C. e qui avviò una fabbrica di laterizi, molto diffusi nelle costruzioni, anche in aree della Sardegna lontane da Olbia. Ma nell’area termale è stato rinvenuto, proveniente dalle officine di Ate, un unico mattone probabilmente reimpiegato in una fase di restauro del primo impianto termale ( mentre i bipedales erano stati utilizzati nella fase di costruzione del calidarium ).
L’approvvigionamento del primo impianto termale avveniva quasi certamente con l’uso di cisterne che raccoglievano le acque piovane, come anche con lo sfruttamento della falda freatica. Ma il Sanciu non esclude che un altro acquedotto rifornisse la città con le acque dei monti di Telti (tesi sostenuta dall’abate Angius). Il secondo periodo volto soprattutto al restauro e all’ampliamento o al rifacimento dell’impianto termale, è databile tra il tardo II e l’inizio del III d.C. periodo, corrispondente alla costruzione dell’acquedotto. Una scoperta particolare è stata effettuata nei primi anni del 2000 in Via Nanni (lungo il perimetro della scuola media E. Pais), dove è stato rinvenuto un secondo impianto termale del quale si ignorava l’esistenza, anche perché molte fonti precedenti si limitano a citare resti evidenziati in diversi scavi, ma non identificati. Nell’area compresa tra il marciapiede, posto lungo il perimetro della scuola E. Pais e la strada è stato messo in luce parte di un ambiente con IPOCAUSTO e l’adiacente PRAEFURNIUM.
L’ipocausto può essere considerato il CALIDARIUM del piccolo complesso scavato; bipedales a loro volta intervallati da muri paralleli costruiti sopra la roccia appositamente livellata. L’ambiente, che si è potuto esaminare solo in parte in quanto si estendeva al di sotto dell’edificio scolastico e quindi di difficile studio, avrebbe potuto avere una forma rettangolare, con i lati più lunghi
ad est in corrispondenza del praefurnium, e a Ovest in prossimità di un innalzamento roccioso. Il prefurnium, invece, presentava due aperture in una delle quali era visibile lo spiccato d’arco e un prolungamento murario verso l’interno oltre il quale stava un accesso di servizio per le manutenzioni dell’ipocausto.
Le strutture murarie del complesso erano in opus incerta con presenza di laterizi (opus nixtum ). Non è stato possibile ricostruire l’intera pianta dell’edifico, in quanto il settore di scavo era molto limitato e la datazione è stata impossibile per la scarsezza di elementi utili a questo scopo e per le eccessive intrusioni moderne nella stratigrafia. Molto probabilmente erano i resti dei ruderi che già il Panedda aveva segnalato ma che non era riuscito a identificare meglio, infatti parla di ritrovamenti di vasche, ambienti pavimentati sia in opus signinum sia con tasselli bianchi e neri, resti di colonne e pilastri. Ancora in questa zona, negli anni 1980-1988, sotto il manta stradale di Via Nanni, sempre vicino alla scuola E. Pais, sono stati scoperti resti di un edificio collocato, probabilmente una domus o un edificio termale, ipotesi avanzata per il ritrovamento di una tegola hamata datata alla prima età imperiale. A sostegno della ipostesi che i ruderi di cui si parla costituissero i resti di un secondo edificio termale, la Pietra afferma che questa tesi collocherebbe Olbia, diventata ormai un importante centro urbano, sullo stesso livello socio-economico degli altri grandi centri della Sardegna come Cagliari, Nora, Tharros, Neapolis e Porto Torres nei quali erano presenti 2 o tre impianti termali.
Considerazioni finali sulle terme
Da quanto su detto, possiamo affermare che Olbia aveva due impianti termali, uno era situato nel cuore antico della città, mentre l’altro era in prossimità del lato settentrionale della antica cinta muraria. Quello situato nel cuore della città occupava l‟area che oggi può essere racchiusa tra Via delle Terme, Corso Umberto e Via S. Croce ed era costituita da due complessi: i bagni al coperto e i bagni allo scoperto.
I primi, erano costituiti dal Calidarium, dal Tepidarium e dal Frigidarium, dei quali non erano rimaste tracce già all’epoca del Panedda. I secondi erano costituiti da una vasca centrale molto grande collegata ad altre sei più piccole con canalette per il drenaggio (descritte dal Tamponi e riportate dal Panedda). L’impianto termale veniva alimentato attraverso l’acquedotto e disponeva di due condutture, uno a Nord (verso Via delle Terme ) per l’entrata delle acque e uno a Sud (verso Corso Umberto) per il drenaggio delle acque verso il mare. Inoltre, nell’area interessata dalle Terme, si sono rinvenute quattro vasche (di cui i resti non sono attualmente visibili) per la raccolta delle acque piovane e lo sfruttamento della falda freatica per alimentare le Terme, sempre che non esistesse un primo acquedotto che prendeva l’acqua dai monti di Telti, del quale però non si sono trovate tracce. Per quanto riguarda la datazione, essa si basa principalmente su tre elementi: il primo riguarda i bolli dei bipedales ritrovati nel calidarium, marchiati dalle officine romane di Rutilia esattamente le Figline Vicciane; il secondo riguarda le tecniche edilizie dei muri perimetrali e le due fasi molto differenti nella pavimentazione del calidarium; il terzo si basa sui materiali rinvenuti all’interno dello scavo effettuato nel 1991 dove furono rinvenuti frammenti ceramici di sigillata africana tipo “A”. Prendendo in esame questi elementi di datazione, possiamo dire che la prima fase delle terme può essere ricondotta all’età claudia o probabilmente agli inizi di quella neroniana I e II d.C. La seconda fase di queste terme corrisponde al periodo in cui sono state edificate, ampliate o restaurate numerose opere pubbliche in Sardegna, spesso caratterizzate dal opus vittatum mixtum ( Nora, Porto Torre, Tharros, Neapolis e Fordongianus), ci riporta tra il II e il III d.C., periodo nel quale fu costruito anche l’acquedotto. Il secondo complesso termale invece, è stato scoperto durante uno scavo effettuato per lavori pubblici in Via Nanni, di fronte alle scuole medie E. Pais. Furono rinvenute due vasche, un ipocausto e un prefornium, ma per la mancanza di materiale e la difficoltà nella lettura stratigrafica, nella quale risultavano numerosi intrusioni di epoca moderna, non è stato possibile disporre di elementi validi per la datazione, ma nulla vieta ipotizzare che esso fosse collegato alle prime terme o che facesse parte di una domus.


CAPITOLO IV
Acropoli

L’acropoli di Olbia è ubicata su una piccola altura situata nel cuore del vecchio abitato punico e romano a m 13 s.l.m.; secondo gli studi di Rubens D’Oriano, qui si estendeva l’area sacra dedicata al dio Eracle-Melqart.





Durante la campagna di scavo effettuata nel 1939, in seguito ai lavori di ampliamento della chiesa di S. Paolo, vennero alla luce diverse strutture murarie ritenute dal Mingazzini strutture relative a un tempio del III-II a.C., in base alla tecnica costruttiva muraria e agli sporadici ritrovamenti di cultura materiale. La ricostruzione degli scavi effettuati in quest’area è stata effettuata dal D’Oriano in base ai testi e ai rilievi di Mingazzini, consentendo cosi una ricostruzione più che valida del contesto. D’Oriano ha ricostruito, secondo lo schema appresso riportato, come forse doveva apparire l’accesso monumentale al tempio dal versante orientale, in cima alla collina un altro edificio, anch’esso ritenuto di culto sacro punico, forse riguardante la fase iniziale della città.






Nel 1989, durante i lavori nel sagrato della chiesa è stata scoperta una struttura muraria di m 1.20 con adiacente lastricato stradale a gradini, molto simile a quella scoperta nel 1897 e quindi probabilmente la prosecuzione verso nord di quella messa in luce nel 1989, entrambe ritenute un tratto della recinzione del temenos.






Nel 1994 fu intrapresa una nuova campagna di scavo presso l’antica acropoli, esattamente nell’attuale piazza S. Croce, a sud della chiesa di S. Paolo. La costruzione della struttura ha comportato l’asportazione di diversi strati di terreno e probabili strutture preesistenti, sino a posizionare sulla roccia le fondamenta. Soltanto sotto la pavimentazione della cella si sono conservati strati di età repubblicana con diversi livelli di combustione, testimonianza probabile di un precedente culto. L’edificio è stato obliterato alla fine del III d.C. e in base ai materiali ritrovati (lucerne a volute, ceramica nera, forme iniziali della sigillata italica) può essere datato al I a.C. A ulteriore conferma di una frequentazione pre-punica del sito, (forse da mettere in relazione con i testi che sostengono la presenza a Olbia di Iolao ecista greco) è da rilevare che è stato rinvenuto un unico elemento di datazione arcaica, ossia una coppa ionica del tipo compreso tra B1 e B2. Questo rinvenimento conferma una frequentazione greca del sito.






Nel 2002, sono stati effettuati altri lavori all’interno del braccio destro del transetto della chiesa di S. Paolo, con il successivo rinvenimento di una cisterna punica a bagneruola, obliterata nel II d.C. dalla costruzione del pavimento, sopra il quale sono state rinvenute altre strutture di utilizzo successivo sempre di epoca romana. Questa non era l’unica cisterna presente nell’area, nel 1939 ne sono state individuate altre due, una descritta dal Mingazzini (illustrata dal Panedda) e l’altra descritta dal De Rosas senza però elementi utili per la sua ubicazione nel contesto. Nel 1989 ne è stata individuata una terza sotto la scala di un ingresso laterale alla chiesa di San Paolo.






Nel 2005, in seguito ai lavori effettuati nell’area a nord della chiesa, sono state messe in luce strutture appartenenti alla delimitazione del temenos e databili tra il I e l’inizio del II d.C. in base ai frammenti di sigillata tardo italica e sigillata africana “A” trovati nelle fondazioni. Inoltre, in uno spazio limitato, è stato possibile rintracciare parte di strutture di un edificio preesistenze probabilmente di un tempio “C”.






L’edificio può essere datato intorno al I a.C. in base ai materiali ritrovati, come i frammenti di ceramica a vernice nera, un fondo decorato a palmette e un frammento di anfora punica. I rinvenimenti hanno dimostrato una frequentazione vasta del sito come area sacra, presumibilmente dal periodo greco, a cui è seguito un complesso monumentale riscoperto nel 1939 dal Mingazzini (tempio A) ritenuto di epoca punica, risalente alla fase iniziale della vita della città. Durante il periodo romano sono stati realizzati due templi (tempio B e C) nel I a.C. e un muro di delimitazione dell’area sacra (temenos) tra il I e il II d.C.






Il dio Melqart-Ercole
Nelle relazioni del Mingazzini del 1939, viene nominato un “frammento di maschera di creta gialla cotta rinvenuta vicino alle fondamenta dei ruderi”, descritto dal De Rosas come una raffigurazione di Giove libico, ma l’unico elemento che ci rimane di questo reperto è uno schizzo eseguito da un pittore dell’epoca.






Il frammento viene definito come un ex-voto già dal Mingazzini: “la terra cotta votiva”, “frammento di maschera votiva (che rappresenta Ercole riconoscibile dai denti di leone sopra la fronte e dalla criniera della fiera dietro l’orecchio destro)”. Durante le prospezioni subacquee effettuate nel Golfo di Olbia (Isola Bocca) nel 1990, sul fondale marino sono stati rinvenuti frammenti di anfore puniche e ceramica campana del II a.C., oggetti in terracotta, due dita di una mano, una testa femminile (cm 25 di altezza) di importante fattura e un’ulteriore testa maschile (grandezza naturale) raffigurante il giovane Ercole con la barba e con la testa ricoperta dalla pelle del leone di Nemea. Olbia (Isola Bocca).







Quest’ultimo reperto appariva realizzato con due diversi stampi, uno per il viso di Eracle e per la leontè e l’altro per la parte posteriore con la criniera leonina. I punti di congiunzione del manufatto non erano visibili perché ben nascosti dai riccioli della criniera; invece nella parte posteriore appariva un foro per l’aerazione durante la cottura, probabilmente perché questo lato della statua era destinato ad essere invisibile. Se si considerano le tecniche artigianali caratterizzate dall’utilizzo di argilla ricca di inclusi di granito, materiale tipico della produzione di Olbia e dintorni si può ipotizzare che la statua sia stata prodotta nelle officine di Olbia o in quelle limitrofe. Appartenente alla stessa produzione apparivano anche le anfore ritrovate durante le stesse operazioni subacquee, a dimostrazione che i reperti appartenevano al carico di una nave diretta da Olbia verso qualche approdo della Sardegna che conservava ancora le tradizioni culturali e religiose di origine punica. E’ improbabile che il carico fosse diretto verso la penisola, dove la produzione di artigianato artistico era di gran lunga superiore. E’ arduo ipotizzare verso quale complesso di culto la statua fosse destinata ma, se diretta verso una località sarda dove perduravano le tradizioni religiose puniche, è verosimile che si trattasse di una statua raffigurante Melqart eroe viaggiatore fenicio divinizzato, protettore della navigazione e delle espansioni, assimilato fin dai tempi antichi ad Ercole. Melqart, rappresentato anch’esso con la leonté, si differenziava dall’eroe greco solo per una tunica stretta in vita da una cintura, ma essendo stata recuperata solo la testa della statua non è possibile stabilire a chi appartenesse. Realizzata ad Olbia nel II a.C. è da ritenersi tuttavia opera non prodotta da artigiani locali, ma da maestranze provenienti dalla penisola o dalla Sicilia; potrebbe essere stata commissionata dalla classe dirigente romana, a dimostrazione, ancora una volta, della permanenza dopo la conquista di Roma di tradizioni puniche. Un’ulteriore conferma, sulla identificazione della divinità protettrice di Olbia, si può avere tramite uno studio di D’Oriano e Pietra sul culto e sulle immagini di Ercole a Olbia impresse nelle Heraklesschalen e nelle Corinthian relief bowls, reperti ritrovati negli scavi d’urgenza effettuati nell’antico porto romano in seguito alla realizzazione del tunnel di connessione tra il lungomare e la viabilità extraurbana. Le tre coppe prese in esame dallo studio, presentano caratteristiche simili, tutte riportano una raffigurazione di Ercole stante che porta nella mano sinistra la leonté e la clava, e nella mano destra un vaso. Il bollo è circondato da una striatura a rotella, in una fascia bordata inferiormente e superiormente da solcatura, tranne la coppa n° 2 che ne è priva, e tutte presentano un disco di impilamento. La forte similitudine formale e tecnica dei tre corpi ceramici, fa supporre la provenienza da una stessa bottega romana e la diffusione sembra circoscritta all’Italia centrale tirrenica da Populonia a Paestum (da non escludersi altri centri di produzione) con una datazione nella seconda metà del III a.C.




I corpi ceramici delle Corinthian relif bowles presentano una ricca decorazione a rilievo, vengono prodotte a Corinto tra la metà del II e la fine del III d.C. e sono limitatamente diffuse in tutti i principali porti italiani. Durante lo scavo sopra descritto ne furono rinvenuti otto esemplari differenti suddivisi a loro volta in quattro gruppi di scene: fatiche di Ercole, scene di battaglia, scene rituali e scene di caccia. La decorazione riguardante Ercole è delimitata in basso da una fascia composta da un listello tra due scanalature ed è pertinente al gruppo delle 12 fatiche. Le scene vengono divise da elementi vegetali stilizzati e dall’arco e dalla faretra e consistono in: Eracle e Ippolita, Eracle che pulisce la stalla di Augias, Ercole e la cerva.







Considerazioni finali sull’Acropoli
In base agli scavi e ai rinvenimenti eseguiti dal 1897 sino al 2005, possiamo avere una stratificazione cronologica della frequentazione dell’antica Acropoli di Olbia, situata nel punto più alto della città.


In base ai frammenti ceramici ritrovati, una prima frequentazione è attestata a partire dall’età arcaica, per proseguire poi in quella punica, come è confermato dalla scoperta di strutture relative ad un edificio sacro, la cui datazione viene attribuita dal Mingazzini (1939) al III-II a.C. Tale edificio viene riconosciuto dal D’Oriano come ingresso monumentale dell’area sacra, dedicata probabilmente al dio ed eroe protettore delle città puniche: Melqart. Una successiva frequentazione è attestata a partire dal I a.C. , momento in cui i romani penetrano nell’isola, determinando un forte rinnovamento delle città sarde. E’ proprio in questo periodo infatti che vengono realizzati, nell’acropoli, il tempio B nel settore settentrionale e il tempio C nel settore meridionale e successivamente, tra il I e il II d.C., un muro perimetrale per chiudere l’area (temenos). Questi templi rimasero in uso dal I al III d.C., subendo una obliterazione nel corso del III-IV d.C. a cui seguì la costruzione di un altro muro perimetrale sopra il tempio C, riducendo cosi l’area sacra già punica. Inoltre durante il periodo romano, l’area sacra venne dedicata al dio romano Ercole, affiancato a quello punico Melqart, fatto confermato anche dai numerosi ritrovamenti su detti che raffigurano Ercole.


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