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giovedì 30 giugno 2011

Planisfero Castiglioni. Carta del navigare


Planisfero Castiglioni
Carta del navigare universalissima et diligentissima ... et gigliatissima.
di Rolando Berretta


Nei quadranti riportati si nota la parola SCALA. Osservate le S maiuscola nelle due scritture; sono due scuole completamente diverse.
Questo, per un Paleografo, è grave.
Ci hanno sempre detto che sono dello stesso autore.
Io non sono d’accordo. Gli autori sono diversi.


Un autore ha scritto il suo nome a caratteri cubitali, Diego Ribeiro.
L’altro autore ha dovuto celare, anche, l’anno di compilazione.




Un ringraziamento particolare ad Antonio Crasto, sempre gentile e paziente con le spiegazioni.

mercoledì 29 giugno 2011

Bronzetti nuragici - gli offerenti


Gli "offerenti" nei bronzetti nuragici
di Pierluigi montalbano

Fra gli oltre 400 personaggi rappresentati nei bronzetti, una buona parte sono definiti “offerenti”, ossia individui che dedicano alla divinità. Le tipologie sono molteplici: uomini, donne, sacerdoti e sacerdotesse, pastori, allevatori, agricoltori e tutta una serie di artigiani che, nei loro gesti possono essere analizzati per capirne la ritualità. Per brevità di esposizione farò una rassegna fotografica che già da sola aiuterà i lettori a dare interpretazioni personali alla processione di devoti.
Nell’ordine potrete osservare la sculture n° 72, alta 18.5 cm, conservata al museo di antichità di Torino, che offre 4 frutti in una ciotola. Un abito attillato coperto da un mantello rendono questa scultura fra le più eleganti in assoluto.

La n° 74 è alta 11.7 cm ed è conservata al museo di Sassari. Il caratteristico manto mostra 3 fasce orizzontali limitate da linee incise e riempite da trattini verticali paralleli. La testa è avvolta da un velo che scende sulla nuca e su chiude sotto il manto.

La n° 80 misura 20.7 cm ed è conservata a Copenaghen. Sul capo, coperto da un velo, è portato un grande cappello, forse di paglia. Come in altre statuine sono visibili i dischetti delle mammelle, e il mantello scende rigidamente simmetrico dalle spalle alle caviglie, con orli laterali decorati a tratteggio obliquo e una larga balza con fasce orizzontali sovrapposte.

La n° 118 è alta 10 cm, proviene da Santa Vittoria di Serri e si trova al museo di Cagliari. Presenta un piatto rotondo con due focacce e due filoncini. I capelli, segnati da striature angolari, scendono sulla nuca e sulla fronte, e si rialzano in due ciuffi che diventano trecce ben curate. La tunica aderente scende fino al ventre, lasciando scoperte le gambe, e sopra di essa si nota un giubbotto in pelle aperto sul davanti che si chiude al collo con un fermaglio.

Il bronzetto n° 120, definito “La libagione”, è alto 12.5 cm, proviene da un nuraghe in località Funtana Padenti de Bacchi, presso Lanusei, ed è conservato al museo di Cagliari. La lunga veste fa pensare ad una sacerdotessa o ad una aristocratica. La ciotola contiene certamente un liquido, perché non si notano oggetti all’interno. Calza un copricapo conico rotto che doveva somigliare al “sombrero, già visto nella statuetta n° 80. Un collare molto alto ricopre la gola e si allarga, nell’estremità inferiore, in una pettina semicircolare. Il mantello presenta un’applicazione semicircolare in risalto, con la superficie segnata da larghe incisioni verticali e parallele. Un passamano ornato a spiga accompagna il giro delle spalle.

La n° 143 misura 8.5 cm, proviene da Teti (Abini) ed è conservata al museo di Cagliari. Ha la testa coperta da un turbante con striature verticali parallele e una tunica liscia scampanata verso il basso e ornata da tre balze decorate. Sorregge con entrambe le mani una grande focaccia con un incavo nella parte alta, da cui si dipartono a raggiera verso il basso delle linee incise.

Il bronzetto n° 145 è “La sacerdotessa con stola”, conservata al museo di Cagliari e alta 9.2 cm. Sorregge una piccola coppa con linee radiali incise. La tunica a balza, coperta dal mantello, si ferma poco sopra la balza della veste. La stola, guarnita da una frangia nell’orlo interno, ricade in avanti presentando una profonda scollatura che si chiude alla vita.

L’ultima immagine mostra “L’offerta del montone”, classificata al n° 153 di Lilliu, 1966, Sculture della Sardegna Nuragica. È alta 9.2 cm ed è conservata al museo di Cagliari. Una tunica scampanata veste il personaggio che sulle spalle porta un montone. L’animale è sul collo del padrone, e le zampe sono tenute saldamente con le mani. Il volto dell’individuo pare coperto da una maschera, con sopracciglia e naso molto evidenti.
Tutte le immagini sono di Lilliu, 1966, Sculture della Sardegna nuragica

lunedì 27 giugno 2011

Gli arcieri e gli offerenti nei bronzetti nuragici


Guerrieri nuragici - arcieri
di Pierluigi Montalbano

Esaminiamo oggi 3 tipologie di arcieri, così da avere un quadro chiaro di questi guerrieri.
Il primo è la statuina n° 16 del libro di Lilliu, classificato come “arciere con asta a penna direzionale”. È alto 23.5 cm, proviene da Abini (Teti – Nuoro) ed è conservata al museo di Cagliari. L’atteggiamento è pronto per mirare e scagliare la freccia, con il piede sinistro in avanti. Nel polso destro si nota il brassard, in questa posizione forse perché l’arco è molto grande. Il copricapo è quello già visto nella statuina n° 12, così come la doppia tunica, anche se in questo caso non vi sono frange. A difesa del guerriero ci sono la goliera doppia e le gambiere. Al petto è presente la placca rettangolare dalla quale spunta, nella parte inferiore, il pugnale a elsa gammata. Sul dorso abbiamo l’astuccio conico per le punte di freccia, un fodero con la spada e una lunga asta che termina con tre anelli che la fissano ad una penna triangolare striata, forse di piume, considerata da qualche studioso un’insegna identificativa. Il copricapo a calotta presenta lunghe corna spezzate.

Il secondo personaggio è il n° 17 della classificazione di Lilliu, 1966, è alto 17 cm, proviene da Abini – Teti, ed è conservato al museo di Cagliari. Si presenta in posizione pronta al lancio, con i piedi girati e le braccia in perfetta posizione stilistica dell’arciere. Vesti, armatura e copricapo con lunghe corna sono identici al precedente arciere n° 16 ma in questo non c’è la goliera. I capelli che fuoriescono dall’elmo mostrano un tratteggio sulla nuca, resi con lo stilismo del ramo schematico. Sopracciglia e naso presentano il noto schema a T.

Il terzo guerriero con arco è il n° 36 di Lilliu, 1966, alto 18.8 cm, proveniente da Suelli e conservato al museo di Cagliari. Il consueto copricapo a calotta con lunghe corna e la doppia tunica lo avvicinano ai precedenti, ma in questo caso l’aspetto è rozzo, quasi come lo si dovesse ancora rifinire. Dalle spalle pendono due bande e indossa un corpetto striato. Le gambiere sono divise in due pezzi sul davanti, anziché dietro ai polpacci. La mano destra impugna una spada ma si nota solo l’impugnatura in quanto la rottura sopra l’elsa non consente di intuirne la forma. L’arco è grande, di quelli classificati “pesanti” da Lilliu. Si tratta di armi formidabili per i lanci a lunga distanza.


Gli offerenti
di Pierluigi Montalbano

Una serie di personaggi che mi ha sempre affascinato è quella degli “Offerenti”. È stata illustrata nel 1966 da Lilliu nel libro “Sculture della Sardegna Nuragica”, e in questo mio lavoro di sintesi mostrerò alcuni bronzetti rappresentativi che consentiranno ai lettori di farsi un’idea su queste sculture.
Il n° 48, alto 12.5 cm, proveniente dal tempio impetrale di Santa Vittoria di Serri, è esposto al museo di Cagliari. Il volto presenta il consueto schema con occhi a mandorla, naso e sopracciglia marcati a T, già visto anche nei menhir, e presenta un copricapo a calotta. La doppia tunica sovrapposta è anch’essa tipica di molti bronzetti, così come la bandoliera a tracolla che sostiene il pugnaletto a elsa gammata. Fin qua si tratta di una simbologia ripetitiva che suggerisce una cronologia ben definita per tutte le statuette con queste caratteristiche. La differenza rispetto ai guerrieri è rappresentata nelle mani. Quella destra mostra il “segno del saluto” di cui parleremo in futuro, mentre la sinistra “offre” un piatto tondo che contiene alimenti, forse fette di carne.

La statuina n° 51 è alta 19.5 cm, è esposta al museo Pigorini a Roma e proviene da una località sconosciuta della Sardegna. Pugnale a tracolla, atteggiamento di saluto, doppia tunica e copricapo sono quelli già descritti per la n° 48 ma sopra le vesti è posta una elegante stoffa con frangia che pare un mantello principesco e rende nobile il personaggio rappresentato. La mano sinistra è spezzata e impedisce di intuire cosa offrisse questo bronzetto. Non deve sfuggire che potrebbe essere un capotribù con bastone anziché un offerente, ma il bronzetto n° 52, che è identico e quindi è inutile la sua descrizione, toglie ogni dubbio.

L’offerta è di alimenti, forse dolci o pane. Per completezza di informazione segnalo che le statuette n° 53 e n° 55 di Lilliu sono identiche alla n°51.
Il bronzetto n° 56 segue lo schema dei precedenti ma l’offerta è portata a spalla ed è contenuta in un vassoio rettangolare in legno, o sughero, con l’orlo rialzato. Si tratta di ciambelle con il buco in mezzo. Da notare che il mantello, a differenza dei precedenti, è striato.

Le immagini sono tratte da Lilliu, 1966, Sculture della Sardegna nuragica

Video su Cagliari capitale del Mediterraneo, sede del governo della Sardegna

L'amico Giancarlo Musante ci offre un video su Cagliari, la nostra città.

domenica 26 giugno 2011

Cagliari - catacomba scoperta nei sotterranei.



Straordinaria scoperta sotto Cagliari. Ritrovata una catacomba estesa mille metri quadri
di Marcello Polastri

Potrebbe trattarsi della scoperta più importante dal 1800 ad oggi. E' stata fatta dagli speleologi del GCC e del Gruppo teses di vercelli con Marcello Polastri e Daniele Bossari, conduttore della trasmissione Tv-Mediaset mistero...
Straordinaria scoperta sotto Cagliari. Ritrovata una catacomba estesa mille metri quadri.

Una straordinaria scoperta è stata fatta ieri sera nel sottosuolo di Cagliari dove un team di esploratori hanno ritrovato un complesso sotterraneo pieno zeppo di ossa umane, una sorta di catacomba cristiana estesa almeno mille metri quadri.
Questo posticino da brivido, che per certi aspetti assomiglia di una cattedrale arcaica, riposa da millenni a trenta metri di profondità sotto le trafficate strade del Castello di Cagliari.
Sono centinaia gli scheletri umani avvistati dagli speleologi, incalcolabili i cumuli di ossa umane alti diversi metri che giacciono sottoterra tra cocci antichi, croci e resti di bare. La scoperta è stata fatta da Marcello Polastri, giornalista e presidente del Gruppo Cavità Cagliaritane in compagnia di un nutrito staff televisivo.
La spedizione, composta dagli speleologi sardi e dal team esplorativo Teses di Vercelli nell’ambito di un gemellaggio esplorativo, aveva l’obiettivo di realizzare immagini professionali per il programma tv Mediaset Mistero, e per Infochannel TV, a conclusione di un ciclo di esplorazioni sotterranee seguite da tv regionali e internazionali.
Il conduttore Daniele Bossari, in compagnia di Marcello Polastri e Luigi Bavagnoli, rispettivamente presidente del GCC il primo e del Gruppo Teses di Vercelli il secondo, non hanno creduto ai propri occhi: dopo aver superato un foro in una parete del vecchio rifugio di guerra, hanno scoperto le ossa umane.

Prima due, poi tre, infine migliaia che ricoprono il pavimento di una grande caverna che in parte si dipana, con i suoi cunicoli e le immense sale, sotto il bastione di Santa Croce in Castello.

Ma “è bene non rendere nota l’esatta ubicazione per il timore di manomissioni” afferma Marcello Polastri, il primo che ha intuito l’importanza della scoperta e che ha sospeso temporaneamente l’esplorazione per i successivi accertamenti.
Con Bossari, Polastri e Bavagnoli erano presenti gli speleologi Eleonora Murgia, Fabrizio Raccis, Davide Cabras, Andrea Verdini, Giuseppe Melis, Alessandro Argiolas, Antonello Cau e Arcadio Cavalli.
L’accesso all’antica grotta, “una sorta di eremo rupestre - afferma Polastri - era occultato dietro una intercapedine, tra un muro del vecchio ospedale di guerra e la parete rocciosa della grotta che lo ha ospitato, a partire dal 1940”.
“Sul finire del 1980 in questa zona venne scoperto un ossario, ma questo riportato alla luce l’altra sera non è un semplice deposito di ossa, bensì una sorta di catacomba labirintica e per un tratto allagata, infatti abbiamo proceduto con le mute nelle parti più profonde e all’apparenza pericolose”.
Nei prossimi giorni gli speleologi concluderanno i rilievi della caverna appena scoperta.
Dal sottosuolo, con la massima cautela per non alterare il sito, hanno prelevato alcuni campioni ossei e resti di manufatti. Poi, domani, forniranno agli archeologi e alle istituzioni una corposa documentazione che verrà illustrata, tra qualche giorno, nel corso di una conferenza stampa aperta all’ampio pubblico.

sabato 25 giugno 2011

Bronzetti nuragici - spadaccini e arcieri


Guerriero con spada e arco n° 11 (classificazione di Lilliu, 1966) e Guerriero con spada e scudo n° 12 (classificazione di Lilliu, 1966).
Ambedue le sculture provengono da Monti Arcosu, Uta, sono alte 24 cm e sono conservate al museo di Cagliari. I due bronzetti sono identici nello stile, nel vestiario, nel supporto strappato e in parte immerso nella piombatura, per il tipo di veste a doppia tunica con frange. Presentano la stessa grande spada fogliata a nervature e lo stesso sistema di difesa con goliera e gambiere. L’elmo a due corna brevi rivolte in avanti ha due creste che armonizzano l’insieme e lo rendono più resistente. Occhi a mandorla, naso triangolare, capelli ben visibili e orecchie pronunciate sembrano eseguiti dalla stessa mano, e questo suggerisce la presenza di una bottega artigianale nella quale i maestri acquisivano le competenze necessarie per svolgere questa artistica mansione.

Fra i due personaggi vi sono anche delle differenze. Anzitutto il primo è un arciere con brassard in cuoio nell’avambraccio sinistro. La difesa è assicurata da una grande piastra rettangolare al petto legata con due striscie che passano sopra le spalle e tengono nel dorso un astuccio conico per le punte di freccia o per il grasso dell’arco. Nelle strisce si trova anche la faretra per le frecce. Il secondo guerriero ha uno scudo rotondo e nella mano che tiene la spada si nota un guanto striato che protegge la pelle nuda. Lo scudo è in cuoio e rinforzato da tre lamine circolari, e presenta l’umbone centrale in bronzo che costituiva un’arma da offesa. Sul retro dello scudo è fissato verticalmente un pugnale ad elsa gammata. Il pettorale presenta striature che Lilliu classifica come “pelle di muflone”, riconducendo alla letteratura antica che descriveva i sardi protetti da un’armatura in cuoio peloso.

Le immagini scultura n° 11 (arciere con spada) e n° 12 (guerriero con spada e scudo), sono tratte da Lilliu, 1966, Sculture della Sardegna Nuragica.

giovedì 23 giugno 2011

Navigazione antica 2° e ultima parte


Annone e la beffa dello stretto
di Antonio Usai


Tutto quanto fin qui esposto, induce a pensare che se, nei libri in greco antico che riportano fatti anteriori al II° a.C., si parla di cartaginesi e colonne d'Ercole insieme, come nei casi del viaggio di Annone e del paragrafo di Erodoto suddetti, dovremo leggerli, sicuramente, in modo diverso da come si presentano scritti.
Ma c'è un'altra domanda che viene da porsi, tanto spontaneamente quanto inevitabilmente, leggendo il resoconto del viaggio di Annone, alla quale rispondere: per quale motivo Annone è andato proprio in quei posti? Perché proprio e non si è inventato, invece, i luoghi come ha fatto, per esempio, nella seconda parte? Perché lì? E la risposta è una sola: farsi beffa di coloro che gli hanno ordinato di fare quel viaggio, che lui non ha nessuna intenzione di compiere (per motivi che, purtroppo, non sapremo mai). E il “farsi beffa” fa anche capire che il navigatore si è limitato solamente a descriverli e non ad andarci di persona, in quei posti di cui parla in quella prima parte del viaggio, in quanto la probabilità di essere visto e, quindi, scoperto, era altissima.
Ma quel viaggio dovrà pur terminare; e cosa c'è di meglio che concluderlo con un colpo di genio? Infatti, cosa fa Annone nella seconda parte? Come prima cosa descrive, con intelligenza, posti fantastici e terrificanti. Ma descrive con intelligenza posti fantastici e terrificanti non in modo tale che, come ho detto nel mio scritto, a nessuno venga in mente di andarli a cercare, bensì per non azzardare più nel descrivere luoghi che i senatori potrebbero, in qualche modo, riconoscere. E poi termina quel viaggio oltre “lo stretto” come un vero re della beffa, quale si è rivelato, facendo credere ai senatori cartaginesi che le tre pelli di scimmia, che porta loro dal viaggio, sono di: «donne, pelose in tutto il corpo, che gli interpreti chiamavano Gorilla».
Per quanto riguarda, invece, le città che Annone ha fondato, compresa Timiaterio e quelle migliaia di persone che aveva al suo seguito, è andata, sicuramente, in questo modo: se il navigatore cartaginese ha fondato quelle città, lo ha potuto fare, solamente, nel tratto tra Capo Bianco e lo stretto di Gibilterra, ma dando ad esse, come ho detto nel mio scritto, un nome diverso da quello che lui dice di aver dato (affinché i cartaginesi non le potessero trovare), e, di conseguenza, sono scese anche quelle migliaia di persone. Ma se anche non avesse fondato quelle città, quelle migliaia di persone le ha fatte scendere, sicuramente, ugualmente in quel tratto d'Africa.
I cartaginesi, però, nell'aver posizionato Solòeis oltre lo stretto di Gibilterra, fanno sorgere anche un dubbio: possibile che essi, i cartaginesi, non si siano accorti che Annone non è andato oltre lo stretto di Gibilterra? Oppure c'è dell'altro? Ciò che mi ha fatto sorgere il sospetto è il fatto che, secondo il mio punto di vista, i cartaginesi posizionano Solòeis in un punto troppo ben definito, come se volessero far sapere che sanno dove si trova quel promontorio. Mentre, come abbiamo visto, è impossibile trovarlo. Se il mio sospetto è fondato, i fatti si sono svolti, quasi sicuramente, in questo modo: sono partito, anche qui, con il fatto che i casi possono essere solo due:
I cartaginesi erano degli ingenui.
Oppure, Annone è stato scoperto; ma è stato scoperto troppo tardi per porvi rimedio .
Io, anche qui, ho optato per il secondo caso e l'ho fatto perché è abbastanza plausibile. E ciò che viene alla luce, come vedremo, è una beffa ancora più grande, quasi fuori da ogni immaginazione.
Continuiamo, ma riprendendo brevemente dall'inizio:
Annone, anche se non ha nessuna intenzione di compiere quel viaggio, per non essere certamente punito e anche in modo duro, deve, in ogni caso, partire. Il navigatore parte, non va dove gli hanno ordinato e rimane tra Capo Bianco e lo stretto di Gibilterra. Ma sa che sicuramente verrà scoperto perché prima o poi i senatori cartaginesi invieranno dei controllori oltre Gibilterra per verificare il suo viaggio, e così escogita la beffa. Sa che sicuramente verrà scoperto, ma sa anche, però, che se rientra a Cartagine senza che qualcuno lo abbia scoperto, gli saranno riservati onori e gloria perché ha soddisfatto le mire espansionistiche del Senato Cartaginese. Infatti quel viaggio è stato ordinato, come dice Plinio: «nel periodo di massimo splendore della potenza cartaginese». E così avviene (il resoconto di Annone fu inciso su tavole o su colonne esposte nel santuario di Baal, e, come dice sempre Plinio, due pelli di “donne pelose in tutto il corpo” rimasero esposte nel tempio di Giunone a Cartagine fino a che la città non fu presa dai Romani). E quando i senatori cartaginesi inviano i controllori oltre lo stretto di Gibilterra e scoprono prima che non c'è corrispondenza con quanto Annone ha loro raccontato e dopo, dovuto a ciò, avendo fatto certamente delle verifiche anche sulle quelle pelli di donne pelose scoprono anche che le stesse sono, invece, pelli di scimmia (nel tempio di Giunone rimasero esposte fino a che Cartagine non fu presa dai Romani, due pelli di donne pelose anziché tre), è troppo tardi per porvi rimedio, per sbugiardarlo ufficialmente e metterlo a morte. E così, costretti loro malgrado a farlo, posizionano il promontorio Solòeis in un luogo oltre lo stretto di Gibilterra per dimostrare l'avvenuto viaggio e, a denti stretti, sopportano l'onta, perché se avessero detto di aver scoperto ciò che li ha combinato Annone, il quale è anche un loro concittadino, tutti i cartaginesi, e forse non solo, avrebbero riso di loro. E Annone questo lo sa. Per questi motivi la sua è una beffa ancora più grande, quasi fuori da ogni immaginazione. Sicuramente i senatori cartaginesi, in un modo o in un altro, hanno fatto pagare ad Annone, di certo non ufficialmente, l'affronto subito; ma il navigatore sapeva, certamente, anche questo. Ma qualsiasi cosa gli sia capitata, il navigatore l'ha affrontata con una soddisfazione che, credo, ha pochi eguali e anche con la quasi certezza che prima o poi qualcun altro avrebbe capito come sono andate le cose.
In ogni caso, sia che il mio sospetto sia fondato o meno, Annone è riuscito a portare a termine, con successo, la beffa.

Bibliografia: Erodoto Storie IV libro par. 43 Oscar Mondadori Cles (TN) maggio 2000
Antichi viaggi per mare Edizioni Studio Tesi Pordenone maggio 1992 a cura di Federica Cordano
Delle navigazioni et viaggi di Giovanni Battista Ramusio Venezia 1550
“Plinio Storia Naturale” libro 5° par. 8° e libro 6° par. 36 passo 200 ed. Einaudi Torino 2007


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mercoledì 22 giugno 2011

Navigazione antica 1° parte di 2


Annone e la beffa dello stretto
di Antonio Usai

Succede, a volte, che, dopo essere arrivato alla meta, ti guardi intorno e hai la sensazione che, per arrivare lì, ci sia un altro percorso più agevole, ma che qualcuno, nascondendo o coprendo l'indicazione, te ne abbia fatto percorrere un altro più tortuoso e, se raccontato, al limite dell'incredibile. Ed e' quello che è capitato a me mentre rileggevo il paragrafo 43 del IV libro delle “Storie” di Erodoto.
Ma prima di cominciare con quel paragrafo, parlerò di un' evidenza di cui non ho discusso nel mio resoconto del viaggio di Annone, poiché sarà inevitabile, in quanto necessario, parlarne più avanti e dire, inoltre, il motivo per cui non ne ho parlato allora. Tale evidenza si riscontra leggendo quel fatidico 8° passo.
Quel fatidico passo, se da un lato fa capire chiaramente e perfettamente, dove è ambientata la prima parte del viaggio, e cioè innegabilmente in quei posti che io ho indicato nel mio scritto, dall'altro fa capire che, con la frase: «E abbiamo fatto la supposizione che essa (Cerne) si trovasse, rispetto al periplo, alla stessa altezza di Cartagine: infatti ci sembrò uguale la navigazione da Cartagine alle Colonne e da lì a Cerne», anche i cartaginesi avrebbero capito, sicuramente, di quali posti Annone stesse parlando. Il motivo per cui non ne avevo parlato è perché non c'era, secondo il mio punto di vista, il motivo per cui parlarne. Mi spiego; ero partito dal fatto che i casi potevano essere solo due:
Annone non era esistito e quindi quel viaggio era solo un racconto creato dalla fantasia di un favoleggiatore (ma anche in quel caso la prima parte del viaggio sarebbe ambientata, innegabilmente, in quei posti che io ho indicato).
Oppure, Annone era esistito ed aveva compiuto quel viaggio oltre le colonne d'Ercole (e dunque, se compiuto, quella prima parte del viaggio sarebbe ambientata, appunto come precedentemente detto, innegabilmente in quei posti che io ho indicato nel mio scritto).
Io avevo optato, come è palese nel mio scritto, per il secondo caso, ma perché Erodoto, nel paragrafo 43 suddetto, riportava un nome che il primo ad averlo citato è stato Annone: Solòeis, che provava l'avvenuto viaggio. E dato che il viaggio era avvenuto, questo voleva dire che, senza ombra di dubbio, Annone non era stato scoperto; e dato che senza ombra di dubbio Annone non era stato scoperto, questo voleva dire che, sempre senza ombra di dubbio, Annone aveva trovato il modo per riuscirci. Ma dato, anche, che all'epoca del mio scritto non avevo ancora capito in che modo il navigatore ci fosse riuscito, non c'era, ripeto, il motivo per cui parlare di quella evidenza. Non so se ho sbagliato o meno nel non averne parlato, ma questo è il motivo.
Detto ciò, cominciamo la ricerca col raccontare di cosa parla Erodoto nel paragrafo 43 del IV libro delle sue “Storie”.
In quel paragrafo, lo storico riporta una storia che raccontavano i cartaginesi in cui si parla di un persiano di nome Sataspe che, per non essere impalato poiché aveva fatto violenza ad una vergine, doveva fare il giro completo della Libia (così veniva chiamata, allora, l'Africa), che, però, non facendolo per intero, venne impalato. Ma c'è un punto in cui il paragrafo recita: «...Sataspe fece vela verso le colonne d'Ercole. Oltrepassatele e doppiato il promontorio di Libia che si chiama Solunte (ma nella versione in greco è scritto Solòeis ), puntò verso mezzogiorno (meridione)». Ebbene, questo passo in grassetto, da un lato fa capire che un promontorio col nome Solòeis, oltre che essere sconosciuto ai cartaginesi, come si capisce da Annone quando, nel 3° passo dice: «...raggiungemmo Solòeis, un promontorio libico folto di alberi» e non: «...raggiungemmo il promontorio Solòeis» (se conosciuto, era scontato che i cartaginesi sapessero che Solòeis fosse un promontorio e anche libico), il promontorio suddetto, non è mai esistito (come ho già detto nel mio scritto), è stato inventato dal navigatore cartaginese. E ciò che mi ha indotto ad affermarlo è il fatto che, varcato lo stretto di Gibilterra (se il viaggio si fosse svolto nell'Atlantico), e dato per buono che Annone costeggi l'Africa verso meridione benché non lo scriva, quando, nel 2° passo, dice: « navigammo nel mare esterno per due giorni», e anche a prescindere dal fatto che il promontorio Solòeis si trovi o meno all'altro capo di un golfo abbastanza profondo, il promontorio suddetto sarebbe posizionato a occidente di una città (Timiaterio) che è stata fondata dopo aver navigato verso meridione più o meno per due giorni; mentre i cartaginesi, nel passo di Erodoto (precedentemente riportato in grassetto), fanno capire, chiaramente, che si va verso meridione solamente dopo Solòeis. Se, invece, non sorvoliamo su quel “verso meridione” non scritto, Solòeis non si saprebbe dove cercarlo. Infatti Annone, varcato lo stretto di Gibilterra, avrebbe navigato nel mare esterno per due giorni, fondato Timiaterio e raggiunto Solòeis, procedendo da oriente verso occidente. Ma Annone, avrebbe navigato procedendo da oriente verso occidente, solo se non avesse detto , nel 3° passo,: «Salpati poi verso occidente ». Infatti Annone, dal momento che, come recita sempre il 3° passo, raggiunge Solòeis salpando verso occidente , con quella frase, fa capire che, prima di salpare verso quel promontorio, non navigava da oriente verso occidente , ma da una direzione diversa, da nord a sud o viceversa. E lo si capisce, anche, nella versione in toscano di G. B. Ramusio:« Dipoi, volgendoci verso ponente, giungemmo ad un promontorio dell'Africa detto Soloente...». Quindi, non navigando, Annone, da oriente verso occidente , non si saprebbe dove egli abbia fondato Timiaterio e di conseguenza non si saprebbe neanche dove si trovi Solòeis, dato che è dopo aver fondato quella città che il navigatore è salpato verso quel promontorio. Dunque, un promontorio col nome Solòeis si troverebbe, solamente, nella mente del navigatore cartaginese. Dall'altro, il passo di Erodoto pone un interrogativo importante: anche lasciando da parte il fatto che un promontorio col nome Solòeis sia esistito o meno, perché i cartaginesi collocano quel promontorio oltre lo stretto di Gibilterra? Se Annone doveva andare oltre le colonne d'Ercole, i cartaginesi avrebbero dovuto posizionare quel promontorio in qualche punto dell'Africa bagnata dal mare interno greco. Se, invece, avessero scoperto dove in realtà Annone è andato, Solòeis sarebbe stato, ovviamente, il promontorio di Sidi Ali El Mekki (Capo Farina). Come è possibile, allora? Le persone contrarie alla mia teoria diranno che la risposta è evidente: le colonne d'Ercole erano, anche al tempo di Annone, nello stretto di Gibilterra. Ma, come vedremo, le colonne d'Ercole sono lì a Gibilterra a causa di una convinzione diffusa tra i greci e persone di cultura greca, nata dalla credenza, sempre da parte dei greci, di ritenere che oltre le colonne d'Ercole ci fosse il mare esterno: se oltre uno stretto c'è il mare esterno, quello è lo stretto delle colonne d'Ercole. E questa convinzione ce la suggerisce proprio il viaggio di Annone. Cosa c'era scritto nel testo originale, in punico, di quel viaggio (di cui ci è pervenuta solo la traduzione in greco), “colonne d'Ercole” o qualcos'altro? Se, infatti, ipotizziamo che, come credo, ci fosse scritto “stretto ”anziché “colonne d'Ercole”, tutto è più chiaro. Il traduttore in greco del testo di Annone, quando si imbatte, più volte, in quel termine “stretto”, forte di quella convinzione suddetta, lo traduce “colonne d'Ercole ”. Lo traduce, però, scrivendo, tutte le volte, solamente “colonne d'Ercole” o “colonne”. Lo fa per sintetizzare una frase e cioè per non dover scrivere, per esempio, ogni qualvolta gli si presenti davanti quel termine,: «tizio è andato oltre lo stretto delle colonne d'Ercole», e arrivando, in questo modo, a trasformare, per comodità, il termine “stretto” come sinonimo di “colonne d'Ercole”. E con quella traduzione suddetta si scopre, così, che ad Annone non è stato ordinato di andare oltre le colonne d'Ercole, dove, per secoli, il testo in greco ci ha sempre indirizzato, bensì oltre uno “stretto”, quello di Gibilterra. Il primo passo del viaggio è un'introduzione, non di Annone, ma, sicuramente, del traduttore stesso e, quindi, quel primo:« navigò fuori le Colonne d'Eracle», è una conseguenza delle due traduzioni del termine “stretto ” in “colonne d'Ercole” e “colonne”, che si trovano, rispettivamente, nel 2°e in quel fatidico 8°passo (ma se anche fosse un'introduzione di Annone, il risultato sarebbe sempre lo stesso: “stretto” tradotto “Colonne d'Eracle”). Se, come credo, nel 2° passo del testo originale c'era scritto:« Così salpati, superammo lo stretto e navigammo nel mare esterno per due giorni...» anziché: «Così salpati, superammo le colonne d'Ercole e navigammo nel mare esterno...» non è più così strano che i cartaginesi, nel passo di Erodoto su citato, abbiano posizionato Solòeis oltre lo stretto di Gibilterra. Passiamo, ora, a quel fatidico 8° passo in cui si trova quella evidenza di cui ho parlato all'inizio dello scritto, e, sempre di essa, non avevo discusso a suo tempo, ma che, adesso, sia che abbia sbagliato o meno, in ogni caso bisogna parlarne. Perché è proprio in quella evidenza che si trova la prova della traduzione suddetta. Infatti, Annone, è solo se avesse scritto “colonne ” che avrebbe fatto sicuramente capire ai senatori cartaginesi, come ho scritto più su, di quali posti stesse parlando; avrebbe fatto sicuramente capire loro, quindi, che, oltre a non essere andato dove gli hanno ordinato, cioè oltre lo stretto di Gibilterra, lui, Annone, è andato addirittura in luoghi in cui essi, i cartaginesi, sono di casa. Per questo motivo, Annone, in quell'8° passo non avrebbe mai potuto scrivere “colonne”. Scrisse, invece, astutamente e solamente, “stretto”. Scrisse astutamente e solamente “stretto ”, perché, in questo modo, i cartaginesi avrebbero capito lo “stretto” che li metteva in comunicazione con il mare esterno, cioè quello di Gibilterra, e, di conseguenza, non avrebbero capito che si riferiva, invece, ad un altro “stretto”, quello delle “colonne d'Ercole ” (le colonne d'Ercole, infatti, si trovano in uno stretto). Allo stesso tempo, in questo modo, viene anche alla luce che è sempre per il fatto che scrisse astutamente e solamente “stretto ” che Annone è riuscito a non farsi scoprire. E così il traduttore, imbattendosi una seconda volta nel termine “stretto”, lo traduce “colonne”, ignorando, tuttavia, che Annone si riferiva proprio a quello delle “colonne d'Ercole”, trasformando, in questo modo, un capolavoro della messa in scena in un resoconto ingenuo e autolesionista. Il testo originale, sicuramente, recitava così: «Presi degli interpreti dai lissiti, costeggiammo il deserto per due giorni verso meridione; e, da quel punto, di nuovo verso oriente per un giorno. Lì trovammo, in fondo a un golfo, una piccola isola, del perimetro di cinque stadi, che abbiamo colonizzato dandole il nome di Cerne. E abbiamo fatto la supposizione che essa si trovasse, rispetto al periplo (qui, come già detto, si guarda bene dal dire di quale periplo si tratti), alla stessa altezza di Cartagine: infatti ci sembrò uguale la navigazione da Cartagine allo stretto e da lì a Cerne».
E così tutto quadra, anche per i cartaginesi, convinti che Solòeis, Cerne e tutti gli altri posti si trovino oltre lo stretto di Gibilterra.

Nessuna parte dello scritto può essere riprodotta o utilizzata in alcuna forma senza l’autorizzazione dell’autore. Ogni violazione sarà perseguita a termini di legge.

La seconda parte sarà pubblicata domani.
Immagine di webalice.it

lunedì 20 giugno 2011

Video su Viaggio nella Storia a Seulo e Sadali.

Grazie all'amico Giancarlo Musante, che mi ha inviato il prezioso contributo, vi offro un video sulla giornata di ieri a Seulo e Sadali. Viaggio nella Storia riprenderà in Autunno con le escursioni guidate a Sant'Antioco, Gesturi, Laconi e altri siti in via di definizione.

Viaggio nella Storia, Seulo e Sadali


Si è svolto Domenica 19 Giugno a Seulo e Sadali l’appuntamento con la rassegna culturale “Viaggio nella Storia” organizzata dall'associazione "Riprendiamoci la Sardegna" e curata da Pierluigi Montalbano, in collaborazione con i docenti dell’Università di Cagliari, giunta alla terza edizione consecutiva.
La giornata è iniziata alle 11.00 nella sala conferenze della biblioteca di Seulo. Pierluigi Montalbano ha esposto una relazione sulla civiltà nuragica, affrontando le proposte degli studiosi sui temi riguardanti le ceramiche incise, la funzione dei nuraghe, le architetture, le sepolture e la bronzistica, con una nota di approfondimento sui commerci con le altre civiltà mediterranee.


Al termine della relazione, prima del pranzo, è stato mostrato un filmato con i luoghi più suggestivi del territorio di Seulo, illustrato dal responsabile della Biblioteca comunale.
Alle 13.00 il gruppo è stato accolto all’agriturismo “Su Zippiri”, immerso nei boschi delle montagne circostanti il paese barbaricino. Il menù tipico è iniziato con l’assaggio del casu ajedu (formaggio bianco fresco acididulo) ed è proseguito con salumi locali, coratella, culurgionis, pecora in cappotto, maialetto, verdure, frutta, dolci sardi, caffè e liquori, per concludersi con gli assaggi di miele locale e torrone di Seulo.
Alle 16.30 i partecipanti, con una lunga passeggiata nei boschi, hanno visitato Su Stampu ‘e su Turrunu, è una singolare cascata immersa nel verde fitto della foresta di Addolì al confine tra i territori di Seùlo e Sadali. È uno dei monumenti naturali che rendono la Sardegna orgogliosa di potersi fregiare di una diversità del paesaggio davvero unica. Si assiste ad un fenomeno carsico di straordinaria bellezza.

L’acqua, attrice principale di questo ambiente naturale suggestivo, ha scavato, sullo strapiombo di una parete calcarea, un inghiottitoio dove l’acqua dopo essersi tuffata da un’altezza di circa 8 metri riappare magicamente in un grotta con al centro un laghetto ampio e trasparente.


Alle 18.00 la carovana ha raggiunto Sadali, dove Barbara, la guida locale, ha accompagnato il gruppo attraverso il centro storico, situato nella parte bassa del paese, raggiungibile percorrendo la caratteristica via Roma in cui confluiscono delle stradine secondarie che portavano ai vari rioni che caratterizzavano il paese nell'antichità. Il percorso è reso accattivante dal perenne gorgoglio dell'acqua che alimenta la cascata, il mulino e le numerose fontane. La particolare caratteristica del centro storico di Sadali è che sorge sopra il corso di un fiume che è possibile ammirare quando confluisce nella grotta "Sa Ucca Manna".

Su entrambi i lati del fiume si notano le antiche casette in pietra con portoni e finestre in legno e ornamentali balconcini in ferro battuto. Nel centro storico i partecipanti hanno visitato il mulino ad acqua, situato accanto alla splendida cascata.

Secondo fonti storiche era il primo mezzo meccanico costruito a Sadali per sfruttare la forza motrice delle acque del centro abitato. Costruito alla fine del 1600 da Don Salvatore Locci, si presenta costituito in gran parte da materiale ligneo, ad eccezione degli ingranaggi, che sono in ferro.

Ultima tappa, sempre nel centro storico di Sadali, è stata la bella chiesa di San Valentino risente dei cinque periodi storici e stilistici attraverso i quali è giunta fino a noi; fra la seconda metà del IX secolo e la prima metà del X secolo, fu edificato il nucleo centrale in stile tardo bizantino, durante la prima metà del XIV secolo la chiesa risentì dell'influenza dello stile gotico aragonese, visibile in special modo nel portale ogivale, ornato da graziose colonnine sorrette da peducci a decoro vegetale. Intorno al 1700 all'edificio fu aggiunta una cappella, e nei secoli successivi, se ne aggiunsero altre.


Nella prima metà del 1900 un nuovo campanile fu aggiunto a quello a vela.

venerdì 17 giugno 2011

Arte buddhista birmana. Mostra al Museo Cardu di Cagliari



La collezione Canese.
di Ruben Fais

Il Museo d’arte siamese “Stefano Cardu” espone un’importante collezione d’arte birmana, concessa in deposito dal proprietario Silvio Canese e da sua moglie Erika. Le opere un tempo appartenevano ad Antonio Gallo, raccolte amorevolmente da quest’ultimo durante gli anni della sua permanenza in Myanmar in qualità di console vicario. L’incontro di chi scrive con i collezionisti e la scoperta della collezione, sono stati il risultato di eventi casuali e di fortunate coincidenze. Nonostante ciò, la reciproca profonda fiducia e la stima professionale, ci hanno convinto a intraprendere un percorso, a volte non facile, che si è concluso con l’emozionante arrivo a Cagliari delle opere, e la recente e suggestiva inaugurazione della collazione nell’aprile del 2011, nei locali del Museo. Viva e palpabile l’emozione davanti allo splendore delle opere, che hanno ricompensato la fatica e l’impegno di tutti coloro che hanno contribuito all’evento.
Il nostro consiglio di acquisire le opere, invocato sin dal 2009 e favorevolmente accolto dal museo cagliaritano, si basa su motivazioni di diversa natura. La raccolta difatti si rivela preziosa in quanto costituisce un corpus omogeneo per provenienza e contenuti. Il materiale è pervenuto in buono stato di conservazione, nonostante le normali lacune e le relative rughe del tempo, tipiche di antichi oggetti di provenienza archeologica e realizzati in materiali deperibili.

La collezione è composta da manufatti di alta qualità esecutiva, datati tra il XVIII e il XIX secolo. Le opere provengono in buona parte dal regno Shan e da quello costiero di Arakan, regioni e manifatture periferiche birmane meno note e studiate, caratterizzate da un’eleganza più sobria e rigorosa rispetto all’arte coeva più documentata e fastosa, prodotta nella capitale Mandalay (1885-1912). È necessario tenere presente che le scuole birmane più antiche hanno restituito pochissimi esemplari di statuaria. Pertanto le opere dei periodi pur più tardi, rappresentano comunque una documentazione preziosa e rara. A questo proposito afferma Boisselier: “Quest’arte rimane pertanto una delle meno note e delle più sommariamente studiate di tutta l’Asia sud orientale. Oltre al fatto che la maggior parte delle ricerche e delle pubblicazioni si siano concentrate sulla straordinaria ricchezza del sito e sull’intensa attività del periodo di Pagān (1044-1287), tutto un complesso di fattori sembrano essersi riuniti per contrastare il progresso degli studi. Gli uni sono di ordine scientifico, gli altri pratici. A causa di questi diversi fattori la storia dell’arte della Birmania è certamente quella che, ad eccezione di periodi relativamente brevi, presenta nella maggior parte dei casi le più gravi lacune e la documentazione più insufficiente di tutta l’Asia sud orientale“ (Boisselier J., Il sud est asiatico, Torino 1986 p. 29).
Tale situazione perdura ancora oggi per la grave dittatura che affligge il paese, e che rende difficile, se non quasi impossibile, la visione dell’arte birmana fuori dai suoi confini.
Alla luce di tali considerazioni, in occasione dell’inaugurazione dell’esposizione della sezione birmana, presentiamo i preziosi risultati di uno studio preliminare delle opere, che sarà certo ampliato e approfondito in futuro e in altra sede. Va segnalato che, in occasione dell’inaugurazione, i dati sulla collezione divulgati dall’amministrazione del museo sulla stampa e su vari siti web, consistono in autonome rielaborazioni estrapolate dal presente studio.

Il fondo Canese è composto da trenta sculture in pietra, bronzo, lacca e legno di teak, comprendenti immagini stanti e assise del Buddha, due copie di nat, vasi in lacca per offerte, ventagli cerimoniali, punzoni per tatuaggi, e cinque manoscritti buddhisti. La scultura buddhista è composta da raffigurazioni del Buddha dell’epoca di Konbaung (1752-1885) e di Mandalay (1885-1912), di scuola Shan e Arakan. Costituiscono il nucleo probabilmente più antico, sei piccoli bronzi con tracce di doratura, raffiguranti i Buddha del passato, assisi ognuno sotto un differente albero della Bodhi, e ritratti nel gesto della bhūmisparśa-mudrā. Ogni evo cosmico nasce un Buddha sulla terra per indicare a tutte le creature la via della liberazione. I Buddha del passato, in origine sette, arrivano a diventare ventotto in Birmania. I bronzi sono stati rinvenuti tra le fondamenta di stūpa in rovina, e pertanto presentano lacune tipiche degli manufatti di scavo.

Tuttavia, se lo stile riflette le caratteristiche dell’arte Shan, resta difficile datare con precisione queste opere, in quanto vengono realizzati con continuità dal XIV sino al XIX secolo.
Le immagini stanti del Beato, sobrie e lineari, sono in legno di teak dipinto. Presentano un’acconciatura con un’alta fascia sopra la fronte, mentre riccioli dipinti in nero ricoprono il capo e l’alto uşnīşa troncoconico. La carnagione è dipinta in bianco, mentre gli occhi sono elegantemente delineati in nero. Indossano un pesante uttarasaňgha giallo zafferano, che copre entrambe le spalle, e ricade lungo il corpo con pieghe a piombo, rigide e pesanti. Entrambe le braccia sono distese lungo i fianchi, con il palmo della mano rivolto verso il corpo. Questa mudrā compare nelle immagini laotiane sin dal XV secolo, e si utilizza in Birmania dal XVII ove diventa particolarmente diffusa nell’epoca di Mandalay. In quelle regioni, l’immagine è intesa come il Buddha che svela i tre mondi, al momento della discesa dal Paradiso dei Trentatre Dei. Il Beato tende le braccia, in alto per svelare il paradiso, davanti a se per rivelare la terra, e in basso per l’inferno. Nell’immagine artistica solo l’ultima variante è tuttavia raffigurata. Tale iconografia viene altresì interpretata come il Buddha che prega per la pioggia, soprattutto nelle regioni liminali laotiane e vietnamite.

Tra queste immagini stanti spicca un raro gruppo, proveniente dalla regione di Sittwe, composto da un Buddha e quattro monaci, di altezza digradante. Ognuno regge con entrambe le mani, la ciotola per le elemosine. La figura del Buddha mostra la vitarka mudrā, il gesto dell’argomentazione. Il gruppo in origine era composto da cinque monaci, ma l’ultimo, il più piccolo di statura, non è pervenuto. Di grande qualità è la realizzazione delle espressioni e dei tratti dei volti, in particolare dei quattro monaci, che a differenza del viso convenzionale del Beato, presentano caratteri fisionomici più individualizzati e differenziati.
Di particolare interesse è una scultura in legno di teak dipinto, proveniente dalla regione costiera di Arakan. Rappresenta una figura femminile sdraiata sul fianco e, accanto a lei, si trova un neonato. La donna indossa un copricapo nero, una veste verde, hta mein, con un foulard ricamato al centro, kha tin hto. Un drappo rosso ricopre la parte inferiore del suo corpo e di quello del bimbo, mentre i volti di entrambe le figure sono dipinti di bianco. Il gruppo, in legno di teck, interpretato per la prima volta da chi scrive, raffigura probabilmente la nascita di Rāhula, vincolo, il figlio del Beato, nato la stessa notte durante la quale Siddhārta lascerà la vita mondana per cercare la via della liberazione. La medesima iconografia, originaria dell’India brahmanica e di probabile influsso Pāla, si ritrova su manoscritti, sculture, pitture e lacche birmane e thailandesi, tra il XVIII e il XIX secolo, che rappresentano l’episodio della vita del Buddha detto Grande Rinuncia. In quelle rappresentazioni, Siddhārta compare sempre distante dai due dormienti, ai lati della scena o, se al centro, in secondo piano rispetto alla moglie e al figlio.


Due immagini in calcite, provenienti da Mruk-U, nella regione di Arakan, mostrano il Buddha assiso in vajrāsana, nel gesto della bhūmisparśa-mudrā. Le immagini, mostrano lo stile dell’epoca di Mandalay. Indossano un uttarasaňga dorato, riccamente panneggiato, che lascia scoperta la spalla destra, sulla quale si appoggia un lembo della veste, secondo la moda delle scuole Shan. Il collo molto corto, i volti ampi e i lobi allungati, riprendono l’antico stile di Pagān (1044-1287), secondo una consuetudine tipica del XIX secolo. I volti sono dipinti in bianco, occhi e sopraciglia in nero, labbra e unghie in rosa. L’acconciatura presenta una fascia dorata, e riccioli dipinti in nero che ricoprono l’uşnīşa troncoconico. I colori sono dovuti a recenti ridipinture rituali, operate periodicamente dai monaci. Le due immagini siedono su alti troni, sui quali è scolpito a bassorilievo, un episodio della vita del Beato. Sul primo troviamo il Buddha Dīpańkara al centro, seguito da tre monaci. Tutti recano in mano una ciotola per le elemosine. Inchinato davanti al Beato si trova Sumedha, dietro il quale, sono scolpite alcune edicole, dalle quali due figure osservano la scena. Le vesti sono dipinte in rosso e giallo, in nero le acconciature, in bianco i visi, in grigio le architetture. Sul trono della seconda immagine del Beato, è raffigurata la scena della gara dell’arco, vinta da Siddhārta, per ottenere in sposa Yaśodharā. Il principe è ritratto al centro della scena, mentre, in equilibrio sulla gamba sinistra, scocca una freccia dal grosso arco. Attorno a lui, sia seduti che stanti, sette personaggi, sontuosamente vestiti, osservano Siddhārta. Seduta all’interno di un padiglione, è forse raffigurata Yaśodharā. Sono presenti tracce di pittura rossa, verde, blu, e nera.

Di particolare valore sono due Buddha ingioiellati in legno laccato e alabastro, risalenti all’epoca di Konbaung (1752-1885) e di Mandalay (1885-1912) e molto diffusi in quei periodi. Le due immagini assise, mostrano il gesto della bhūmisparśa-mudrā. Presentano la testa, le mani e i piedi in alabastro. I tratti del volto sono dipinti, mentre il resto del corpo è in legno di teak dipinto e laccato. Indossano una veste aderente simile a una giubba, riccamente decorata con gioielli in metallo, lacca e intarsi di pasta vitrea. Le immagini indossavano probabilmente una corona conica con ali laterali, nagin, perduta in entrambe. La cintura incrociata sul petto, salwe, simbolo di regalità, deriva dalle scuole mōn di Pegu, del XV secolo, ripresa e diffusa dalla scuola di Arakan dal XVII secolo.
La lavorazione della lacca, yun, è una delle tradizioni più importanti e rappresentative dell’arte birmana dell’epoca di Konbaung e Mandalay. Con questo materiale, ricavato dalla Melanorrhea usitata, si realizzano oggetti di uso quotidiano e cerimoniale, come contenitori per le offerte, manoscritti, librerie, troni altari e statue.

La collezione annovera un’importante quanto imponente immagine del Buddha assiso in bhūmisparśa-mudrā, di scuola Shan, realizzata interamente in lacca dorata. Questa tipologia di opere, chiamata man-hpaya, prevede l’applicazione di successivi strati di lacca, modellati su una forma di argilla, che viene eliminata a opera ultimata. Il Beato indossa un uttarasaňga che lascia scoperta la spalla destra. Il tipico volto triangolare shan è incorniciato da una acconciatura scura realizzata con fitti riccioli appuntiti. L’uşnīşa presenta una base tonda e si allunga restringendosi verso l’alto, forma spesso assimilata a quella di un bocciolo di loto stilizzato. Il trono è decorato con doppia fila di boccioli di loto.
Appartiene al primo XX secolo un’immagine stante del Beato in legno ricoperto di lacca rossa. La veste è riccamente intarsiata di tessere di pasta vitrea di vari colori, mentre con le mani sorregge i lembi inferiori, aprendoli a ventaglio. L’immagine esemplifica la raffinata e ricca iconografia del Buddha della più tarda epoca di Mandalay, periodo nel quale si producono immagini di sontuosa eleganza e di estrema bellezza formale.
Pregevoli i vasi in lacca per contenere l’acqua, yei-o, offerte, hsun ok, o i vasi per le elemosine detti thabeik, posti sopra una alzata, kalat. Tipici del periodo di Mandalay, presentano una lavorazione detta thayo. La lacca, mescolata a cenere di letame di mucca, viene impastata fino ad assumere una consistenza modellabile. Con tale composto si realizzano applicazioni a rilievo, poi dorate e intarsiate di gemme o pasta vitrea, lavorazione quest’ultima chiamata hman zi shwei cha. Questi sontuosi manufatti venivano donati annualmente ai monaci dai nobili e dai sovrani, quali opere meritorie utili per la retribuzione karmica.

Il Museo ha acquisito solo cinque manoscritti, degli oltre trenta esemplari presenti nella collezione Canese, mancando cosi la possibilità di acquisire una delle più ricche collezioni private di manoscritti birmani. Le opere contengono testi buddhisti, relativi alle regole monastiche, estratti dal Vinaya Piţaka, che trattano di specifiche cerimonie o regole monastiche. Due manoscritti, detti pe-za, sono scritti su foglie di palma del tipo palmyra, (Borassus flabellifer), o talipot (Corypha umbraculifera). I testi sono stati incisi con uno stilo. Per scurire, evidenziare e proteggere i caratteri incisi, le foglie sono state trattate con un composto a base di olio, terra e fuliggine. Il titolo del testo compare sulla prima pagina, mentre sull’ultima si trova il nome dell’autore o del donatore e la data. Non sono presenti illustrazioni. I restanti tre manoscritti sono dei kammawa-sa o kammavaca, che presentano uno stile tipico della fine del XIX secolo. I fogli sono realizzati con stoffe ricoperte di lacca e dipinte in rosso, e scritti con una densa e traslucida lacca nera cotta. I caratteri quadrati, disposti su cinque, sei o sette righe, sono detti “seme di tamarindo, ma-gyi zi. Raffinate decorazioni vegetali, floreali, geometriche realizzate a foglia d’oro, shwei-zawa, compaiono ai lati del testo della prima e ultima pagina e sulle copertine, kyan. Queste ultime sono in legno di teak laccato, dorato, e decorato con divinità, o laccato a rilievo e intarsiato di pasta vitrea. Il manoscritto è custodito dentro una borsa di seta o velluto, kabalwe, e conservato dentro delle librerie, sadaik, riccamente laccate. Sia le foglie di palma che i kammavaca, al centro della pagina presentano due fori, attraverso i quali passano dei bastoncini di bambù o delle stringhe che li rilegano tra le due copertine.
Quattro folcloristiche statue di nat, di manifattura Shan, risalenti al XIX secolo, testimoniano le tradizioni ancestrali precedenti l’indianizzazione e più tardi accolte nel buddhismo. Le antiche leggende indocinesi sono popolate di inquieti spiriti di trapassati, demoni, e divinità naturali. Sono entità imprevedibili e capricciose, da ingraziarsi con riti e offerte per propiziare i raccolti, placarne l’ira e proteggersi cosi dalle disgrazie, dalle malattie e perfino dalla morte, che quelli potrebbero causare nella vita quotidiana. Amuleti, tatuaggi dalla complessa simbologia, cerimonie sciamaniche cosi come la rigorosa pratica buddhista, vengono utilizzate per allontanare i pericoli e gli spiriti negativi. In Birmania particolare venerazione è riservata a un gruppo di trentasei nat, spiriti di origine umana, particolarmente venerati, il cui elenco venne codificato dal re Anawratha (1044-1077) nell’epoca di Pagān. Quelli erano personaggi di alto rango, membri della corte reale o pretendenti al trono, morti in modo ingiusto, vittime di assassino, di malattia, di orrore e paura. La morte repentina li ha privati della possibilità di completare il cammino verso il distacco dal mondo e, pertanto, la loro mente rimane prigioniera della rabbia e di terribili pensieri per l’ingiustizia subita in vita. L’identificazione dei quattro nat raffigurati nelle quattro statue presenti nel museo, è ancora in fase di studio. I nat sono realizzati in legno di teak laccato e dorato. Indossano sontuosi abiti principeschi dei regni Shan, decorati in lacca rossa, nera e oro, colori tipici della manifattura di Kentung.
In conclusione non posso che essere profondamente grato a Silvio ed Erika per la loro generosa scelta di prestare una collezione cosi importante, rara e di grande qualità, al Museo cagliaritano, e di restituirla cosi alla pubblica fruibilità e alla ricerca scientifica, evitandone la dispersione o la distruzione. Ciò giova al Museo in quanto la collezione Canese, con le sue opere di grandi dimensioni, completa e compensa la minuta preziosità della collezione Cardu. Permette di vivacizzare lo straordinario e meritevole Museo Cardu e di renderlo produttivo con attività redditizie, attraverso eventi culturali, didattici, scientifici ed editoriali, per le scuole, gli studiosi e gli appassionati. Il Museo, per evidenziare la sua ricca rassegna di oggetti provenienti dal Siam, è denominato Museo Siamese. Tuttavia l’acquisizione della collezione birmana, amplia notevolmente gli orizzonti della fruizione. Il Museo, pertanto, può essere definito più propriamente Museo d’Arte Orientale. Quest’ultima denominazione, da un punto di vista della mediazione culturale, è più ampia ed efficace, rispetto a quella attuale di siamese, certo più specialistica ma meno comprensibile per il pubblico, e altresì poco rappresentativa degli importanti oggetti indocinesi, cinesi e giapponesi, altresì presenti nella collezione. Lo stesso Stefano Cardu, nella sua corrispondenza, definiva indifferentemente come orientale e siamese, il museo da lui fondato nel 1918.

Ai cittadini cagliaritani viene offerta la possibilità di ammirare opere provenienti da regioni lontanissime, di apprezzarne i valori estetici e culturali, e di partecipare, in modo consapevole e pur simbolico, agli eventi che si verificano nel mondo. La città di Cagliari, da parte sua, pur se non ancora scientificamente matura, a causa della grave mancanza di un insegnamento universitario relativo all’arte orientale, a fronte della presenza di un museo cosi importante, dimostra di essere sinceramente entusiasta nel sostenere la cultura di alto profilo, sempre onerosa e dispendiosa. La collocazione di una simile raccolta di opere nel Museo Cardu, si rivela una scelta oculata e felice da parte dei proprietari. Come si è detto, il Museo conserva un’importante quanto rara collezione di opere, provenienti dal Siam, prodotte tra il XVII e il XIX secolo. Nelle sue sale, si ricrea una singolare storicizzazione delle opere, prodotte nello stesso periodo, da due paesi, Siam e Birmania, che sono stati per secoli nemici irriducibili, in guerra cosi come nella ricerca della purezza del Dharma buddhista. Furono proprio gli eserciti birmani del re Hsinbyushin (1763-76) che, dopo numerosi tentativi falliti nei secoli passati, conquistarono nel 1767 la capitale siamese, Ayudhyā, e posero fine ad un regno che durava da quattrocento anni. Di rimando il celebre re siamese Rāma IV (1851-1868), si fece riordinare secondo i rituali del monachesimo buddhista birmano, considerato più vicino all’insegnamento originario del Beato. I due paesi si incontrano ancora una volta. Tuttavia, ora si osservano attraverso lo sguardo sereno dei Buddha creati dai loro artisti. I Buddha sorridono. La contesa si è spenta. Resta solo la dorata bellezza e la luminosa saggezza che quei popoli hanno concepito.

Testo tratto da :
Ruben Fais, Birmania. La collezione Canese, Cagliari 2011

Tutte le immagini sono coperte da copyright (proprietà del museo) e sono state scattate al Museo Cardu in occasione dell'inaugurazione.

Bronzetti nuragici: Fromboliere e lottatori


Fromboliere e lottatori
Il personaggio, alto 15 cm, proveniente da Monti Arcosu nel comune di Uta ed esposto al museo di Cagliari, presenta una fune attorcigliata afferrata con entrambe le mani strette a pugno. In realtà manca l’alloggiamento per l’oggetto da scagliare, ritengo quindi che non si tratti di un fromboliere. Proporrei un’ipotesi più realistica affermando che si tratta, invece, di un marinaio addetto alle corde delle vele o all’imbragatura degli oggetti riposti nelle stive delle navi. Un’ipotesi suggestiva potrebbe essere quella di vederlo come boia nell’attimo precedente l’esecuzione della condanna, ma visto che Lilliu propone un guerriero (classificato n° 8 del suo libro del 1966) mi terrò vicino alla sua prima proposta di fromboliere concordando su una poco dettagliata esecuzione da parte dell’artigiano che ha omesso di aggiungere la base nella quale inserire il proiettile, anche se rimane senza spiegazione la legatura a treccia: una fionda dovrebbe essere libera da nodi.

Il copricapo è a calotta liscia e sulle orecchie e sulla nuca si nota una corona di corti capelli. Il personaggio indossa una tunica senza maniche dalla quale, nella parte inferiore, spunta una sorta di pantaloncino corto guarnito da due frange. La consueta fascia a tracolla sostiene il pugnale ad elsa gammata. Naso triangolare, occhi a mandorla e pomo d’Adamo completano i dettagli di questo bronzetto. Dallo stesso sito di Monti Arcosu provengono alcuni personaggi abbigliati allo stesso modo ma privi di fune. Lilliu li classifica “Oranti” (n° 9, 1966) e “Lottatori” (n° 10, 1966).

Hanno dimensioni comprese fra 11 e 15 cm e sono anch’essi conservati al museo di Cagliari. Tutte le statuine mostrano la frattura dei perni con i quali erano attaccati ai supporti e dai quali sono stati strappati.

Immagini tratte da Lilliu, 1966, Sculture della Sardegna Nuragica

giovedì 16 giugno 2011

Appuntamenti culturali




Ecco i prossimi appuntamenti culturali organizzati in Sardegna. Cliccare sulle immagini per ingrandire le locandine.

Dall'alto verso il basso:







La civiltà Nuragica - Seulo 19 Giugno - Biblioteca comunale ore 10.45

















I Bastioni di Cagliari - Sabato 18 Giugno - Chiesa San Sebastiano - Via Castiglione ore 18.00
















Le erbe del solstizio d'estate - Sanluri 25 Giugno - locali ex-Montegranatico ore 18.00