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giovedì 31 marzo 2011

Perché nella Sardegna del Bronzo si costruirono i nuraghe?


Parliamo di nuraghe: perché il primo?
di Desi Satta


Su questa domanda ci si può sbizzarrire, però c’è un’ipotesi intrigante: che i nuraghe a corridoio abbiano preceduto la prima torre. Gli archeologi, sebbene le prove stratigrafiche siano lontane dall’indicarlo in modo indiscutibile, ne paiono convinti (ed effettivamente è un’ipotesi assai ragionevole). Se così fosse, l’avvento della prima torre apparirebbe assai meno improvviso di come tanti sembrano ritenere.
Si tratterebbe allora di porsi il problema della comparsa dei nuraghe a corridoio, ma, in questo caso, si tratterebbe di un chiaro esempio di proprietà emergente da un progressivo mutare della stratificazione sociale delle comunità neolitiche, con la formazione di una “classe elevata” che rivendica una posizione di prestigio attraverso l’edificazione di un edifico ad un tempo abitazione e simbolo di status, la stessa che, in un secondo momento, richiederà la costruzione di una torre. Il nuraghe a corridoio, stratigrafie alla mano, mostra lo stesso tipo di accumulo antropico delle torri, senza eccezione, indicando che funzione e senso dovevano essere gli stessi.
Posta in questi termini, la comparsa della torre non appare più come una cesura, piuttosto come un’evoluzione, anche se, apparentemente, parrebbe rimanere il problema delle differenze architettoniche tra le due tipologie di edifici (ne riparleremo oltre).
Allo stesso modo, la sovrapposizione delle tipologie stratigrafiche tra nuraghe a corridoio e torri, indicandone la medesima funzione e senso, chiarisce come le strampalate ipotesi che vorrebbero i nuraghe dei templi o degli edifici di mero carattere simbolico, sia da scartare (pur sottolineando che l’edificio, di per sé, riveste necessariamente un forte carattere simbolico come indicatore di status e/o centro di aggregazione simbolica della comunità e/o altro).
Nell’ipotesi ragionevole che il nuraghe a corridoio preceda la torre, ci troveremmo semplicemente di fronte ad una classe dirigente che, in luogo circoscritto e preciso, decide di realizzare la prima con le medesime finalità che hanno portato all’edificazione dei precedenti edifici, immaginando, a ragione, visto il successo, che un edificio di questo tipo avrebbe maggiormente soddisfatto le proprie necessità. La prima torre venne edificata pensando semplicemente ad un edificio che avesse le stesse finalità di un nuraghe a corridoio, ma ne rappresentasse una versione “evoluta” sia in senso funzionale che simbolico.
È bene ricordare, a tale proposito, che mentre le torri ci sono pervenute praticamente intatte, salvo la struttura del ballatoio (sulla quale si discute assai spesso), i nuraghe a corridoio sono mancanti dell’eventuale struttura lignea soprastante quella in pietra, la cui percentuale rispetto all’intero edificio, non è nota. Alcune osservazioni ragionevoli (ad esempio lo stesso Lilliu a proposito di Brunku Madugui), suggeriscono che ciò che noi chiamiamo oggi nuraghe a corridoio potesse essere un basamento per un’importante struttura lignea soprastante e, se così fosse, la struttura generale della successiva torre non sarebbe concettualmente così distante da loro. Si tratterebbe di costruire interamente in pietra un edificio fino ad allora ibrido, realizzato con un basamento in pietra ed una struttura aerea in legno. Detto per inciso, ciò spiegherebbe anche perché nacquero i nuraghe a corridoio, e precisamente come evoluzione dalla semplice capanna di pietre a secco e legno. Il nuraghe a corridoio, sarebbe insomma una capanna “elevata” e di maggiori dimensioni sviluppata da un processo di diversificazione sociale riscontrabile in tutte le società neolitiche.
A questo proposito, ho sentito spesso invocare l’argomento che mancherebbero gli edifici intermedi tra nuraghe a corridoio e torre, e da ciò la conclusione che si tratti per questo di edifici privi di un legame sia funzionale che architettonico. Tale argomento cade di fronte alla constatazione che non si può costruire un edifico intermedio (in pietra, a secco) tra un nuraghe a corridoio ed una torre, per il semplice motivo che non starebbe in piedi: una torre realizzata in pietra a secco è un sistema complesso di conci che interagiscono, e alcune delle proprietà macroscopiche dell’edificio nel suo complesso sono proprietà emergenti indipendenti dalla volontà dei costruttori e rese necessarie da precise richieste di stabilità strutturale. Detto in altre parole, una torre nuragica non è un edifico per architetti, perché si rifiuta di adattarsi a certe richieste, imponendo forme, dimensioni e soluzioni tecniche obbligate, come cercherò di illustrare in seguito. Di certo, vista la sua testardaggine ad adattarsi a, una costruzione sarda!
Alcune precisazioni.

La teoria della complessità descrive molto bene i fenomeni come la comparsa rapida, in confronto al periodo considerato, delle torri. Se la torre è una proprietà emergente della società dell’epoca, nel senso che lo è la sua giustificazione, la comparsa della prima deve aver indotto una rapida imitazione dei vicini e la sua diffusione (fenomeno non diverso da una transizione di fase in un materiale, ad esempio una fusione). Comunemente la chiamiamo “moda” ed è appunto una delle tante proprietà emergenti “misteriose” della società umana, o almeno ritenute tali finché non si ricorre alla teoria della complessità. Il fascino di quest’ultima sta proprio nel porre accanto sistemi apparentemente assai diversi tra loro (ad esempio la società umana ed un solido) ponendone in risalto la somiglianza dei comportamenti.
A questo punto, dobbiamo domandarci se la torre richiese la creazione di nuove nozioni tecniche, la presenza di risorse particolarmente corpose, e divertirci ad immaginare come venne edificata.
Gli elementi architettonici basilari per la realizzazione di un nuraghe a corridoio e/o di una torre non erano nuovi né particolarmente rivoluzionari. La tholos, in particolare, è presente più o meno in ogni parte del mondo da tempi ben più antichi ed è una soluzione obbligata al problema di ottenere una volta chiusa in una struttura a secco circolare con uno sbraccio ampio (è una proprietà emergente di un insieme di conci che interagiscono tra loro avendo come stabilizzazione l’azione della forza di gravità e l’attrito reciproco). La precisazione è d’obbligo per puntualizzare che i sardi non inventarono nulla: posti di fronte al problema, ottennero la soluzione corretta, come tutti gli altri, prima e dopo di loro, che si trovarono nella necessità di farlo. Se la si vuol vedere in altri termini, anche se un architetto fantasioso disegnasse una torre a secco (cava) a sezione quadrata con un profilo rettangolare, non la si potrebbe costruire: i sardi torreani non “decisero” l’uso della tholos, furono obbligati!
Quanto tempo impiegarono e quanti tentativi, non è dato sapere né lo sapremo mai, tuttavia un esame delle torri giunte fino a noi ne segnala di ben realizzate, di mediocri, di eleganti, di tozze, alcune necessariamente riprese con un rifascio al fine di stabilizzarle ed evitarne il crollo. Ciò valga a sfatare il mito degli eccelsi costruttori e delle torri del cielo: sono edifici come tutti gli altri. Si và dal capolavoro alla porcheria vera e propria, tra soluzioni geniali e incomprensibili fesserie. Allora, come adesso, c’erano i costruttori bravi, quelli mediocri e quelli incapaci: spero che questi ultimi siano stati posti in condizione di non nuocere, al contrario di quanto accade oggi in Italia.
Lo sviluppo delle torri in senso tecnico, a partire da realizzazioni meno sofisticate, non è ancora stato oggetto di indagine seria e completa (sebbene esistano ipotesi assai ragionevoli, ad esempio nell’introduzione dell’elemento architettonico costituito dalla nicchia) né lo sarà nel prossimo futuro perché richiederebbe uno sforzo enorme (la datazione di una torre necessita dell’esame stratigrafico degli accumuli antropici, quindi bisognerebbe scavare un gran numero di torri). Suppongo si possa concordare col fatto che si cominciò con torri semplici e si progredì come avviene in qualunque ramo della tecnica, non senza morti, crolli, rifacimenti e tentativi successivi di cui non c’è arrivata traccia.
La torre nuragica risponde (a spanne) alle seguenti richieste del committente:
“Voglio una torre in pietra nella quale si possa risiedere, con una scala interna che acceda ad un ballatoio superiore praticabile”.
Di fronte a queste richieste, non si può che ottenere una torre nuragica, per il motivo ovvio che non esistono altre soluzioni: la dimensione della torre ed i fattori di forma – cioè i rapporti tra le dimensioni – risultano inoltre assai ristretti. I nuraghe sembrano tutti uguali (e nelle linee generali lo sono) perché non è possibile altrimenti. Se non fosse così, non si potrebbe costruirli. Resta inteso che ciascuna torre, naturalmente, appare differente da qualunque altra nei dettagli, spesso non secondari, il che rafforza per l’appunto l’assunto che si sia trattato di atti costruttivi isolati e non coordinati.
Per chiarire (ahimè solo in parte) il concetto, sarà bene precisare che la dimensione di una torre cava a secco (diametro per altezza) dipende dalle dimensioni dei conci che si riesce a mettere in opera. Con i granelli di sabbia si può costruire una torre da osservare al microscopio, con conci di un metro cubo (possibilmente di forma allungata e di volume decrescente verso l’alto) una torre (cava) alta una ventina di metri.
La distribuzione statistica delle dimensioni e dei parametri di forma delle torri risulta ristretta proprio per questo: i nostri antenati massimizzarono ciò che può essere ottenuto dalle capacità di messa in opera che avevano. Disponendo essenzialmente di forza muscolare umana ed animale, di utensili di bronzo e pietra per la sbozzatura dei conci e di sistemi di cordami e legno, sistemi presenti nel bagaglio culturale delle società umane da millenni, quando decisero di realizzare la prima torre dovettero semplicemente mettere in pratica, in un progetto appena più ambizioso di un nuraghe a corridoio, il bagaglio di conoscenze che avevano già. Ci provarono un po’ di volte, e tirarono su la prima torre. Da quella, le altre. (Esistono comunque nuraghe a corridoio dotati di ambienti interni con copertura a tholos).
Quale fu la modalità di trasporto sollevamento e messa in opera dei conci?
Premesso anche in questo caso che non conosceremo mai i dettagli per mancanza di fonti storiche o iconografiche, possiamo tuttavia scartare le ipotesi che non vengano presentate sotto forma di catena operative (o tradotte in esperimento sul campo) e vagliate in ogni singolo passo della sequenza.
Esistono due principi generali per scartare un’ipotesi: l’inapplicabilità di un metodo o la poca convenienza “economica” del risultato.
Nella prima categoria si situa la curiosa ipotesi che vorrebbe la torre realizzata utilizzando una sorta di rampa “interna” alla stessa torre, un camminamento posizionato sul contorno esterno. Una verifica in termini di catena operativa, lo rende inattuabile per ragioni meramente geometriche. A questo proposito, si potrebbe chiedere a coloro che optano per questa palese assurdità di compilare una catena operativa per una torre del tipo Sa domu ‘e su Re di Torralba, o anche semplicemente per un monotorre – presumibilmente arcaico – privo di scala ed altri vani accessori.
L’ipotesi della “rampa esterna” al contrario, potenzialmente percorribile, risulta impraticabile da un punto di vista “economico” (vale il commento precedente per la torre di Torralba), poiché le dimensioni della rampa avrebbero richiesto, sia per la costruzione che per la successiva demolizione, tempi e risorse superiori a quelli richiesti per l’intera torre. L’uso di una rampa si giustifica (in mancanza di soluzioni alternative praticabili) solo se il volume della stessa è una frazione trascurabile del fabbricato o se lo stesso ne può contenere una parte rilevante (cosa che non accade per la torre) o se si dispone di risorse assi elevate in rapporto ai volumi da movimentare (ad esempio gli obelischi dell’antico Egitto, da decine di tonnellate, o i massicci architravi dei templi).

Nelle immagini: il nuraghe Erigranzanu, (purtroppo aggredito da un grosso albero e destinato alla distruzione), e il nuraghe Santa Cristina avvolto dalle piant

mercoledì 30 marzo 2011

Necropoli villanoviane


Verucchio. Emergono scoperte eclatanti dalla necropoli
di Martina Calogero

Nel 2012 Verucchio ha ospitato l’incontro internazionale “Immagini di uomini e donne dalle necropoli villanoviane” per fare il punto sulle clamorose scoperte e sugli studi interdisciplinari nati dai recenti scavi archeologici che hanno indagato le necropoli di Verucchio. Tra ostentazione di ricchezza, orgoglio di casta e culto dell’immagine, gli aristocratici che comandavano Verucchio sapevano bene come farsi identificare. Fossero donne di rango o guerrieri, questi villanoviani risolsero la differenza tra simboli del potere e prestigio sociale, riflettendo negli oggetti posseduti e messi in mostra un codice di dominio condiviso e compreso dai loro pari.
La ricchezza delle tombe, la scelta e la disposizione degli oggetti dei corredi, i complessi rituali funebri tramandavano un messaggio forte e inequivocabile per ricordare chi erano e cosa erano destinati ad essere i signori di Verucchio. Il sito di Verucchio ha offerto molte informazioni sull’età del ferro in Italia e le nuove informazioni emerse dall’ultima campagna di scavo, effettuata con le tecnologie di ricerca più moderne, hanno aperto nuovi scenari e dato vita a stupefacenti ipotesi interpretative.
Questi sono stati i temi sui cui si sono confrontati i più famosi studiosi di protostoria durante l’incontro internazionale a Verucchio, organizzato dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna e dal Comune di Verucchio con l’intenzione di rendere note le stupefacenti scoperte emerse negli ultimi cinque anni e valutare con archeologi, antropologi, chimici, botanici e specialisti della metallurgia antica le possibili strade da percorrere nella ricerca.
I corredi funebri dei villanoviani che vissero a Verucchio tra l’ottavo e il settimo secolo a.C. trasmettono tutt’oggi ruoli, identità e funzioni di una classe dominante che si racconta attraverso le proprie cerimonie funerarie. Troni, abiti, armi e gioielli di grandissimo valore, rappresentano spesso pezzi unici, testimonianze straordinarie che tramandano preziose informazioni sia sull’abilità degli artigiani che li realizzarono che sul prestigio dei committenti.
Le ricerche archeologiche – condotte fra il 1969 e il 1972 e riprese organicamente e continuativamente dal 2005 ad oggi – hanno portato alla luce seicento tombe, risalenti a un periodo compreso tra il nono e il settimo a.C., ripartite in quattro sepolcreti. Gli studiosi sono quasi sicuri che l’utilizzo di questi sepolcreti fosse prerogativa delle famiglie aristocratiche: lo testimonia il numero complessivo delle tombe, ridotto in relazione a quello delle generazioni che le hanno usate, e in particolare le caratteristiche delle tombe, ricche di elementi che indicano potere, rango e ricchezza.

Gli scavi archeologici hanno ritrovato migliaia di pregiati oggetti in bronzo, ferro, vimini, legno e ambra. Ancora più significativo del reperto in sé sono i dati che provengono dallo scavo, a prescindere dall’effettiva presenza della testimonianza, come i numerosi troni di legno a grandezza naturale, di cui si è conservata solamente la sagoma visibile nell’argilla, o le tracce dei tessuti che ricoprivano i grandi vasi che contenevano le tombe: testimonianze invisibili che con le tradizionali tecniche di scavo sarebbero stati tralasciati.
Gli antichi consideravano la sepoltura come uno strumento per trasmettere messaggi ai propri contemporanei. Gli uomini e le donne importanti che governavano Verucchio fra il nono e il settimo a.C. rafforzavano il proprio potere e davano una chiara immagine di sé attraverso le cerimonie funebri e i corredi situati nelle sepolture. Gli oggetti non venivano scelti casualmente, ma erano selezionati accuratamente e disposti seguendo regole precise. Esaminando la necropoli, i ricercatori stanno ricostruendo progressivamente queste immagini e decifrando il linguaggio simbolico.
Per esempio, è stato confermato che mentre l’urna cineraria raffigurava simbolicamente il defunto, gli oggetti bruciati nel rogo funebre rappresentavano il suo stato reale al momento del decesso. Il valore simbolico del cinerario spiega perché venisse ricoperto con abiti ingioiellati e ricamati. Nelle tombe maschili, l’urna era arricchita da armi, mentre in quelle femminili da strumenti per la tessitura: questi reperti sono sovente riproduzioni in materiali pregiati o sono inutilizzabili nella quotidianità, come le conocchie in ambra o gli elmi in lamina finissima.
L’analisi del rogo funebre riproduce quello che il defunto rappresentava realmente al momento del suo decesso. Significativo è l’esempio della sepoltura contemporanea di due bambini: la loro immagine è restituita attraverso l’armatura da futuri guerrieri, mentre l’assenza delle armi tra i manufatti posseduti realmente e bruciati significa che sono morti prima di assurgere al ruolo che gli spetta per ragioni ereditarie. Ugualmente, la rappresentazione simbolica riferita alle bambine anticipa il ruolo che sarebbe stato destinato loro da adulte.
Il convegno tratterà anche l’eccellenza della produzione artigianale e artistica. Infatti, Verucchio non costituiva solamente un centro di scambi commerciali: le indagini hanno dimostrato che vi erano botteghe di artigiani capaci di impiegare tecniche complesse e raffinate, come testimoniano le grandi fibule, forse frutto della collaborazione tra esperti del bronzo e dell’ambra. L’innovazione impiegate per risolvere il problema del peso di manufatti di dimensioni così grandi testimonia la loro grande perizia.

Fonte: Archeorivista

martedì 29 marzo 2011

Navicella bronzea a Washington


Penn Quarter Museum

Questa navicella è stata fotografata da un amico in un importante museo americano. E' indicata come navicella sarda, e ciò è di grande rilevanza perché dimostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che la nostra antica civiltà nuragica è apprezzata in tutto il mondo. Si tratta di un'imbarcazione che riporta una simbologia comune alle navicelle conservate nei musei sardi, in particolare a quella proveniente da Baunei con battagliola identica sormontata da un doppio ponte saldato, a sua volta reggente un albero con capitello a forma di nuraghe e colombella sull'anello. La battagliola è ornata da 4 torri-nuraghe ai lati e 4 cani che godono della protezione del nuraghe centrale. A poppa si notano due cervi, mentre la protome e altri due animali posti a prua sono difficilmente interpretabili. Lo scafo è di tipologia da carico che riporta le consuete proporzioni 1:3, ossia la lunghezza è circa 3 volte la larghezza. Il collo della protome è inclinato a 45° e lo stato di conservazione è ottimo.
Questa navicella era fino ad oggi non censita in alcun testo da me conosciuto, pertanto si tratta di un inedito da aggiungere alle altre 156 navicelle conosciute e pubblicate. Ringrazio Francesco per la preziosa segnalazione e invito gli esperti ad inserire anche questa bellezza sarda fra i reperti censiti ma conservati fuori dall'isola.

Gli scavi a Sant'Imbenia - Alghero


Sant’Imbenia
di Marco Rendeli


Questo articolo è il frutto di un lavoro di équipe e quindi si ritiene
che gli Autori siano tutti i partecipanti al Progetto: chi lo
ha scritto svolge solamente la funzione di portavoce.



Una palude, molta acqua, presumibilmente salmastra, troppa per un abitato. Non c’è pietra da cavare, almeno nelle vicinanze, non c’è legna per costruire, cuocere, fondere, cucinare. Non guardiamo questa parte del Golfo di Porto Conte con il moderno occhio del turista in cerca delle belle spiagge, togliamoci dalla mente strade asfaltate, automobili, case confortevoli con cucine a gas, termosifoni o pompe di calore, elettricità, la televisione, la radio e il computer, la connessione internet, ma anche lo scarponcino o le scarpe da ginnastica.

Dobbiamo essere capaci di svestirci di tutte queste cose, di sfogliare, come si sfoglia una cipolla, tutti questi elementi per cercare di comprendere ed entrare in sintonia con la vita quotidiana che 2800 anni orsono si viveva nell’abitato nuragico di Sant’Imbenia. Un viaggio nel passato che, necessariamente, deve spogliarsi di mille orpelli per poter interpretare i lenti mutamenti o le veloci trasformazioni che avvengono in questo angolo della Sardegna all’inizio del I millennio
a.C. Senza questa operazione risulterà difficile comprendere come mai questa area vasta sia stata così densamente popolata a partire da 6000 anni da oggi; perché grandi gruppi familiari allargati e piccole famiglie mononucleari hanno scommesso su questo distretto creando una rete di relazioni e di organizzazione che si estende per molti chilometri verso nord est (fino almeno alle miniere dell’Argentiera e di Canaglia) e verso sud (fino alle miniere di Calabona); come queste persone abbiano trasformato un territorio selvaggio e difficile in un paesaggio organizzato in cui la mano dell’uomo ha prodotto profondi cambiamenti di cui ancora oggi ne godiamo i frutti.
La Nurra meridionale era ed è terra di olio e di vino, terra di cereali e di allevamento di animali domestici, terra ricca di fauna selvatica, prossima a un mare pescoso e “fertile” quanto la terra, con un golfo quale quello di Porto Conte che è stata un’ottima e ampia zona di rifugio per navi in quanto protetta dai venti dominanti. In prossimità del punto più interno del Golfo di Porto Conte, sorge a partire dal XIV a.C. un nuraghe monotorre che, nel corso del tempo, diventa
punto aggregante di un villaggio che gli si dispone attorno.

Oggi raccontiamo una fase recente del palinsesto di Sant’Imbenia, un momento in cui gli abitanti modificarono in maniera consistente l’organizzazione della loro vita quotidiana, del loro insediamento e, presumiamo, anche del loro territorio. Per avere un’idea meno approssimativa della vita a S. Imbenia è necessario chiarire un punto essenziale: infatti, fino a pochi anni orsono, si riteneva che l’estensione del sito
fosse di poco superiore all’area scavata. Oggi grazie alle indagini geomagnetiche e di resistività elettrica compiute da P.J. Johnson è possibile rivedere le dimensioni del villaggio: dai 35 m ai 100 m di raggio verso nord a partire dal nuraghe. Se esso avesse una posizione centrale rispetto all’abitato ne risulterebbe un sito delle dimensioni di più di 3 ettari. Le indagini hanno messo in luce nel settore settentrionale un canale anulare: se stabiliamo una connessione cronologica
fra questo e l’abitato, potremo riconoscere in esso un limite fisico per l’espansione dell’abitato e allo stesso tempo un suo ruolo di bonifica e smaltimento delle acque che, come detto, in quest’area non dovevano mancare. Le indagini combinate di P. Johnson offrono anche altre indicazioni importanti:
capanne e altre strutture (abitative) si leggono nella pianta fino al canale anulare; la zona sottoposta a scavo sembra racchiusa da un muro che la delimita verso nord; questa recinzione ha una sua apertura nella parte occidentale. L’impressione che si desume dalla lettura della mappa è che si possa essere di fronte a un settore “delimitato” del sito che per questa sua organizzazione deve essere letto e interpretato.

I “vecchi” scavi (1982-1996)
La storia degli scavi nell’abitato nuragico di Sant’Imbenia è saldamente legata alla volontà e alla determinazione di Fulvia Lo Schiavo, allora Soprintendente per i beni archeologici per le province di Sassari e Nuoro. L’area in cui sorge il sito era (come lo è tuttora) un’area privata adibita a camping: la necessità di eseguire dei lavori al suo interno spinse nel 1982 la Soprintendenza a condurre alcuni saggi di scavo che, fin dalla prima campagna, si rivelarono assai promettenti: da allora le indagini si svolsero fino al 1996 quando furono interrotti per mancanza di fondi. La memoria storica di questa stagione di ricerche durata 15 anni, Susanna Bafico, ha intrapreso dal 2008 una ricostruzione dello sviluppo delle “vecchie” indagini per cercare di ricomporre tutte le stratigrafie e dare all’ingente mole di
materiale scoperto una sua collocazione spaziale e temporale. Le ricerche 1982-1996, anno in cui fu portata a termine la realizzazione della grande tettoia che “incombe” e protegge lo scavo, hanno messo in luce due grandi aree distinte fra loro. Una meridionale prossima al bastione che corona il nuraghe e fa da quinta scenografica a questa parte dell’abitato; una settentrionale nella quale si misero in evidenza una serie di ambienti aperti e di vani coperti più o meno collegati fra loro. Nel settore meridionale è degna di menzione una sorta di insula composta da una serie di aree aperte e ambienti chiusi che compongono un’unica unità apparentemente abitativa.

L’accesso avveniva attraverso un ingresso posto lungo uno stretto stradello lungo il bastione del nuraghe: da esso si entra in un ambiente aperto connotato dalla presenza di un pozzo e di una sorta di bacino che era in comunicazione con una lunga canaletta che portava l’acqua nella capanna con le nicchie posta all’estremità occidentale del complesso. L’atrio dava accesso a due ambienti coperti che risultano essere chiaramente una commistione di più antichi modelli edilizi a pianta circolare “ristrutturati” con tramezzi rettilinei. A oriente dell’insula vi è l’unica capanna circolare sopravvissuta come struttura a se stante, la cosiddetta capanna dei ripostigli. Questa capanna, messa in luce nel 1990, ha evidenziato la presenza di due pavimenti: il più recente, costituito da lastrine messe di piatto, “nascondeva” al di sotto un’anfora di influenza fenicia coloniale che aveva al suo interno 43 kg di panelle di rame. L’anfora era alloggiata all’interno di uno strato di livellamento alto quasi un metro al di sotto del quale si scoprì un altro battuto pavimentale al cui interno vi era una seconda anfora (del tipo Sant’Imbenia) anch’essa riempita con altri 42 kg di panelle di rame e di oggetti in bronzo. Una canaletta a forma di ferro di cavallo e una vasca in pietra erano visibili in questo secondo piano. Le analisi condotte da S. Bafico alla riapertura degli scavi hanno permesso di ricollegare questi due livelli pavimentali a un cambiamento strutturale avvenuto nella capanna: infatti l’ingresso attuale della capanna, collegato al primo e più recente pavimento, non è quello originario ma appare essere l’esito di una trasformazione visibile nelle pareti accanto allo stesso.

L’ingresso più antico, che era in connessione con il secondo livello pavimentale, era rivolto verso nord: ne possiamo cogliere l’ampiezza grazie alla
tamponatura riconoscibile nel muro all’interno della stessa capanna. L’analisi dei reperti rinvenuti nel potente strato di livellamento fra i due piani pavimentali ha consentito di datare questo intervento. Tra i materiali si annovera una serie di frammenti di importazione greca e fenicia d’Oriente databili fra la
fine del IX e il primo quarto dell’VIII a.C.: una coppa a semicerchi pendenti, una “a chevrons” e una “a uccelli” di produzione euboica, una fine coppa di Samaria ware, un cooking pot di produzione fenicia testimoniano una frequentazione del sito in una fase sicuramente precedente la strutturazione coloniale levantina in Sardegna e greca nella penisola italiana. Il quadro dei “vecchi” scavi viene completato da due saggi compiuti lungo il bastione orientale del nuraghe: un saggio in profondità ha consentito di datare la fase di più antica frequentazione del complesso al XIV a.C. momento in cui, con ogni probabilità, viene costruito il nuraghe. Un altro saggio, ad esso limitrofo, ha messo in luce una porzione
di un’ampia capanna circolare, dotata di una banchina corrente attorno al perimetro interno, che è possibile interpretare come una capanna delle riunioni per similitudine con una analoga struttura presente nel vicino villaggio del nuraghe Palmavera. Questo è, brevemente e in forma assai schematica, il resoconto dei “vecchi scavi”: per le scoperte e per le implicazioni che aveva suscitato
la grande messe di dati venuti alla luce sarebbe stato possibile già fermarsi ai rinvenimenti del 1996.

Un gran numero di pubblicazioni scientifiche dedicarono ampio spazio ai ritrovamenti nell’abitato nuragico di Sant’Imbenia: la sua importanza poteva essere letta da molti punti di vista. Per coloro i quali erano interessati alle correnti di traffico commerciali del Mediterraneo nel I millennio a.C.
il sito rappresentava un tassello importante nei rapporti fra Oriente e Occidente in una fase sicuramente precedente le strutturazioni coloniali levantine e greche; per gli studiosi della Sardegna tardo nuragica testimoniava una vitalità dei rapporti fra mercanti e indigeni in una fase per la quale gli studiosi avevano decretato la fine della “bella età dei nuraghi” imponendo una serie di quesiti importanti sull’età del Ferro in Sardegna. I ripostigli con le panelle di rame e gli oggetti in
bronzo, le forme di contatto e di scambio, le forme di ospitalità offerte dagli indigeni ai mercanti che si evidenziavano in progressi tecnologici nella lavorazione della ceramica e nel recepimento di forme vascolari orientali da parte delle comunità sarde di questa area, la continuità di tali forme di commercio per più di due secoli anche attraverso le strutturazioni coloniali di Sulcis e Cartagine, per
parte levantina, e di Pithekoussai (Ischia), per la parte greca offrivano un panorama ricco di implicazioni e fortemente variegato. Quale poteva essere dunque la ragione per riprendere gli scavi in questo sito? D’altronde, a mo’ di aneddoto, nel 2007 quando annunciai la riprese delle ricerche archeologiche a Sant’Imbenia un professore e amico mi avvertì di non covare grandi aspettative perché quel che doveva essere trovato nel sito era già stato scoperto. Devo confessare che se quell’avvertimento creò un qualche sconforto, aumentò la volontà di andare avanti e di porre nuove domande a questo sito.

La ripresa delle ricerche nel 2008
Nel mese di settembre 2008 riprendemmo le ricerche sul terreno: scegliemmo, quasi per necessità, di intervenire su tutta l’area intermedia che non era stata toccata o era stata investigata in maniera marginale nel corso delle precedenti ricerche. Il lavoro per quasi due campagne complete era apparso difficile, duro, per la grande quantità di pietre di varie dimensioni che erano immerse nello strato di
humus, e in verità con poche soddisfazioni per quel che riguardava le scoperte. Nel corso dell’ultima settimana della campagna 2009, durante un tardo pomeriggio alla fine della giornata di scavo, fermandoci con alcuni colleghi ci venne un sobbalzo perché la fine dell’asportazione dell’humus e la messa in luce di uno strato di limi su tutta l’area investigata aveva evidenziato la presenza di un’ampia quanto assai strana area aperta che si estendeva per una buona metà dell’area. L’ampiezza della struttura, che appariva circoscritta da un muro sul quale si aprivano più ingressi, poneva subito importanti problemi di interpretazione non solamente della stessa ma anche di tutte le aree aperte, gli ambienti chiusi e le “insulae” che vi gravitano attorno. La campagna 2010 ha ulteriormente chiarito la funzione di questo ampio spazio aperto, all’interno del quale vi è anche un pozzo perché, soprattutto nel settore occidentale, abbiamo potuto portare alla luce un lastricato formato da grandi lastre di arenaria spesse circa 15 cm. Appare evidente come questo spazio, che ha un suo andito principale nel settore meridionale e sul quale si affacciano mediante degli ingressi ambienti chiusi e spazi aperti, non fosse privato ma fosse deputato a essere un luogo di riunione e di mercato “della comunità” e dei mercanti che arrivavano in questa parte della Sardegna. Questa sorta di piccola piazza fa parte di un programma urbanistico che è ben ancorato ai modelli dell’edilizia privata o sacra tardo nuragica come si può ben vedere a Barumini, a Sa Sedda ‘e sos Carros, a Gonnesa dove, a partire dalla tarda età del Bronzo, le capanne vengono sostituite da edifici a più vani posti attorno a uno spazio aperto.

Ciò che differenzia S. Imbenia da questi siti è la dimensione assai maggiore dello spazio aperto, non compatibile con i precedenti modelli: questa differenza può essere interpretata come l’”esplosione” di un modello privato al fine di creare uno spazio comunitario. Si tratta a ben vedere di un progetto unitario che coinvolge tutta l’area dei vecchi e nuovi scavi modifica in maniera radicale gli spazi, trasforma le antiche capanne circolari, crea edifici a più vani: non casualmente tutto ciò avviene a poca distanza dalla capanna delle riunioni, altro luogo deputato alla comunità piuttosto che a un uso privato. Da questo punto di vista l’area indagata è portatrice di un’altra grande novità nel panorama urbanistico della Sardegna: qui infatti possiamo cogliere il segno della trasformazione che si compie
mediante l’alienazione di quelli che si configuravano come spazi privati per la creazione di un luogo della comunità, pubblico. Su questo spazio aperto, come abbiamo già detto, si affacciano molti ambienti: alcuni sono chiusi e si concentrano nel settore meridionale. In uno di essi, dopo l’asportazione dell’humus e dello strato di limo che sigillava le fasi di vita dell’ambiente, abbiamo messo in luce un pavimento all’interno del quale è venuto alla luce uno ziro ancora uno volta riempito da panelle di rame, da asce e da un’impugnatura di spada in bronzo: si tratta, anche in questo caso, di un ripostiglio che appare connesso con quello che a noi appare come un ambiente adibito allo scambio, in altre parole una bottega. La realizzazione del ripostiglio avviene nel corso dell’VIII secolo a.C. poiché la fossa che serviva per alloggiare lo ziro è stata scavata in un piano pavimentale che rimonta a questa data e i materiali del riempimento della stessa sono coerenti con questa datazione. La qualità degli oggetti contenuti in questo ripostiglio è abbastanza differente rispetto ai materiali dei due rinvenuti nella contigua capanna dei ripostigli: in particolare in questo spicca la presenza di 8 asce a margini rialzati riferibili a tipi diversi. Alcune asce hanno un fusto di maggiore spessore, altre sono meno spesse e presentare il fusto rettilineo oppure lievemente curvilineo secondo un modello di ascia ancora oggi usato per la carpenteria navale. Gli altri ambienti devono essere ancora investigati ma quel che possiamo suggerire fin da ora è che appare necessaria una riflessione sull’uso di questo settore dell’abitato: infatti si potrebbe ipotizzare che esso, nato per esigenze abitative, venga profondamente ridisegnato modificandone la destinazione d’uso. Ci piace pensare che questa zona del sito di Sant’Imbenia possa essere interpretata come il cuore commerciale non solamente di questo abitato ma di un più ampio territorio: qui convergevano i prodotti che venivano scambiati fra i gruppi umani che vivevano in questa parte della Nurra, qui avvenivano gli scambi anche con i mercanti che arrivavano da Oriente in questa parte della Sardegna. Ciò avveniva nello spazio aperto che abbiamo portato alla luce in questi ultime campagne di scavo mentre le insulae che stiamo ricostruendo potrebbero aver avuto la funzione di “punti commerciali di rappresentanza” che ciascun villaggio presente nel territorio in questione aveva. Se questa interpretazione coglie nel vero il sito di Sant’Imbenia non assolverebbe solamente al compito di luogo deputato al commercio e allo scambio con mercanti allogeni ma potrebbe essere visto come centro catalizzatore e calamita dell’economia della Nurra meridionale.
Da questo punto di vista possiamo anche inferire che dietro i profondi mutamenti resi evidenti negli scavi e che si riferiscono a una profonda trasformazione in senso urbanistico nel villaggio vi siano ancor più grandi cambiamenti nella economia e nella società di questa parte della Nurra: innanzi a tutto la presenza di richieste di scambio che provengono da un mondo esterno hanno provocato una trasformazione del modello economico che con evidenza passa da un’economia di villaggio più o meno
strettamente votata al mantenimento della sussistenza a un qualcosa di più complesso e organizzato che deve creare eccedenze necessarie per lo scambio di prodotti con i mercanti.

Appare evidente che questi scambi non riguardassero solamente i metalli (di cui tutto l’entroterra è assai ricco) ma anche, per quel che è possibile documentare archeologicamente, prodotti della terra come il vino. Già nel IX-VIII a.C. il vino della Nurra meridionale era conosciuto nel Mediterraneo e veicolato a Cartagine, in Etruria e nella Spagna meridionale in contenitori che risentono in maniera determinante dell’influenza delle anfore cananee dell’inizio del I millennio a.C. e che sono note come “anfore di S. Imbenia”.


Ci chiediamo, a questo punto, se tutto ciò che stiamo iniziando a verificare attraverso gli scavi a Sant’Imbenia non presenti tutti i presupposti per ipotizzare un superamento di quel livello di economia di villaggio e di quella organizzazione per villaggi che si ha nel corso dell’età del Bronzo tardo: in altre parole ci domandiamo se la presenza di uno spazio collettivo e pubblico che noi
interpretiamo come area aperta per fare commercio, assieme alle possibili trasformazioni del modello economico, non possa essere elemento sufficiente per considerare il processo che si pone in essere a Sant’Imbenia come l’inizio di un percorso simile a quel che avviene in altre parti del Mediterraneo, in particolare nella penisola italiana, e che conosciamo come un’esperienza di tipo urbano. Con questo non si vuole affermare che sia esistito un modello al quale gli abitanti di Sant’Imbenia si siano riferiti o dal quale siano stati influenzati dall’esterno, al contrario: questa esperienza sembra nascere e svilupparsi all’interno della compagine indigena con proprie caratteristiche e peculiarità. Non appare l’esito di un’influenza esterna, proveniente da Oriente, ma una risposta esito delle trasformazioni che avvengono da un punto di vista economico e sociale all’interno
della società tardo nuragica: e d’altra parte questo tipo di risposte, nelle civiltà che si specchiano sul bacino del Mediterraneo, riflette forme di trasformazione che appaiono abbastanza simili seppure con forme e tempi differenti.

Fonte: L’Alguer, PERIÒDIC DE CULTURA I INFORMACIÓ - JULIOL-AGOST 2010
ESTUDI - PROJECTE SANTA IMBÈNIA, NOVES DESCOBERTES ARQUEOLÒGIQUES

lunedì 28 marzo 2011

Viaggio nella Storia - 8 - Pozzo Santa Cristina


Si è svolto Domenica 27 Marzo l'ottavo appuntamento con la rassegna culturale "Viaggio nella Storia", giunta alla 3° edizione. Il gruppo si è riunito alle 10.30 a Paulilatino per visitare il villaggio nuragico di Santa Cristina. Il sito è stato presentato dalla guida locale che ha raccontato la storia del santuario e ha condotto i partecipanti lungo i sentieri che portano al nuraghe Santa Cristina, alle capanne ancora integre accanto al nuraghe e a uno dei monumenti più conosciuti del mondo preistorico: il pozzo sacro di Santa Cristina, perfettamente conservato e realizzato in blocchi di pietra finemente lavorata. Vicino al tempio a pozzo si trovano i resti del Villaggio Santuario, con la capanna delle riunioni dove il gruppo è stato accolto dal bancone in pietra disposto lungo il perimetro interno della struttura nuragica.


All'interno della capanna si è svolto il convegno sul cambiamento sociale avvenuto intorno al X a.C., quando l'aristocrazia si impose al governo dei villaggi e le maestose strutture architettoniche non vennero più costruite. I principali nuraghe furono trasformati in templi, e le grandi rotonde delle riunioni caratterizzarono i villaggi, mostrando l'esigenza di un luogo di incontro fra genti che fecero del commercio e degli scambi il nuovo modo di vivere. Inizia un periodo in cui si nota la "miniaturizzazione" delle torri nuragiche, che ora vengono sistemate all'interno delle capanne delle assemblee. La nuova società darà vita all'epoca della grande statuaria in pietra a Monte Prama e dei bronzetti che possiamo ancora ammirare nei musei.
La pausa pranzo si è svolta all'interno del parco archeologico, con i convenuti che hanno vissuto un momento di socializzazione scambiando le specialità della cucina domestica: panini, frittate, vino, dolci, caffè e acquavite hanno allietato il gruppo.

Nel pomeriggio la carovana di auto si è avviata verso il Santuario di Sedilo, dove il 6 e 7 Luglio di ogni anno si svolge "l'Ardia", una corsa sfrenata a cavallo fatta in onore di San Costantino, per ricordare la battaglia di Ponte Milvio tra Costantino e Massenzio. È guidata da un capocorsa, un alfiere detto "sa prima pandela", seguito da altri due cavalieri, "sa secunda" e "sa terza", e da tre scorte che rappresentano Costantino e il suo esercito. Vi partecipano circa 100 cavalieri che, invece, rappresentano i pagani guidati da Massenzio.

Oltre alla funzione di guida della corsa, l'alfiere gode di alcune prerogative che gli assicurano il vantaggio iniziale: è lui, infatti, a condurre i cavalieri su una collina vicino al paese, ed è lui a decidere in qualsiasi momento, e senza preavviso, la partenza della corsa, che si svolge in discesa lungo un ripido pendio e ad alta velocità.
Arrivati al santuario di S. Costantino, i cavalieri fanno alcuni giri intorno all'edificio facendosi il segno della croce ad ogni passaggio davanti alla porta principale. Poi continuano, in discesa fino a raggiungere un muretto in pietra sormontato da una croce, detto "sa muredda", intorno al quale i cavalieri compiono altri giri per ritornare, a galoppo sfrenato, alla chiesa.

Terminata la visita i partecipanti si sono recati a Ghilarza, per una visita guidata al nuraghe Orgono, un singolare monumento che con lo sviluppo delle sue strutture racconta l’evoluzione dell’architettura nuragica: dal nuraghe arcaico con camera allungata a forma di barca rovesciata alla torre troncoconica con camera circolare a falsa cupola. I lavori di consolidamento e scavo finora eseguiti hanno consentito il recupero almeno parziale del monumento, già gravemente dissestato e pericolante. Oltre ai segni dei diversi momenti di ristrutturazione, anche i depositi stratificati delle due camere raccontano le vicende di utilizzo del monumento dall’età nuragica alla tarda età romana.

Alle 17 il gruppo ha proseguito il viaggio giungendo ad Abbasanta, per la visita guidata al nuraghe Losa. Il complesso nuragico, interamente costruito con grossi blocchi di basalto, è formato dal grande nuraghe trilobato, da un antemurale e da un'ulteriore cinta muraria che racchiude l'intero complesso e al cui interno si trovano anche i resti dell'ampio villaggio.

Il nuraghe, risalente al XV a.C. si compone di una torre principale e di altre tre torri, realizzate in una seconda fase, unite tra loro dalla muratura esterna che fascia l'intera costruzione. L'ingresso principale è situato sul lato sud e dà accesso, tramite un corridoio rettilineo, alla torre centrale, della quale è attualmente visitabile anche il piano superiore, collegato con quello sottostante tramite una scala ricavata nello spessore murario. Lo stesso corridoio permette di accedere anche alle due torri laterali mentre la torre posteriore è accessibile da un ingresso secondario situato a nord est. L'intero edificio, originariamente più alto, oggi conserva un altezza di circa 13 metri. Una particolarità del nuraghe Losa è l'assenza di un cortile interno.

Davanti all'ingresso principale si trova una grande capanna circolare, con due ingressi e varie nicchie, che per la tipologia e la posizione si può considerare una capanna delle riunioni, elemento ricorrente nei grandi complessi nuragici. Il nuraghe sui lati nord e nordest è racchiuso da un antemurale provvisto di due torri che presentano aperture verticali nelle pareti.
Intorno a tutto il complesso si estende una seconda cinta di mura di forma ovale (che misura circa m.300x200), lungo la quale si possono vedere i resti di tre torri che hanno un ingresso esterno ed uno interno alle mura. All'interno di quest'ultima cinta di mura ci sono i resti di un grande villaggio nuragico formato da capanne circolari, costruito successivamente al nuraghe e abitato fino al VII secolo a.C. Dopo un abbandono di diversi secoli, l'insediamento fu rioccupato in età punica (IV a.C.) e riabitato ininterrottamente anche fino al VII d.C. Un'altra testimonianza della frequentazione in età romana è data dalla presenza di urne cinerarie di età imperiale, scavate nella roccia basaltica e attualmente visibili nei pressi dell'igresso dell'area archeologica.

Prossimo appuntamento il 10 Aprile a Serri, al Santuario nuragico di Santa Vittoria, quando sarà relatrice Angela Demontis che presenterà "Il popolo di bronzo", una possibile ricostruzione di armi, abiti, accessori e utensili nuragici, realizzati con i materiali e antiche tecniche di lavorazione, basata sulla rigorosa osservazione dei bronzetti. L’uso di tali materiali in epoca antica è avvalorato da citazioni storiche che ne testimoniano l’impiego. Proprio lo studio del piccolo “esercito” di bronzo ci fa vedere come dovevano essere abbigliate le persone in epoca nuragica, come una sorta di scatti fotografici dell’epoca. Attraverso un’attenta analisi delle statuette di bronzo si acquisiscono informazioni sul gusto estetico, sull’articolazione sociale e sui mestieri di una società che veniva a contatto con diversi popoli dell’area mediterranea e che da questi contatti e confronti culturali acquistava e proponeva a sua volta stimoli importanti per la crescita e lo sviluppo delle diverse etnie.

Sul mio profilo facebook troverete tutte le immagini della giornata.

sabato 26 marzo 2011

Libia, Pericolo bombardamenti nei siti archeologici


L’archeologo Savino Di Lernia lancia l’allarme per Leptis Magna e altri siti.

Il pericolo maggiore per i beni archeologici libici è che vengano impiegati come forma di rivendicazione e di pressione, come successe in Afghanistan con l’abbattimento da parte dei talebani delle statue dei Buddha. Non sorprenderebbe se, in concomitanza con la grande propaganda contro l’Italia, venisse compiuto un gesto dissennato contro le aree archeologiche. L’archeologo Savino Di Lernia, che dirige la spedizione italo-libica nel Messak e nell’Acacus, guarda preoccupato alla situazione del patrimonio archeologico conservato in Libia e sottolinea i possibili pericoli che i grandi siti archeologici della Libia settentrionale potrebbero correre.
Non sono da sottovalutare le bombe intelligenti, che a volte sbagliano bersaglio; ma il timore maggiore dell’archeologo è che le aree archeologiche diventino il palcoscenico del conflitto armato. Nella Libia settentrionale sono concentrati i resti monumentali del paese: le città puniche e fenicie, quelle greche e romane, quelle che conservano maggiori vestigia visibile e che sono state musealizzate. I resti delle città romane, spesso, sono stati impiegati per evidenziare alternativamente l’inimicizia o l’amicizia tra l’Italia e la Libia. Lo studioso si riferisce particolarmente a Sabratha, vicino a Tripoli, dove si sono verificati alcuni scontri, ma anche a Leptis Magna, a metà strada tra Misurata e Tripoli, e a Cirene, al centro della Cirenaica. Tutte aree archeologiche facenti parte della lista UNESCO.
Ritornato in Italia a fine febbraio grazie a un aereo militare, Di Lernia evidenzia che il primo problema per molte di queste aree è che sono inglobate nelle città e nelle periferie urbane, come Cirene e Sabratha, che potrebbero essere teatro di scontri o potrebbero venire colpite da una bomba intelligente. Inoltre, i siti potrebbero essere usati come una forma di ritorsione contro il turismo che per gli abitanti della Libia costituisce un asseto produttivo. Durante le guerre il patrimonio culturale può trasformarsi in merce di scambio.
Le aree più sensibili si trovano sulla costa, mentre quelle situate nel sud-est e nel sud-ovest, famose per un’archeologia molto antica e per l’arte rupestre preistorica, sembrerebbero più al sicuro. In ogni caso, gli occidentali non possono proteggere il patrimonio artistico dell’UNESCO, che possiede un margine di azione molto basso. Nessun intervento può essere organizzato senza che lo richieda il paese che conserva i beni archeologici in pericolo.

Fonte: Archeorivista

L’archeometria della ceramica


Articolo tratto da: L’Alguer, PERIÒDIC DE CULTURA I INFORMACIÓ - JULIOL-AGOST 2010
E S T U D I - PROJECTE SANTA IMBÈNIA, NOVES DESCOBERTES ARQUEOLÒGIQUES


L’archeometria della ceramica
di Beatrice De Rosa


Sui reperti ceramici rinvenuti nel villaggio, di diversa provenienza, sono state realizzate una serie di analisi archeometriche volte a comprendere l’origine dei manufatti e la loro tecnologia di produzione.
Ritengo che prima della discussione dei risultati ottenuti, sia utile cercare di spiegare la finalità delle analisi scientifiche e la loro utilità attraverso una semplice introduzione sull’interpretazione del dato scientifico in rapporto ed in funzione di quello archeologico.
I manufatti ceramici provenienti da orizzonti culturali estremamente diversi, come sono i materiali ceramici rinvenuti a Sant’Imbenia, pongono con grande determinazione il problema della “ecologia culturale” in cui i reperti furono prodotti prima di arrivare nei contesti di rinvenimento.
Il processo ceramico, com’è ovvio, non è in antico un processo standardizzato, ma vive di momenti di empirismo e di empirismo critico, strettamente legati alla presenza delle materie prime, argille ed argilliti, alla disponibilità di combustibile, all’esperienza del ceramista e dei suoi collaboratori, a varianti legate alla maggiore o minore abilità degli artigiani. Tutti i dati di laboratorio, quindi, non possono essere ricondotti in maniera automatica alle questioni di attribuzione della provenienza, ma debbono essere rivisti alla luce dei
diversi processi ceramici nelle differenti aree di ipotizzata provenienza.
Il problema dei degrassanti, per esempio, va visto alla luce della lavorazione dell’argilla, che di volta in volta può essere più o meno plastica; questo comportava
una specifica ricerca di materia prima ricca di silice, all’interno di una giacitura geologica argillosa, che si differenziava in senso areale e stratigrafico, o,
più semplicemente, di un determinato tipo di argilla che gli artigiani
sapevano plasmare e cuocere con maggiore sicurezza.
L’archeologo deve interpretare i dati di laboratorio alla luce di un portato culturale proprio, che è la storia della tecnologia antica, rileggendoli in base all’ipotesi del processo ceramico che diede origine ai manufatti; solo in tal modo,
il dato di laboratorio sterile in sé, acquisisce dignità archeometrica.
Le conclusioni di questo lavoro sono abbastanza positive. Certamente si è consapevoli del fatto che la ricerca non può considerarsi esaurita, ma piuttosto si
tratta di un punto di partenza per studi successivi, che possano permettere una rapida identificazione delle diverse paste ceramiche qui analizzate.
Sono stati osservati autopticamente circa duecento frammenti ceramici, provenienti sia dalle campagne di scavo del 1990, sia da quella del 2007. All’interno di
questo grande gruppo sono stati selezionati i campioni da sottoporre ad analisi in laboratorio, scelti in base a caratteristiche tipologiche, tecnologiche ed archeometriche considerate interessanti. Ad esempio, si è concentrata
l’attenzione sulle anfore Sant’Imbenia per la loro importanza archeologica e per i
pochi ed a volte contrastanti dati esistenti in letteratura, ma anche per le caratteristiche degli impasti, che all’interno di una stessa tipologia avevano
proprietà diverse, e per gli aspetti tecnologici, soprattutto il modellamento ed il rivestimento, che apparivano differenti o uguali a prescindere dagli impasti,
dalla forma e dalle dimensioni. Un altro esempio è quello della ceramica nuragica; ci
siamo rivolti all’analisi di questo materiale con particolare interesse; il primo motivo è forse “patriottico”, perché si tratta di produzioni che probabilmente
erano state realizzate nel villaggio, o comunque da società indigene ed il loro studio come ulteriore testimonianza della cultura sarda ci ha dato grandi stimoli;
il secondo è legato alla limitatezza di dati archeometrici e tecnologici sulla ceramica nuragica; il terzo è l’altissimo numero di rinvenimenti di questi
manufatti, come è ovvio aspettarsi in un villaggio nuragico; infine volevamo capire ed approfondire caratteristiche ed aspetti che sembrano essere peculiari dei materiali nuragici di Sant’Imbenia, come i rivestimenti e le decorazioni importati
da altre culture realizzati su prodotti nuragici e viceversa.
Per questi motivi, è stato deciso di campionare e studiare anche le materie prime argillose intorno al sito. La scelta delle materie prime è stata fatta seguendo
due criteri differenti: da un lato sono state considerate la vicinanza con il sito archeologico e l’accessibilità dell’area, dall’altro la somiglianza petrografica e
mineralogica che esisteva tra queste e le ceramiche prodotte in antico. Durante le prospezioni in un’area di circa 15 km intorno al sito, distanza che in letteratura
è considerata percorribile e raggiungibile anche a piedi, ipoteticamente più volte in un mese, sono stati campionati tre diversi tipi di materiale proveniente da Porto Ferro (i cui campioni sono chiamati PF), dal Lago di Baratz (LB) e dalla zona
aeroportuale (PS), più il sedimento prelevato nel sito di Sant’Imbenia (SI). PS proviene da un’area che si trova a circa 12 km a sud del sito, sulla Strada
Provinciale 44, all’altezza dello svincolo per Alghero (coordinate 40º36I54.86II N; 8º16I30.70II E); è di colore grigio chiaro, granulometria fine e consistenza sciolta.
LB proviene dal Lago di Baratz, a circa 7 km a nord del sito (coordinate 40º40I46.42II N; 8º13I38.06II E); si tratta di un materiale scuro, quasi marrone,
poco plastico, ricco di inclusi vegetali e con consistenza terrosa.
PF proviene invece da Porto Ferro, a circa 9 Km a nord del sito (coordinate 40º41I36.90II N; 8º11I56.72II E); è una terra argillosa rossa, molto plastica, con
presenza media di inclusi vegetali. Il sedimento SI è molto simile a PS, anche se con una percentuale di inclusi, soprattutto gusci e resti carbonatici, molto più alta. Una volta prelevati sono stati preparati i campioni.Il sedimento SI non è
stato sottoposto a cottura, in quanto non si tratta di materiale argilloso, ma piuttosto di una terra limosa e non permetteva creare campioni crudi compatti.
I campioni sono stati realizzati manualmente, aggiungendo la quantità di acqua necessaria per rendere plastica la massa argillosa ed eliminare l’eccesso d’aria:
per ogni chilogrammo di argilla sono stati aggiunti a PS 150 ml di acqua, a PF 180 ml, ed a LB 140 ml. LB dava l’impressione di essere il meno compatto tra i materiali argillosi preparati.
In seguito, la massa è stata messa in uno stampo di legno di forma prismatica, che è stato previamente bagnato e rivestito internamente di sabbia per evitare che la terra argillosa si attaccasse alle pareti. Dopo 4 giorni, i campioni sono stati
estratti dagli stampi e tagliati, per ottenere una serie di campioni più piccoli, e di forma pressoché cubica. Tutti i campioni sono poi stati lasciati ad asciugare
in laboratorio. L’essiccamento, una delle parti fondamentali all’interno del processo
ceramico, dipende dalle condizioni di temperatura ed umidità presenti nell’ambiente
circostante; la temperatura media era intorno ai 25°C, e l’umidità relativa intorno al 50%; con queste caratteristiche, i campioni si sono asciugati in una settimana, con una diminuzione del loro volume di circa il 3%, aspetto dovuto alla perdita
d’acqua. Una volta essiccati, sono stati cotti in un forno elettrico (Herotec CR-35), con una sorgente di calore fissa. I campioni sono stati riscaldati per
un’ora a 100°C, per eliminare l’eventuale umidità residua presente.
Dopodiché, si è proceduto alla cottura degli stessi. Le temperature scelte sono state comprese tra 700 ed 1000°C, con intervalli di 50°C tra le diverse
temperature, tranne che nel passaggio tra 900 e 1000°C. La scelta di questo range è stata fatta considerando 900 e 1000°C la temperatura ottimale per la cottura delle argille. Bisogna anche considerare che raggiungere temperature più alte era
difficile ed economicamente poco vantaggioso. Una volta raggiunta la temperatura, si aspettava 1 ora prima di spegnere il forno. Infine, i campioni venivano lasciati 24 ore nel forno spento, perché il raffreddamento avvenisse in modo graduale e lento.
Per la cottura dei campioni sono state necessarie da 3 ore e 40 minuti per quelli cotti a 700°C a 5 ore e 10 minuti per quelli a 1000°C. Riguardo ai campioni considerati di produzione locale, il risultato più importante è stata l’individuazione e la caratterizzazione delle materie prime utilizzate scoperte nei pressi del villaggio, dato che ci permette di ipotizzare la produzione locale dei campioni che presentano queste caratteristiche con maggiore sicurezza rispetto a quanto avveniva in passato. Un altro dato rilevante è emerso in seguito alle analisi mineropetrografiche e tecnologiche, che hanno permesso di riscontrare delle
differenze tra i prodotti del Bronzo medio e quelli del primo Ferro. Intanto, nella materia prima impiegata; nelle produzioni più antiche è stato osservato l’uso quasi esclusivo di una materia prima argillosa proveniente probabilmente dalla zona
del Lago di Baratz e di Porto Ferro, caratterizzata da minerali argillosi, da filladi, quarzo e feldspati; dalla fine del Bronzo si usano materiali diversi associati ai precedenti: materie prime argillose con presenza di minerali vulcanici, in quantità e dimensioni spesso costanti, che potrebbero provenire dall’area
di Tottubella o di Olmedo.

È stato possibile vedere un cambiamento nella scelta dei degrassanti utilizzati negli
impasti, che si può definire completo nell’età del Ferro: si passa da prodotti realizzati utilizzando come degrassanti calcite e materiali organici a quelli in cui
si usano minerali e rocce vulcaniche. I campioni più antichi del Bronzo medio- recente sono caratterizzati da impasti con inclusi con addensamento elevato e distribuzione iatale, da una porosità compresa tra il 30 ed il 40%, come conseguenza dell’uso di materiali organici e della calcite, e da impasti friabili. Dalle
analisi al microscopio petrografico è stato osservato che spesso i materiali organici non sono completamente combusti, dato che insieme alla presenza di calcite
ed all’alto indice di birifrangenza delle matrici suggerisce basse temperature di cottura; questo dato è stato confermato anche dalle analisi DRX, che hanno segnalato presenza di calcite, illite e l’assenza di minerali di neoformazione.

Le superfici non sono state lavorate, anche se sono presenti motivi decorativi
incisi o impressi. A partire dal Bronzo finale, osserviamo negli stessi materiali
l’utilizzo di altri degrassanti: inclusi vulcanici (specialmente pomici ed ignimbriti) con caratteristiche di refrattarietà che permettono al manufatto di sopportare gli sbalzi termici senza fratturarsi e di distribuire il calore in modo più omogeneo. I campioni di produzione più recente sono caratterizzati da matrici con inclusi con addensamento medio e distribuzione iatale, da una porosità compresa
tra il 15 ed il 20%, da impasti duri e con fratture nette. Le matrici hanno una birifrangenza molto bassa che, insieme alla presenza di minerali di neoformazione,
suggerisce temperature di cottura superiori ai 900 °C. Le superfici sono state quasi
tutte levigate o hanno una patina e quindi sono poco porose, anche se non mancano alcuni esempi in cui sono state brunite, trattamento che prevedeva aggiunta di argilla liquida al manufatto precedentemente modellato, lisciato e parzialmente
secco per ridurre al minimo la porosità e rendere le superfici lucide e brillanti.
In questo caso, quindi, è stato possibile osservare un cambiamento di tecnologia legato alla funzionalità del vaso, che si manifesta sia nella scelta di materie prime argillose più adatte a sopportare alte temperature di cottura e continui contatti con il fuoco, sia nell’utilizzo di un trattamento superficiale che riducesse al minimo la permeabilità delle superfici.
Accanto a questo aspetto, bisogna anche osservare la perizia raggiunta nella conduzione del fuoco e nella gestione delle temperature nei forni; attraverso
l’osservazione al microscopio polarizzatore e con l’analisi di immagine le superfici, soprattutto quelle brunite, appaiono parzialmente vetrificate, non
porose e molto compatte; questi elementi indicano che i vasai di Sant’Imbenia erano in grado non solo di raggiungere alte temperature, ma anche di mantenerle per il tempo sufficiente a creare una vetrificazione, almeno parziale.
Anche dallo studio delle superfici delle ceramiche nuragiche realizzate nell’Età del Bronzo Finale ed in quella del Ferro abbiamo ricavato dati importanti; i manufatti più recenti di Sant’Imbenia sono infatti quasi tutti caratterizzati da superfici
rosse, con gradazioni che vanno dal rosso mattone al marrone rosso, alcuni ingobbiati, altri con patina, altri ancora semplicemente levigati, cotti durante
l’ultima fase e lasciati a raffreddare in atmosfera ossidante.
Questa caratteristica non si osserva nei manufatti realizzati precedentemente, per cui si potrebbe ipotizzare un’imitazione dei prodotti fenici con red slip
che arrivano a Sant’Imbenia. Le superfici rosse si trovano anche su manufatti che sono di tradizione nuragica, come le ollette, che dalle analisi mineropetrografiche
sappiamo essere state realizzate con argille locali; in alcuni casi le decorazioni sono state realizzate con un alto livello di specializzazione; ad esempio le patine sono molto sottili, perfettamente aderenti al corpo ceramico, brillanti, non porose e
parzialmente vetrificate. Con il tempo, la perizia dei vasai di Sant’Imbenia raggiunge altissimi livelli, e le differenze macroscopiche tra un prodotto fenicio
ed uno locale si percepiscono sempre meno. Riguardo all’individuazione delle
cave, dei tre materiali argillosi campionati nei pressi del sito, è stato osservato che due potrebbero effettivamente essere stati utilizzati dagli abitanti di
Sant’Imbenia, specificatamente quelli provenienti dal Lago di Baratz e da Porto Ferro; il terzo, proveniente dalla zona aeroportuale non ha presentato caratteristiche adatte alla cottura ed alla lavorazione, per gli alti valori di
calcite, né compatibilità mineralogica con i campioni archeologici. I risultati che sono stati ottenuti grazie alle analisi mineropetrografiche sulle anfore Sant’Imbenia
hanno permesso di individuare un gruppo consistente di prodotti realizzati localmente; la presenza delle filladi ha reso possibile l’attribuzione degli impasti
all’area di Porto Conte e quella dei minerali e delle rocce vulcaniche trova corrispondenza nelle vicine aree di Tottubella ed Olmedo. Non sembra quindi
necessaria una loro attribuzione all’area tirrenica dell’Italia solo per la presenza di tali degrassanti, come avveniva precedentemente.
Sarebbe ora molto interessante e produttivo analizzare gli impasti di altre anfore Sant’Imbenia che si trovano in siti della Sardegna e del Mediterraneo, per individuarne le aree di provenienza e ricostruirne eventualmente il percorso.
Riguardo al materiale allogeno, le importazioni greche sono divisibili in prodotti euboici e pithecusani. Il dato ci parla quindi con maggiore sicurezza delle
relazioni che esistevano tra la Grecia ed il mondo occidentale, anche se i modi ed i vettori di questo contatto non sono ancora completamente chiari.
Il materiale fenicio è stato diviso in tre gruppi: uno di produzione nord-africana, che costituisce il lotto numericamente maggiore delle importazioni; accanto a
questo, però, si sottolinea la presenza di circa il 30% di campioni che si possono ritenere di produzione sulcitana. Questo risultato conferma l’esistenza dei contatti
esistenti tra centri anche distanti nell’isola e nello stesso tempo il ruolo predominante che Sulcis assunse in breve tempo nel circuito della produzione e circolazione dei beni. L’ultimo gruppo di ceramiche si ritiene di produzione orientale, soprattutto per il dato archeologico, in quanto i dati archeometrici sulle argille sono ancora pochi e di non semplice reperimento.

venerdì 25 marzo 2011

Atlantide in Spagna?


Ricercatori scoprono i resti di Atlantide nel sud della Spagna
di Pietro Vernizzi


Un gruppo di ricercatori internazionali ha annunciato di avere scoperto il punto in cui sorgeva la leggendaria città di Atlantide, identificandolo nelle remote paludi della Spagna sud-occidentale.

SONDE SOTTERRANEE - Paul Bauman, geofisico canadese dell’Alberta, insieme a due colleghi di WorleyParsons Canada, una società con sede a Galgary, hanno realizzato ispezioni sotterranee con alcune sonde come parte di un’indagine guidata dagli Stati Uniti, il cui scopo era risolvere uno dei misteri archeologici più antichi al mondo. Come scrive Randy Boswell, dell’agenzia di stampa Postmedia News, proprio nel momento in cui il mondo sta assistendo in diretta al devastante impatto del colossale tsunami in Giappone, arriva la notizia dell’identificazione di Atlantide sulla terraferma del continente europeo.

DESCRIZIONE DI PLATONE - A diffonderla per primo è stato uno speciale della televisione del National Geographic, a 2.400 anni dalla descrizione del filosofo greco Platone, che ha tramandato la memoria della grande civiltà distrutta dalle inondazioni seguite a un poderoso terremoto sottomarino. Per secoli ci si è chiesto se Atlantide sia realmente esistita o se sia stata semplicemente un’invenzione di Platone, che ha parlato di un mitico regno «inghiottito dal mare». E in tempi moderni sono state avanzate numerose teorie sul luogo in cui doveva sorgere la città sommersa, sia da parte di ricercatori autorevoli che da un manipolo di pseudo esperti.

LE «COLONNE D’ERCOLE» - Il più recente tentativo di scoprire la città scomparsa è iniziato nel 2004, quando il fisico tedesco Rainer Kuhne ha individuato delle caratteristiche anomale nelle foto scattate dal satellite della piana acquitrinosa vicino alla foce del fiume spagnolo Guadalquivir, a nord-ovest dell’attuale città di Cadice. L’area si trova vicino allo stretto di Gibilterra, che gli studiosi hanno generalmente identificato come le «Colonne di Ercole», citate da Platone nella sua descrizione del punto in cui sorgeva Atlantide. Le prove sul terreno nella località spagnola, condotte dall’archeologo dell’University of Hartford, Richard Freund, si sono svolte negli ultimi anni e sono state filmate dalla troupe dei documentari del National Geographic.

CITTA’ INONDATA - L’area iberica è «il miglior candidato possibile mai scoperto con una quantità di prove così grande», ha dichiarato Freund al quotidiano americano Hartford Courant. L’archeologo ha anche indicato alcuni curiosi oggetti d’artigianato scoperti più lontano a nord nella Spagna, dove potrebbero essersi trasferiti i rifugiati da un insediamento costiero inondato. E alcuni manufatti dal valore «memoriale», forse per commemorare una città andata distrutta, sono stati dissotterrati. Bauman ha raccontato a Postmedia News di avere lavorato con Freund a circa 20 siti storici nel Medio Oriente e altrove, ma finora non aveva mai individuato nulla così «di alto profilo nell’assomigliare alla città scomparsa di Atlantide».

FORNO ANTICHISSIMO - Il lavoro del gruppo di Bauman è avvenuto con radar in grado di penetrare nel terreno, oltre che con magnetometri e scanner elettrici utilizzati per rintracciare le «firme» termiche o chimiche di oggetti costruiti dall’uomo e rimasti sepolti nei sedimenti. Gli antichi manufatti sono stati riportati alla luce nel delta del fiume infestato dalle zanzare, in condizioni estremamente calde e umide. I ricercatori canadesi inoltre, grazie a un sensore, hanno individuato un forno comunale ora sepolto nei sedimenti paludosi, lontano da ogni insediamento antico attualmente conosciuto.

ETA’ DEL BRONZO - C’erano inoltre delle strutture estensive che potevano rappresentare canali, ha osservato sempre Bauman. Per l’archeologo, «il momento più eccitante è stato quello in cui hanno scoperto una statuetta che era evidentemente molto diversa dagli altri manufatti dell’area, ma simile agli altri stili di intaglio e di arte rappresentativa dell’Età del Bronzo. E’ stata quindi trovata una seconda statuetta. Si possono avere tutte le prove indirette e le trace geofisiche, ma non c’è nulla come scoprire un manufatto che si può datare anche solo approssimativamente, e non ci sono dubbi sul fatto che la statuetta sia stata realizzata da mani umane».


fonte: http://www.ilsussidiario.net/News/Curiosit...pagna/1/158442/

Nell'immagine: un lacerto di intonaco di Avaris, capitale degli Hyksos, conservato al British Museum

giovedì 24 marzo 2011

Qual è il significato del nome Gennargentu?

Antica cartografia
di Rolando Berretta


Quanto segue dovrebbe essere un “piccolo aiuto” indirizzato ai Paleografi.
Oltre alle “scritture”, agli inchiostri, ai tipi di pergamene, le carte portolane (portolaniche)contengono degli schemi. Detti schemi sono letti e interpretati con la Rosa dei Venti e con le 16, 32, 64 e 128 direzioni che si potevano ipotizzare prima di un viaggio via mare.
Cerchiamo di osservare, con un occhio diverso, due Maestri del 1300:
Opicino de Canistris (1.334) e Angelino Dulcert (1.339 )
Osserviamo come si imposta e come va letto lo schema di Opicino.





la griglia di Opicino deriva da un’altra griglia:


Adesso, mentalmente, cerchiamo di portare in orizzontale lo schema azzurro.
Facciamo compiere, all’intero disegno, una leggera rotazione in senso orario facendo perno sul “tacco” dell’Italia.
Della Linea VERDE parlerò tra poco.



Vi anticipo che quella linea è il vero 40° parallelo nord. Sovrapposizione diretta del portolano di Angelino Dulcert su quello di Opicino. Stessi giri di compasso. Stessa carta geografica. Solo gli schemi hanno una diversa inclinazione.




Adesso presento lo schema DULCERT completo:




Se si sviluppa lo schema di Dulcert su di una griglia che equivale a 90° sull’asse Nord-Sud e 90° sull’asse Est-Ovest si nota che i due giri di compassi hanno una logica geografica.
E’ evidente che, nei conventi, hanno copiato qualcosa. Possiamo affermare che queste carte erano frutto di copiatura e non di rilievi cartografici. Quel doppio schema non ha nulla a che vedere con le probabili rotte dei nostri marinai.
Se osservate, attentamente, i due giri di compasso noterete presenti delle linee marroni che evidenziano la presenza dello schema di Opicino e delle linee azzurre che evidenziano il portolano di Dulcert.
Viene raffigurata una porzione del Mediterraneo impostata per 30° sull’asse nord/sud e di 60° sull’asse est-ovest.
Se vogliamo vedere i veri meridiani, e paralleli, verificabili con qualsiasi Atlante moderno



dobbiamo identificare e sviluppare le griglia con le linee verdi.
Dalla carta dei Marinai e dalla marcatura di questa.
BLUNDEVILLE - LONDRA -1594
Innanzitutto disegnate con un paio di compassi un cerchio tanto grande quanto pensate possa adattarsi alla vostra carta, il quale cerchio rappresenterà l’Orizzonte; poi dividetelo in quattro quarti uguali, tracciando due diametri che si incrociano l'un l'altro, nel centro del suddetto cerchio ad angoli retti, di cui
la linea perpendicolare è la linea del Nord e del Sud, e l’altra che attraversa la stessa è la linea dell'Est e dell'Ovest; alle quattro estremità di questi diametri dovete porre i quattro venti principali, ovvero Est,Ovest, Nord e Sud, contrassegnando la parte del Nord con un fiore e quella dell'Est con una croce…..
Blundeville ha portato tutti fuori strada. La sua è, solo, una interpretazione; sta cercando di spiegare gli schemi dopo tre secoli della loro comparsa.
E’ evidente che i compassi non c’entrano nulla; lascerebbero tracce evidenti nelle pergamene.
Meglio una bella griglia di quadratini.




L’iclinazione VERDE l’ho ribattezzata alla “LEONARDO”.
Mentre cercavo di inquadrare il suo UOMO VITRUVIANO mi sono reso conto che esiste
un metodo veloce per impostare gli schemi: basta un solo quadrato con 10 quadratini per lato.
Qui mi fermo con gli schemi.
Vorrei attirare la vostra attenzione su di una affermazione di Cristoforo Colombo:
“Quando io - venendo dalla Spagna alle Indie - giunsi a 400 miglia a ovest delle Azzorre avvertii un gran mutamento sia nel cielo sia nelle stelle, come pure nella temperatura dell'aria e nelle acque del mare. E a questo fenomeno feci molta attenzione. Osservai che da nord a sud, oltrepassata la distanza di 400 miglia
dalle suddette isole, l'ago della bussola che fino a quel punto tende a nord-est, si orienta d'improvviso a nord-ovest una quarta di vento tutta intera. E ciò si verifica mentre ci si avvicina a tale linea, come chi stesse superando un pendio. …“
(Hispaniola, settembre-ottobre 1498 – III viaggio di Cristoforo Colombo)
Lasciamo perdere tutte le Dotte Spiegazioni Accademiche
Credo che lo stesore di quella lettera non abbia saputo accoppiare “due carte”.



Il Nord della griglia di Opicino e il Nord della griglia Atlantica delle
carte che si stavano assemblando hanno, esattamente, una QUARTA
DI VENTO di differenza di inclinazione. Oppure lo stesore poteva avere
davanti una Griglia Azzurra e poteva aver notato la discordanza con il corretto orientamento con i Meridiani e i Paralleli (Griglia verde)
Per rilevare la differenza tra il nord magnetico e il nord geografico
basterebbe osservare lo scarto della Bussola partendo da Alessandria
d’Egitto e passare per Gibilterra.



La Terra ha un’inclinazione di 23° 27’.
Le carte costringono a vedere un’inclinazione di 22°30’. E’ l’unico valore ottenibile dagli schemi; evitiamo, quindi, di fare altre ipotesi.
Vorrei ricordare la grande figura di Dicearco da Messina. Fu lui ad ipotizzare il mitico parallelo di Rodi. Quel parallelo passava su Gibilterra, sullo stretto di Messina e sull’Isola di Rodi. Se osservate l’immagine precedente attentamente potrete vedere quel parallelo. E’ il diametro del Tropico del Cancro. Per vedere quella Linea bisognerebbe disporre di un planisfero sferico e vederlo… piatto.
Passiamo alla Sardegna e al Gennargentu. Presentiamo il genovese Pietro Vesconte e una sua carta del 1.318. Quando l’ho vista la prima volta, credetemi, ho fatto un balzo sulla sedia.



Il mitico CUMPASSUM DA NAVEGARE altro non è che la scaletta, in miglia romane, che
compare in detti lavori. (CUM PASSUM)
Quando viene segnalato, anche, un COMPASSO da MISURARE viene segnalato che c’è
qualcosa di sbagliato nelle scale con le distanze verificate.
Dire che non ci sono riportate le miglia romane di 1.478 m. bensì distanze di 1.230 m
non è corretto. C’è un errore di assemblaggio. Lo si evidenzia con le carte di Pietro Vesconte.
Osservare con attenzione la prossima carta di Vesconte Maggiolo del 1.510.
Controllate la scala riportata dalla carta con la Sardegna e confrontatela con quella che riporta il M.Nero.



Sono in scala 1/1 . Attenzione adesso:
Osservate con attenzione le stesse carte su di una modernissima proiezione satellitare:




si evidenzia che le scale riportate sono completamente sbagliate e, cosa eccezionale, le stesse carte sono perfette sulla proiezione del satellite. Questo significa due cose: che hanno i pezzi e che li hanno assemblati in maniera sbagliata e che, queste carte, hanno un’origine tutta da stabilire.



Basta questa immagine con la Sardegna?



Questa carta, centrata sul Gennargentu, non ha bisogno di tante spiegazioni. E’ bastato correggere l’orientamento della stessa per poter vedere i meridiani e i paralleli.
Ma che cosa c’è nel Gennargentu di particolare ?




Diciamo che sul Gennargentu passerebbe il meridiano ideale che separa l’Asia dall’America: l’Asia a Est e l’America a Ovest.
Sarebbe il mitico meridiano 0 e gli “Antichi” ne erano a conoscenza.
Poi, tutto, è finito su Alessandria…schema azzurro)














Chi volesse leggere la monografia completa,in PDF,può scaricarla dal sito:
http://cid-b79e4416a4b4a2a3.office.live.com/self.aspx/Libri/ApostoliSolone.pdf