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lunedì 19 dicembre 2011

Defunti illustri in Sardegna

Antenati e “defunti illustri” in Sardegna: qualche considerazione sulle ideologie funerarie di età punica.
di Giuseppe Garbati


(tratto da Bollettino di Archeologia on line I 2010/ Volume speciale A / A3 / 5)
Introduzione

La ricostruzione delle ideologie funerarie e dell’immaginario oltremondano nel mondo fenicio e punico costituisce uno dei campi di studio più stimolanti e problematici al tempo stesso. Sebbene rimangano moltissime zone d’ombra sulla conoscenza di questa specifico ambito sociale e religioso, dovute alla ben nota quanto sconfortante scarsezza delle testimonianze dirette, letterarie ed epigrafiche nello specifico, la ricerca ha potuto giovarsi, negli ultimi anni, dei risultati di numerose indagini archeologiche; condotte in diversi contesti necropolari della madrepatria e delle colonie, esse hanno consentito la raccolta di nuovi dati, ampliando la quantità e la qualità delle informazioni e contribuendo, pertanto, a disegnare un panorama assai più completo (e complesso) rispetto agli anni passati. Una delle regioni in cui l’apporto dell’archeologia si è dimostrato particolarmente ricco di nuove suggestioni è senza dubbio la Sardegna, sia in relazione ai contesti e ai corredi funerari appartenenti alle fasi arcaiche della presenza fenicia, sia in riferimento alle molteplici testimonianze inquadrabili nell’età della conquista punica. In merito a questa seconda epoca, cui sono rivolte le nostre riflessioni, alcuni elementi interessanti, indagabili sotto varie prospettive, sono stati restituiti solo di recente dagli importanti rinvenimenti che hanno interessato la necropoli punica di Sulcis. In particolare, le indagini condotte in loco da P. Bernardini hanno portato alla scoperta di una nuova tomba, pubblicata nella sua interezza nel 2005. La ricchezza del sepolcro, nonché la possibilità di disporre di un notevole complesso di dati, consentono, quindi, di esprimere alcune considerazioni, orientate da un lato all’analisi del panorama storico e culturale di appartenenza del sepolcro e, dall’altro, ampliando il quadro, all’esame del complesso religioso che potrebbe aver rappresentato la base ideologica della realizzazione del monumento. La tomba, la numero 7 della necropoli punica di Sulcis, datata grazie al corredo ceramico entro la seconda metà del V a.C., è composta da un’unica grande camera a pianta trapezoidale (cui si accede da un ampio corridoio gradinato) provvista al centro di un pilastro (fig. 1). L’interno della cella, lungo la parte superiore delle pareti, presenta «larghe fasce dipinte in rosso che inquadrano otto nicchie costruite – due per


ogni parete – ed una falsa porta; anche le facce laterali e posteriore del pilastro centrale sono riquadrate da bande rosse». Il nodo della decorazione è costituito da un altorilievo dipinto, ricavato sulla parete anteriore del pilastro (fig. 2). L’immagine, di accentuata ispirazione egiziana, rappresenta una figura maschile incedente, ritratta in posizione frontale e vestita di un corto gonnellino; il braccio sinistro, portato al petto, reca al polso un laccio cui è legato un piccolo contenitore, mentre il destro, disteso lungo il fianco, presenta il pugno chiuso a tenere un rotolo. Su entrambe le braccia è riportata una serie di tre bracciali, resi attraverso pittura rossa; la stessa pittura e del pigmento nero sono ampiamente utilizzati per sottolineare altri particolari dell’immagine, sia anatomici (le labbra, la barba, i baffi, la capigliatura, le orecchie, i capezzoli), sia inerenti all’abbigliamento e agli accessori (il copricapo, il gonnellino, il diadema, il rotolo, il recipiente). Come suggerito da Bernardini, la tipologia e l’iconografia del rilievo non sono certo ignote alle necropoli del comprensorio sulcitano; il nuovo esemplare, infatti, va ad aggiungersi ad altre due sculture affini presenti, l’una, nella stessa necropoli di Sulcis e, l’altra, in un sepolcro della vicina Monte Sirai. Sul fondo della camera, inoltre, in prossimità dell’angolo di destra, lo scavo ha permesso il recupero dei resti di un feretro ligneo il quale, sebbene pervenuto in precarie condizioni di conservazione, doveva recare sulla parte superiore una decorazione a rilievo con la riproduzione di un’immagine antropomorfa simile, con buona probabilità, al personaggio scolpito sul pilastro: si tratta di una produzione che si lega alla tradizione egiziana dei sarcofagi in legno e cartonnage (noti anche in ambiente cartaginese), demarcando nuovamente, assieme all’altorilievo, la forte impronta egittizzante dell’intero contesto.

Note di iconografia e di iconologia
Il particolare ambito di appartenenza e l’iconografia del personaggio sulcitano pongono una serie di questioni che non solo coinvolgono la fisionomia delle ideologie funerarie fenicie e puniche, ma che si riallacciano specificamente,
come vedremo più avanti, alle relazioni tra la madrepatria e il mondo coloniale. Iniziando dal problema dell’inquadramento storico-artistico – di cui in questa sede vengono presentati solo alcuni spunti di riflessione – la temperie d’origine cui la scultura si ispira va rinviata verosimilmente ad ambiente levantino, fenicio e cipriota nella fattispecie. Nonostante non sia difficile, come indicato, riscontrare la profonda influenza da parte dell’arte e della cultura egizie e sebbene esistano precisi paralleli nella documentazione coloniale (alla Sardegna si aggiungono Malta e la Sicilia, con, rispettivamente, un esemplare da Tas Silg e uno dallo Stagnone di Marsala), l’altorilievo potrebbe trovare i precedenti diretti nella produzione orientale, fenicia e cipriota, di sculture di tipologia analoga (sia a tutto tondo, sia a rilievo). È noto che in Oriente una simile corrente artistica si articola cronologicamente in due fasi: la prima si sviluppa nella madrepatria a partire dall’VIII secolo e comporta la diffusione di opere che imitano direttamente la
statuaria egiziana (ne è esempio il celebre torso di Tiro); l’altra, invece, che inizia intorno al 600, pur riproponendo anch’essa i modelli egizi, trova la sua sede primaria di elaborazione nell’isola levantina, «tanto da far pensare, in più di un caso, all’importazione da Cipro delle stesse statue ritrovate in Fenicia o forse degli artigiani che le produssero in loco». Se però nel territorio insulare questa produzione non scende oltre l’età persiana, in Fenicia tali sculture sono ben documentate anche in fasi più recenti (IV-III a.C.), come mostrano alcuni esemplari da Sarepta e da Umm el ‘Amed. Simili indicazioni potrebbero suggerire, pertanto, che i modelli di derivazione dell’altorilievo di Sulcis non vadano cercati direttamente in Egitto (che pure rimane l’ambiente originario di mutazione del tipo), quanto



nelle stesse aree levantine, dove la ricchezza e la lunga fase di sviluppo di questa produzione ne fanno una delle forme più notevoli dell’arte scultorea locale. Il rinvio al mondo fenicio e cipriota, del resto, non rimane certo speculativo se teniamo presente che l’età in cui è inquadrabile la scultura sarda segue immediatamente un periodo ricco di stimoli, durante il quale si assiste, in modo consistente, alla riapertura dei contatti tra le colonie occidentali e la Fenicia, coadiuvati dalla più liberale politica dell’impero persiano. Tra le regioni orientali maggiormente interessate dal fenomeno, vanno annoverati il territorio di Sidone (sede di un governatorato appartenente alla V satrapia) e, non a caso, l’isola di Cipro; quest’ultima, come documentato da diverse classi di materiali, dovette ricoprire in tale contesto una funzione primaria, in quanto componente e veicolo della cultura fenicia nella diffusione da Oriente a Occidente. Ed è proprio per il tramite delle aree levantine che anche nuove o già note suggestioni egiziane dovettero raggiungere l’ecumene coloniale, pur senza escludere l’esistenza di apporti diretti dalla valle del Nilo. Che la tomba sulcitana possa rientrare pienamente in questa temperie – o che almeno possa essere considerata come uno dei risultati del rinnovamento dei rapporti – è poi suggerito da un ulteriore aspetto, relativo, specificamente, all’architettura del sepolcro: la porta d’ingresso alla camera funeraria presenta lungo i margini un motivo a cornici multiple, ben noto in numerosi esempi della produzione di stele. Secondo un esame di S.F. Bondì, tale decorazione andrebbe ricondotta ad ambito culturale fenicio-cipriota, considerata la diffusione del motivo in numerose tombe dell’isola, databili nel corso del VI a.C.. Passando ora all’esame iconologico del rilievo, ricordiamo che già nella pubblicazione della tomba P. Bernardini ha sottolineato giustamente come l’identificazione della figura non sia né semplice né immediata; l’immagine, infatti, può essere interpretata, per esempio, quale rappresentazione «di un genio o demone ctonio, incaricato di proteggere i defunti e il loro ultimo sonno o periglioso viaggio dell’anima, secondo modelli di lettura applicati peraltro anche alle maschere e alle protomi rinvenute in contesti funerari». Nonostante l’eventualità di un simile riconoscimento, lo stesso Bernardini, tuttavia, preferisce vedere nella scultura l’allusione simbolica al defunto eroizzato; secondo l’autore, tale identificazione sarebbe indicata, tra l’altro, dalla pittura rossa, posta a sottolineare alcuni particolari dell’esemplare e forse da legare a «riti di preparazione del cadavere ben attestati nell’Africa punica e punicizzata». Ques’ultima interpretazione è poi suffragata da almeno altri due elementi, inerenti entrambi al contesto di rinvenimento. In primo luogo, abbiamo già avuto modo di notare come all’interno della camera funeraria sia stato trovato, anche se estremamente danneggiato, il feretro ligneo che conteneva i resti del defunto, decorato superiormente con una figura affine all’immagine sul pilastro. In secondo luogo, i documenti archeologici riflettono l’originaria destinazione del sepolcro a un’unica deposizione, quella attestata dai resti del sarcofago, il che manifesta ulteriormente il prestigio del defunto. Non da ultimo, è utile ricordare la presenza nella cella di resti di uccelli e di uova deposti all’interno di una nicchia e sparsi sul pavimento, da intendere come residui di rituali funerari connessi probabilmente a ideologie di rigenerazione nell’aldilà. A questi dati si può aggiungere che la possibilità di un confronto tra l’altorilievo, le maschere e le protomi di ambiente necropolare, che potrebbe indicare nell’opera la rappresentazione di un «demone», non può essere utilizzata come diretto supporto alla lettura del monumento, considerata la differenza sostanziale tra le categorie artistiche messe a paragone; è significativo, infatti, che nulla di mostruoso o grottesco connoti la figura: rispetto alle immagini riportate sulle maschere, per esempio, l’altorilievo appare ben più personalizzato. Seguendo quanto già indicato da Bernardini, sarà quindi preferibile leggere l’esemplare nei termini di una concettualizzazione figurativa del defunto, rappresentato in una veste che lo rende, dopo la morte, appartenente a una particolare categoria sovrumana legata alla percezione fenicia dell’universo oltremondano. Naturalmente, nessun elemento del sepolcro ci informa in via diretta sui tratti specifici di questa identificazione; e se è certo allusiva la pittura che evoca la falsa porta, forse in riferimento all’idea di una soglia verso una realtà extra-ordinaria, extra-umana, rimane pur sempre un sensibile vuoto documentario. Tuttavia, alcune indicazioni più precise possono essere raccolte soffermandoci di nuovo sul quadro storico e culturale d’insieme.
Tra Oriente e Occidente
L’eventualità di rintracciare nel mondo levantino di VI e V secolo i modelli originari del personaggio sulcitano, e con essa la possibilità di identificare nella statua la raffigurazione ideale del titolare del sepolcro, permettono di compiere un ulteriore passaggio per la lettura della scultura. Il transito dalla Fenicia e da Cipro verso Occidente di prodotti ed esperienze artistiche, infatti, si accompagna alla penetrazione negli insediamenti coloniali di nuove forme di culto che, in Sardegna nella fattispecie, ma così anche a Cartagine, trovano la più compiuta affermazione proprio a partire dall’età persiana; lo indica, per esempio, la presenza nelle colonie di divinità precedentemente assenti, come Sid e Shadrafa. Rimanendo sul suolo sardo, nel tentativo di chiarire l’ambito culturale di appartenenza dell’altorilievo, ci sembra utile soffermarci particolarmente sulla figura del dio Sid, la cui morfologia potrebbe restituire alcuni spunti di riflessione, consentendo anche l’individuazione dei fondamenti religiosi di riferimento della scultura stessa. Il culto del dio acquista una «rinnovata» o «nuova» centralità nell’isola a seguito della conquista cartaginese, e specificamente nel corso del V secolo, momento cui va assegnata l’edificazione del tempio di Antas (Fluminimaggiore – Sardegna interna sud-occidentale). Identificato con il romano Sardus Pater (il Sardo che, secondo alcuni brani classici, colonizza la Sardegna e ne diviene eroe eponimo), Sid si mostra come una divinità dalle forti coloriture dinastiche, un «eroe divino», per usare una nota espressione di S. Ribichini, antenato progenitore e, in quanto tale, personaggio intimamente vincolato alla legittimazione ideologica dell’avvenuta conquista punica della Sardegna. Egli, inoltre, è legato nelle funzioni al dio nazionale dei Fenici, Melqart, tanto da essere associato alla divinità tiria in una nota iscrizione di Cartagine. Peraltro, Sid si presenta fortemente debitore, nella morfologia, di antiche tradizioni orientali incentrate sulla venerazione di personaggi storici divinizzati dopo la morte (questione sulla quale dovremo tornare più avanti) e si presenta affine, proprio in questo particolare aspetto, ad altre note divinità fenicie, quali Eshmun,
Shadrafa e Milkashtart. Il suo culto, inoltre, è permeato di aspetti religiosi appartenenti alla cultura di sostrato, di nuovo focalizzati sulla diffusione e sulla venerazione di figure dai tratti dinastici: il titolo B’BY, che accompagna il nome di Sid nelle iscrizioni puniche di Antas – da intendere come termine di derivazione paleosarda recante il significato di «padre» (in senso dinastico) –, sottenderebbe un legame diretto del dio con una divinità regionale delle genti indigene (lo stesso Sardo, eroe eponimo di Sardegna). Ora, fermo restando il riconoscimento in Sid di caratteri propri della tradizione locale sarda, ci sembra però che non sia necessario «scomodare» la figura di un «primo (dio nuragico) dei Sardi», del quale d’altra parte mancano testimonianze dirette. È preferibile, piuttosto, cercare un momento di contatto tra le due culture, la fenicia e quella di derivazione nuragica, proprio nel culto degli antenati, che costituisce uno dei tratti più qualificanti della religiosità protostorica dell’isola, come del resto indicato, solo per citare qualche esempio, dalle celebri statue di Monti Prama o anche da alcune serie della bronzistica figurata: in queste opere è spesso riportata l’immagine di illustri personaggi raffigurati in ruoli significativi, arcieri, sacerdoti, guerrieri, per la sopravvivenza dell’identità propria delle comunità elitarie indigene. Tematiche eroiche, principesche e sacerdotali appaiono centrali all’interno dei gruppi dominanti, i quali, con finalità di autocelebrazione, tendono a ritrarsi «con i simboli e gli apparati del culto e, soprattutto, con l’arredo delle proprie armi». Nella figura di Sid B’BY sarebbero quindi confluiti alcuni tratti delle memorie cultuali protostoriche, rinviabili alla venerazione di personaggi illustri divinizzati dopo la morte, più che le qualità di una divinità specifica già pienamente concettualizzata, nei suoi tratti regionali, in età protostorica. Questa breve digressione sulla morfologia di Sid ci consente, a questo punto, di proporre qualche ulteriore considerazione. Più precisamente, la questione che si pone risiede nella possibilità di comprendere se sia possibile istituire forme di relazione tra la diffusione delle sculture funerarie del Sulcis, così legate alla venerazione dei defunti e al loro processo di eroizzazione, e la coeva affermazione del culto di un dio dalle forti coloriture dinastiche, strettamente vincolato alla sfera oltremondana. Una simile domanda, oltre a trovare motivazione in comuni aspetti religiosi dei due elementi posti in relazione, è giustificata anche dall’appartenenza dell’altorilievo sulcitano e del culto di Sid a un medesimo sfondo storico e culturale, tutto concentrato, come si è notato in precedenza, sulla maturazione delle nuove suggestioni che da Oriente raggiungono l’Occidente durante l’età persiana (e che sembrano trovare in Sardegna terreno fertile per la
loro stessa affermazione). Proprio in virtù di questo aspetto, per cercare possibili elementi di confronto e di comprensione è necessario volgersi nuovamente a Oriente.
Verso Oriente. Re, eroi, antenati La documentazione levantina mostra una particolare attenzione cultuale verso membri insigni della società cittadina dopo la morte. Forme simili di culto vantano una lunga storia nella Siria-Palestina, tanto da essere testimoniate nei testi letterari almeno della tarda età del Bronzo. Ci riferiamo, nella fattispecie, alle figure dei Rapiuma ugaritici (e dei Refaim biblici): come è noto, il nome di questi ultimi qualifica defunti illustri (sovrani, guerrieri, personaggi storici rilevanti), assurti, dopo il decesso, a un rango speciale tra le ombre dei morti; spesso in rapporto con la dinastia regale, essi ricoprono notevoli capacità di intervento benefico nei confronti dell’uomo. Il fondamento mitico del culto dedicato a questi personaggi è conservato nella vicenda del dio Baal; come si evince dalle tavolette ugaritiche, costretto ad affrontare in un terribile scontro il dio Mot, la «morte», egli diviene il protagonista di una vicenda di scomparsa negli inferi e di ritorno alla vita, attraverso la quale ottiene il rango di Baal-Rpu, «Baal il salvatore/guaritore», capo dei Rapiuma. Sul piano cultuale «la catabasi di Baal agli inferi apre la strada al riconoscimento (…) del semplice morto che diviene naturalmente antenato. Membro, cioè, di una comunità ritenuta attiva e operante a favore dei vivi, presente nelle memorie e nel culto». In questo senso il mito di Baal, nell’episodio della lotta contro Mot, della sconfitta e della conseguente riaffermazione del dio, si fa fondamento di una «soluzione» alla morte, che trova spazio e materia nelle pratiche cultuali dirette alla devozione di personaggi storici divinizzati. Pertanto, ad Ugarit, «entrare a far parte dei Refaim è in concreto un mezzo per conservare anche dopo la morte una funzione precisa ed essenziale, che appare una reale e vincente alternativa culturale tanto ad una larvata forma di “esistenza” nell’aldilà, quanto a soluzioni snaturalizzanti come la vita eterna». Grazie a numerosi studi, più o meno recenti, siamo oggi in grado di riconoscere quanto le concezioni relative a Baal e ai gruppi di Rapiuma/Refaim abbiano influenzato la storia religiosa e la sistemazione dei pantheon cittadini negli insediamenti fenici, tanto da portare le morfologie di alcune delle principali divinità, poliadi e non, a essere direttamente debitrici del mito e del culto del grande dio ugaritico. Ne troviamo il più chiaro esempio in Melqart, concepito come la «ipostatizzazione mitico-rituale della figura del sovrano, proiettato nella sfera delle divinità; o, se si vuole, rovesciando completamente l’ottica, del coinvolgimento del Bacal cittadino nel novero dei dinasti, facendone appunto il primo re, il capostipite, l’esemplare». Se quindi appare piuttosto evidente la conservazione, in alcune divinità fenicie, di elementi appartenenti alle tradizioni ugaritiche, facenti perno sul culto dei Refaim (come accennato, oltre a Melqart, rientrano nello stesso contesto anche Eshmun, Shadrafa, Milkashtart e lo stesso Sid), dobbiamo però ammettere che proprio la presenza di quella stessa categoria di avi divinizzati, che potrebbe rappresentare una chiave di lettura dell’altorilievo sulcitano, si mostra alquanto flebile nella documentazione fenicia. I dati epigrafici più antichi in merito, infatti, tacciono del tutto, laddove il nome Refaim ricompare in età persiana e, specificamente, nelle iscrizioni funerarie dei re sidonii Eshmunazar e Tabnit; tuttavia, l’architettura dei testi – si tratta di maledizioni rivolte contro gli eventuali profanatori delle tombe reali – appare riservare al termine un significato molto ampio, tale da poter includere tutti i comuni defunti piuttosto che una sola categoria, peculiare, di antenati. Sembrerebbe cioè che nel tempo l’antico culto, cristallizzatosi nella morfologia di particolari divinità, quali Melqart, abbia trovato in queste una sorta di «soluzione fenicia», lasciando meno spazio alla prestigiosa alternativa, umana e culturale, alla morte che gli stessi Refaim rappresentano nel passato ugaritico. Tuttavia, all’interno di un simile contesto, un particolare dato epigrafico risulta indicativo. Sebbene, come visto, la documentazione fenicia parrebbe conferire nel tempo ai Refaim la connotazione di comuni defunti, nel mondo occidentale il culto degli stessi Refaim sembra riproporre alcune delle sue qualità originali. È di nuovo attestato, infatti, nell’Africa romana grazie all’iscrizione bilingue di El-Amrouni (I d.C.): l’epigrafe, neopunico-latina, si apre con la dedica ai Refaim, definiti ’lnm, ed equiparati ai Mani latini. In tal caso, pertanto, ci troviamo di fronte a una chiara testimonianza del valore dinastico attribuito a certi gruppi di personaggi dopo la morte, forse sulla linea del mantenimento, mutatis mutandis, di quegli aspetti che, almeno apparentemente, troviamo affievoliti (?) in Fenicia nelle epigrafi dei re di Sidone.
Sid pater e defunti “illustri”
Ora, per riprendere le fila delle nostre riflessioni, è il caso di soffermarci su quello che costituisce il principio fondante, il mito riattualizzato nel rito, del culto di personaggi celebri e operanti a favore dei vivi dopo la morte (originari di ambiente siro-palestinese), vale a dire la ricordata relazione tra la vicenda di Baal e l’istituzione del culto dei Rapiuma. Spostando infatti quello stesso fondamento verso la Sardegna, è lecito tornare a chiedersi se l’affermazione dalla piena età punica di Sid, dio pater, vicino nei tratti proprio alle figure dei Rapiuma, abbia avuto una qualche relazione con la coeva diffusione di particolari forme di culto funerario, espresse da raffigurazioni tanto personalizzate quali gli altorilievi del Sulcis: questi, infatti, sono forse il sintomo più tangibile della celebrazione «eroica» di personaggi di prestigio, non così presente, almeno a livello figurativo, nelle fasi precedenti. Nel tentativo di suggerire linee di lettura, certamente più propositive che risolutive, ci sembra che l’analisi d’insieme dei dati fin qui discussi difficilmente potrà essere letta scindendo le varie componenti del quadro culturale. Il culto di Sid, «eroe divino», e quello dei defunti eroizzati si mostrano come parti costituenti di uno stesso sistema, in buona misura analogo a quanto l’antica documentazione levantina ci propone: le ideologie promosse in Sardegna dal V secolo nel culto di una divinità dinastica – garante dell’affermazione politica ed ideologica di Cartagine nell’isola –, potrebbero aver costituito una sorta di principio fondante, da cui avrebbero attinto alcune modalità di «guardare alla morte». Seguendo quest’ottica, la possibilità di disporre di tradizioni cultuali e mitiche, di certo stratificate nel tempo, avrebbe consentito l’istituzione e la promozione di particolari forme del culto funerario; e questo è tanto più da sottolineare se torniamo a pensare alla fase storica in oggetto: il cambiamento della situazione sociale di Sardegna, ad avvenuta conquista punica (il che dovette essere fonte di squilibri), nonché la ripresa dei rapporti con la Fenicia, potrebbero aver rappresentato i due poli entro i quali si sarebbe mossa la ricerca di elementi tradizionali (levantini), anche applicabili alla nuova dimensione culturale dell’isola. Del resto, sebbene manchino a tutt’oggi fonti letterarie di ambito fenicio in merito, potremmo rintracciare l’eco di simili dinamiche in numerosi racconti classici facenti perno sulle figure di eroi protagonisti, anche nella morte, della storia più antica della Sardegna. Viene spontaneo pensare, per esempio, a Iolao, da alcuni identificato con Sid, il quale trova nell’isola, secondo Solino, il luogo della sua sepoltura: è ancora Solino che ricorda lo svolgimento di un culto presso il sepolcro dell’eroe greco (I, 61). È naturale che con tali osservazioni non si intende schiacciare i dati oggi disponibili, e il loro divario cronologico, in un quadro immutato e immutabile, che tale rimane nel passaggio dei secoli e nel trasferimento ad Occidente; così come non si vuole necessariamente vedere nella scultura sulcitana l’immagine di uno dei Refaim dai tratti essenzialmente identici a quelli di ambito levantino (le semplici ma profonde differenze di contesto cronologico e storico impongono ovvie cautele in questo senso). Tuttavia, l’esistenza di figure divine intimamente legate al mondo dei morti e il loro rapporto con culti di eroizzazione di particolari categorie di defunti si mostra come un aspetto così essenziale della religione fenicia che difficilmente potrà non aver avuto riflessi, pur aggiustati e rielaborati, nel mondo coloniale. Su questa linea, il teatro culturale al quale ci sembra appartengano le sculture sulcitane potrebbe essere quello di una riproposizione, anche sul piano figurativo, di un antico modello religioso vicino-orientale, fondato sul rapporto «divinità morente»/culto dei morti; esso potrebbe aver trovato una nuova consistenza nella Sardegna di V secolo, anche in conseguenza della riapertura delle relazioni con la Fenicia e con il mondo cipriota. Rimangono significative, del resto, le profonde connotazioni egittizzanti della tomba n. 7 di Sulcis, che certo arricchiscono e integrano il panorama delineato, pur non essendo necessariamente interpretabili come fonte primaria delle ideologie veicolate dai vari elementi – l’altorilievo in primis – del sepolcro stesso. Peraltro, proprio nell’isola, le rinnovate suggestioni avrebbero interagito, da un lato, con la memoria cultuale delle genti insulari, consentendo la confluenza nella morfologia di un dio fenicio, Sid B’BY, di tradizioni appartenenti al retaggio locale; dall’altro, avrebbero invece condotto ad esiti squisitamente punici, le tombe sulcitane; pur mutate le condizioni sociali, politiche e culturali nel passaggio ad Occidente, il modello levantino avrebbe consentito a membri eminenti della società di assumere, dopo la morte, un rango speciale nell’aldilà, secondo una veste che tanto deve alle tradizioni siro-palestinesi: è dunque anche in questa direzione che potrebbe essere letta una parte degli apporti fenici che segue la ripresa dei contatti tra la madrepatria e l’ecumene coloniale, rinnovandosi o trovando essi stessi nuova affermazione. Rimane da rimarcare infine, ma è questo un aspetto che meriterebbe un ulteriore approfondimento, il fatto che tali processi sembrino concentrarsi preferibilmente nella regione sulcitana, tra Sulcis stessa, Monte Sirai e Antas, disegnando il profilo di un territorio ampiamente aperto alla ricezioni di stimoli, nonché alla loro rielaborazione da parte delle nuove e delle antiche culture trovatesi in contatto.

Fonte: www.archeologia.beniculturali.it/pages/pubblicazioni.html

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