Diretto da Pierluigi Montalbano

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venerdì 30 settembre 2011

Finalmente on-line i rotoli del Mar Morto in HD



Il lavoro finalmente è terminato e ora è possibile prendere visione dei più antichi manoscritti biblici esistenti, ovvero i rotoli del Mar Morto conservati al Museo d'Israele, senza alzarsi dal PC. Il procedimento per fotografare e mettere online questi documenti è iniziato nel 2008, e dopo 3 anni è possibile vedere il risultato del lavoro cliccando su questo link.

La collezione comprende per ora 5 rotoli che si possono visionare con la classica interfaccia di zoom e scrolling che abbiamo imparato a conoscere con Google Maps, e proprio la ditta americana ha realizzato la digitalizzazione e la funzione per la traduzione simultanea del passo selezionato. Poter visionare in altissima risoluzione un testo scritto 2400 anni fa, è una di quelle cose che fa davvero innamorare della tecnologia.

giovedì 29 settembre 2011

Scoperte trenta tombe col georadar



Cuma, da Giove ai primi cristiani
Scavo didattico della Sun: straordinario ritrovamento
nel tempio sull'acropoli del parco archeologico flegreo

Le tombe paleocristiane
di Antonio Cangiano

NAPOLI - Circa trenta tombe risalenti al periodo paleocristiano e medievale, sono state riportate alla luce nel tempio di Giove sull’acropoli di Cuma. La scoperta, ad opera della Seconda Università degli Studi di Napoli (team guidato dal professor Carlo Rescigno), aggiunge un ulteriore tassello di storia sulle sorti del cosiddetto monte degli Dèi.

CIMITERO DI CRISTIANI - Sulla cima dell’acropoli di Cuma, il tempio di Giove, sta restituendo numerose fosse a inumazione contenenti i resti dei primi cristiani ed il loro corredo funerario. Oggetto dello scavo didattico - quindi riservato agli studenti, senza operai -, la pavimentazione dell’edificio sacro, è stata in parte divelta, restituendo ciò che appare un vero e proprio cimitero appartenuto ai primi cristiani.


IDENTIFICATE CON IL GEORADAR - Fino ad oggi sono state aperte circa una trentina di tombe, per un periodo che va dal V d.C. al 1200. Fosse a inumazione separate l’una dall’altra, ottenute scavando nella pavimentazione, secondo una pratica diffusa di riutilizzare gli antichi templi pagani per ospitare tombe cristiane. Non tutte le sepolture però sono state scavate: in tutto potrebbero essercene una novantina. Riportate alla luce solo quelle che sofisticate apparecchiature, hanno indicato essere particolarmente interessante per la presenza di un pregevole corredo funerario.

mercoledì 28 settembre 2011

Viaggio nella storia - Sardara


Inizierà Domenica 2 Ottobre, a Sardara, la 5° edizione consecutiva della rassegna "Viaggio nella Storia", curata da Pierluigi Montalbano.
Questo primo appuntamento prevede un itinerario che, partendo dalla Chiesa S.M.Acquas, si snoderà in pieno Campidano, su un antico isolotto roccioso nel quale si erge il Castello di Monreale.
Visiteremo le antiche miniere di fluoro, di ferro e di piombo. (per info: www.minieredisardegna.it - miniere - Sardegna centrale - miniere di Sardara).
Il trekking ci porterà alla scoperta di questi luoghi dimenticati (circa 5 km di percorso in due ore). Consigliamo un abbigliamento comodo e una bottiglia d’acqua.
La mattinata è organizzata dall'Associazione Sentieri Alternativi in collaborazione con Minieredisardegna.it, Proloco-Sardara e Comune di Sardara.

Ritrovo: ore 9:15, fronte Chiesa di S.M. Acquas. Partenza: ore 9:30 Accompagnatore: Ing. Massimo Scanu

Alle 13.00, presso chiesa di Santa Maria Acquas, ci sarà il pranzo con menù da 12 Euro composto da antipasto di terra, primo, secondo di carne, frutta, bibite.

Nel pomeriggio, alle 16.00, visiteremo il villaggio nuragico di Santa Anastasia con l'annesso pozzo sacro, e alle 17.00 il museo archeologico. (il biglietto cumulativo scontato per gruppi è fissato a 2.60 Euro).

Per informazioni e prenotazioni inviate una mail o telefonate ai numeri in locandina.

Il santuario, uno dei più importanti della Sardegna nuragica, ha come fulcro il tempio a pozzo realizzato con blocchi di basalto e calcare e orientato in direzione N-E/S-O. È costituito da un atrio con sedili parzialmente lastricato, da una scala di 12 gradini protetta da uno stretto corridoio, da una copertura degradante e da una camera circolare con copertura a "tholos". La vena sorgiva, convogliata in un cunicolo lungo 5-6 m, scaturiva da un'apertura munita di architrave alla base della camera del pozzo, nel lato opposto alla scala.
Il tempio, datato al tardo Bronzo (XIII-XII a.C.), è inserito in un articolato insediamento a carattere civile e religioso ancora in fase di scavo. Esso comprende, a circa m 10 a S dal primo pozzo, un secondo pozzo sacro, in opera isodoma, del quale alcuni conci - ornati con motivi incisi e a sbalzo o a bozze mammillari in rilievo, uno in forma di protome taurina - sono murati nella facciata della chiesa di Sant'Anastasia.
Gli scavi hanno inoltre messo in luce il tratto di un grande recinto ad andamento curvilineo, simile al "recinto delle feste" del santuario nuragico di Serri, fiancheggiato da un bancone di lastre di scisto, probabilmente collegabile con un porticato.
All'interno del recinto si individuano i resti di diverse capanne. Una di queste, la "capanna 5", dotata di un bancone-sedile e di due grandi nicchie rettangolari, presentava al centro una colonnina in arenaria sormontata da due dischi che fungeva da supporto di un altare a forma di torre nuragica. Presso l'ingresso, una fossa rettangolare scavata nel bancone roccioso conteneva un orcio ricolmo di manufatti in bronzo, tra cui strumenti da fonditore per attività artigianali e materiale frammentario destinato ad essere rifuso. Accanto all'orcio furono trovati tre bellissimi bacili di bronzo.
La capanna, probabilmente una "sala delle riunioni" per i capi del villaggio, fu realizzata alla fine del Bronzo finale (fine XI-X a.C.), mentre i materiali del ripostiglio vi furono nascosti tra la fine dell'VIII a.C. e l'inizio del VII a.C.
Presso la soglia della "capanna 1", anch'essa del Bronzo finale, fu invece rinvenuto uno scodellone fittile contenente lingotti del tipo "ox-hide", deposto nell'età del Ferro.
Il rinvenimento di matrici di fusione in terracotta nell'area esterna alla "capanna 4" testimonia la produzione sul posto di manufatti metallici.
All'interno della chiesa è invece presente un pozzo nuragico d'uso, inserito originariamente in una capanna del villaggio, che ha restituito materiali databili tra il Bronzo finale e il VII a.C.
L'utilizzazione dell'area per finalità religiose è dunque persistita dopo i tempi nuragici, come documentano la ceramica punica rinvenuta negli scavi e i resti dell'edificio bizantino (intitolato a Santa Anastasia) sottostante alla chiesa oggi visibile e risalente al XV secolo.
I reperti di Sant'Anastasia sono esposti preso il Museo civico di Sardara "Villa Abbas" e presso il Museo archeologico nazionale di Cagliari.

L'immagine del pozzo di Sant'Anastasia è di www.sardegnacultura.it

martedì 27 settembre 2011

Musica antica - Ancient music


Musica e danza nel Levante fenicio e nell’Occidente punico
di Anna Chiara Fariselli

Dalle più antiche fasi della civiltà fenicia in contesto siro-palestinese alle più tarde espressioni di quella punica nel Mediterraneo occidentale, la musica sembra esercitare un ruolo assai significativo rispetto a diversi momenti della vita pubblica. A fronte della scarse e poco puntuali informazioni ricavabili dalle fonti letterarie antiche, è il versante delle immagini, rintracciabili su vari supporti materiali, a fornire molteplici indizi in merito. Piccole orchestre, formate per lo più da personaggi femminili, solo raramente integrate da suonatori, documentano su manufatti eburnei e coppe metalliche la consuetudine dell’utilizzo di lire, timpani o cimbali e oboi. Spesso coinvolti in processioni e teorie che includono talora soggetti danzanti, i musici riprodotti sulle manifatture di provenienza orientale dovevano rappresentare una componente essenziale per il corretto svolgimento di cerimonie e liturgie connesse all’apparato regale.
Il re o la coppia sovrana, in alcuni casi manifestamente sostituiti da alter ego divini, sono i principali destinatari delle performance degli orchestrali, in grado di sottolinearne le vittorie militari, allietarne i banchetti festosi, accompagnarne i rituali di offerta e le attività religiose. In ambito fenicio-cipriota queste stesse manifestazioni sonore sono più chiaramente riconducibili alla figura di Astarte e alla gestione del suo culto, elemento documentato anche dalla testimonianza epigrafica dell’attività di cantori e musici tra il personale stipendiato nel tempio della dea a Kition.

Qui affonda le radici la connessione fra gli strumenti a percussione e le prerogative divine di Astarte, che in Occidente trova salde conferme nel recupero di cimbali bronzei con iscrizioni dedicatorie alla dea da tombe femminili di Cartagine, come pure nell’ampia e longeva distribuzione delle figurine femminili con “disco” al petto o delle più esplicite immagini di timpaniste riprese di profilo, nella coroplastica, sui rasoi bronzei incisi e nel rilievo lapideo. Al culto di Baal sembrerebbe invece associarsi l’utilizzo di flauti e oboi, unici fra gli strumenti conosciuti nel repertorio iconografico ad essere talora impiegati da personaggi maschili. Stando alle fonti classiche gli strumenti a fiato fenici dovevano produrre melodie assai lamentose, sonorità talmente peculiari di quel contesto culturale da giustificare il costituirsi di un vero e proprio topos letterario intorno ai gingroi (flauti) fenici e alla maestria levantina nella pratica dei canti funebri.


In Occidente l’impiego della musica è altrettanto incisivo. L’utilizzo del suono, tuttavia, sembra riservato alla sfera personale della fede, più che all’accompagnamento di cerimonie legate alle istituzioni. Le più chiare evidenze si percepiscono, infatti, soprattutto per quanto concerne la devozione privata e la consumazione dei complessi rituali del tofet. Cimbali metallici, flauti e parti di strumenti a corda in avorio e osso compaiono abbastanza frequentemente nei contesti tombali, talora come evidente residuo dell’equipaggiamento liturgico di sacerdotesse e officianti, ma spesso anche, probabilmente, come attestazione delle pratiche consolatorie gestite post mortem dai familiari o con funzione di talismani scacciaguai e, come parrebbe ipotizzabile nel caso dei molti campanelli metallici rinvenuti in deposizioni infantili, anche come giocattoli.

Stando alle descrizioni delle cupe atmosfere del tofet trasmesse dagli autori classici, la musica vi ha un ruolo imprescindibile partecipando, con suoni fragorosi e ritmati al tempo stesso, al raggiungimento collettivo del parossismo rituale o, come lascia intendere Plutarco (De sup., 13), addirittura procurando una sorta di stordimento nei parenti affranti degli infanti deposti. Depurate tali informazioni dagli inevitabili artifici propagandistici dei cronisti antichi, qualche dato si può invece ricavare dalla lettura delle immagini sulle stele votive: se da un lato si deve notare che dal repertorio occidentale spariscono le “orchestre”, molte delle figure singolarmente riprodotte sono donne con timpano, al petto o di profilo, talvolta erette su piccolo podio. Sia che si tratti di una rappresentazione divina, sia che vi si voglia riprodurre una sacerdotessa, la larghissima diffusione di tali immagini permette di supporre che fotografino una precisa sequenza del rito. Simili valutazioni possono a buon diritto accompagnarsi alle figure di “danzatori”, nudi e qualche volta camuffati da un indefinito copricapo, che la posa scomposta di gambe e braccia farebbe immaginare nel pieno di una sorta di estasi sciamanica, per la quale il rimbombare di tamburi e cimbali e lo stridore acuto dei flauti parrebbero davvero un sottofondo ottimale.


Bibliografia
Fariselli A.C. 2007, Musica e danza in contesto fenicio e punico: Atti del Convegno Eventi sonori nei racconti di viaggio prima e dopo Colombo, Genova 11-12 ottobre 2006: Itineraria, 6, pp. 9-46.
Fariselli A.C. 2010, Danze “regali” e danze “popolari” fra Levante fenicio e Occidente punico, in P. Dessì (ed.), Per una storia dei popoli senza note. Atti dell’Atelier del Dottorato di ricerca in Musicologia e Beni musicali (F.A. Gallo, Ravenna, 15-17 ottobre 2007), Bologna, pp. 13-28.

domenica 25 settembre 2011

San Basilio e i monaci orientali


San Basilio e i monaci orientali 1° parte di 3
di Rossana Martorelli

L’archeologia cristiana parte convenzionalmente dalla nascita di Cristo e arriva fino a Papa Gregorio Magno, nel VI-VII secolo, un personaggio che ha avuto un ruolo importante anche in Sardegna. L’archeologia medievale si fa iniziare convenzionalmente dall’occupazione dei Vandali, alla metà del V secolo, e si conclude con la scoperta dell’America, alla fine del XV secolo, in quanto la scoperta del nuovo mondo sposta il baricentro economico dal Mediterraneo all’Atlantico.
Betlemme e Gerusalemme sono i centri interessati alla nascita e morte di Cristo e proprio in quest’ultima città si forma la prima comunità cristiana, con discepoli e apostoli che iniziano a viaggiare e a portare le idee ovunque. Emblematici sono Pietro e Paolo, che moriranno a Roma. Paolo compì 4 viaggi missionari che lo portarono a visitare il Mediterraneo orientale e buon parte di quello Occidentale. Secondo una diffusa tradizione, ma assolutamente priva di fondamento, il Cristianesimo sarebbe arrivato in Sardegna proprio con San Paolo che, navigando verso la Spagna, avrebbe toccato il porto di Cagliari introducendo il cristianesimo. Quando inizia la vicenda di Cristo, il Mediterraneo era interamente compreso nell’impero romano. Anche l’Europa era romana, tranne parte delle attuali Germania, Ungheria e Russia, ossia i luoghi da cui partiranno le popolazioni barbariche che porranno fine all’impero romano. Cristo nacque quando era imperatore Augusto e morì sotto l’impero era nelle mani di Tiberio. La Sardegna era una delle province romane e quindi assorbì gran parte delle idee religiose del cristianesimo, andando a sostituire le precedenti divinità pagane. Già all’epoca di Tiberio abbiamo la prima diffusione delle idee cristiane in Sardegna. Fonti antiche segnalano una colonia di ebrei e di seguaci del culto egizio di Iside deportata in massa in Sardegna. Il cristianesimo nasce nell’ambito della comunità ebraica; pertanto è verosimile che proprio tramite questo primo nucleo di ebrei arrivati nell’isola sia stato introdotto nei pensieri delle comunità sarde. Abbiamo testimonianze archeologiche di questa comunità ebraica, come ad esempio una lucerna con la rappresentazione del candelabro ebraico. In Sardegna venivano anche deportati i condannati ai lavori forzati per lavorare nelle cave di granito e nelle miniere, forse a Metalla. Sotto l’imperatore Commodo, infatti, abbiamo fonti che parlano di una grande quantità di cristiani che furono deportati in Sardegna, fra i quali Papa Callisto, poi liberati dalla concubina dell’imperatore, simpatizzante per i cristiani, che convinse le autorità a far ritornare molti di questi cristiani.
Le fonti dicono che Ponziano, papa vissuto alla metà del III secolo, fu deportato “in un’insula nociva presso l’isola di Sardegna”. Ponziano è uno dei due papi che hanno conosciuto il proprio successore (l’altro è Celestino V), poiché quando fu deportato, per non lasciare i cristiani senza una guida, rinunciò al suo mandato e fu sostituito da Fabiano. Quest’ultimo, alla morte di Ponziano, si recò in Sardegna per prenderne le spoglie e trasferirle in una catacomba romana, quella di Callisto. L’epigrafe della lapide funeraria è scritta in greco e recita Pontianos Episcopos.
Al 314 risale la più antica testimonianza certa della presenza di cristiani in Sardegna. L’antica Karales aveva un vescovo di nome Quintasio, capo di una chiesa locale, e di un prete, Ammonius, che partecipò insieme al vescovo, ad un concilio indetto dall’imperatore Costantino ad Arles, in Francia, per discutere una delle tante eresie che si stavano sviluppando in quel periodo. Il cristianesimo si diffonde prima nelle città portuali, quelle che hanno più contatti con l’esterno. In un cubicolo sotterraneo scavato nel cimitero di Bonaria a Cagliari ci sono delle pitture murali, oggi quasi completamente scomparse, che fortunatamente furono copiate da archeologi della fine dell’Ottocento. La prima scena raffigura il mito di Giona, tratto dall’Antico Testamento. Il profeta aveva ricevuto da Dio il compito di andare a convertire all’ebraismo gli abitanti della città di Ninive, ma Giona si rifiutò e si imbarcò clandestinamente su una nave che, una volta in mare aperto, si imbatté in una tempesta. Gli antichi pensavano che le calamità naturali fossero una punizione di Dio e, scoprendo Giona, gli attribuirono le colpe e lo gettarono in mare. Giona venne inghiottito da un mostro marino, rimase tre giorni nella sua pancia ma poi viene rigettato fuori e decise di andare a compiere la missione. Evidenti sono le analogie con Cristo, incaricato di compiere una missione, nel sepolcro per tre giorni e poi risorto.

Nell’altra scena si vede una barca alle prese con una tempesta. Alcuni individui cercano faticosamente di salire su una passerella, ma non tutti riescono nell’impresa. Nella simbologia antica la barca è la Chiesa e riuscire a salire sulla barca significa salvarsi, ma non tutti riescono ad essere dei buoni cristiani, ossia non si comportano secondo i principi cristiani. Probabilmente questa immagine è stata eseguita nel periodo di passaggio fra paganesimo e cristianesimo, quando c’era indecisione.
La Basilica di San Saturnino nasce a Cagliari su una necropoli prima pagana e poi frequentata dai cristiani. Alla città di Cagliari si lega in parte anche la vicenda di S. Efisio. Nella sua prigione (il cd. “Carcere di Sant’Efisio”) c’è una colonna e la tradizione vuole che le catene che legavano il santo fossero proprio incernierate in questa colonna, come a Roma, dove è la colonna alla quale si ritiene fosse legato San Pietro. Altri santi antichi sono San Lussorio, a Fordongianus, dove nella cripta sotto la chiesa attuale sono i resti delle tre sepolture che si pensa fossero di Lussorio, Cesello e Camerino, legati dai documenti agiografici agli antichi cristiani. Nell’epigrafe murata su un fianco della chiesa si legge: “qui si sparse il sangue del beatissimo Lussorio”.
Porto Torres è legata, invece, alla memoria del suo martire San Gavino ma dalle fonti apprendiamo che ne ebbe altri due (Proto e Ianuario).
I martiri sono coloro che pur di non rinunciare alla propria fede hanno sacrificato la vita. Nella cristianità antica si conoscono anche i traditori, i cosiddetti “lapsi”, ossia coloro che per salvare la propria vita all’ultimo momento hanno dichiarato di non essere cristiani. Ci sono anche i “confessori”, persone che hanno salvato la vita per condizioni indipendenti dalla loro volontà, magari perché finiva la persecuzione. Ogni religione ha questi martiri, poi diventati oggetto di culto. e attorno alle tombe di questi personaggi furono costruite delle chiese, monumentalizzate ed eseguite delle pitture. I pagani avevano il loro eroe Ercole, i cristiani i martiri. Oltre i martiri ci sono i santi, ossia coloro che, pur non essendo legati ad un martirio, vivono una vita esemplare e muoiono di malattia o di povertà, non necessariamente uccisi. Anche in questi casi si parte da una semplice tomba, attorno alla quale poi si fa un percorso per agevolare il passaggio dei pellegrini per la preghiera, poi si edifica una chiesa, che funge da polo di attrazione per la comunità e gradualmente si formano villaggi e città.
Le religioni hanno al loro interno una simbologia ben precisa: fra i cristiani sono diffuse le croci e il pesce, simbolo di Gesù perché nel II secolo era stato composto in Asia Minore un poemetto che inneggiava al Cristo, alla resurrezione e ai concetti principali del cristianesimo nascente. Le lettere iniziali di tutti i versi, lette in verticale davano la scritta “ichtys”, termine greco che indica “pesce”. Ancora oggi “ittico” indica tutto ciò che riguarda i pesci e da allora, quando si voleva rappresentare simbolicamente il Cristo, si ricorreva all’immagine del pesce. Siamo in un periodo in cui la religione cristiana è ancora illecita e si sente la necessità di creare una sorta di codice di lettura. Ci sono anche marchi di fabbrica, generalmente in ceramica, per pani eucaristici, utilizzati per la comunione, come ad esempio quello ritrovato in un piccolo centro vicino a Cabras, San Giorgio. Oggi non c’è più ma sono stati ritrovati i resti di una chiesa e di un archivio. In questo oggetto c’è un individuo con l’aureola e la scritta intorno ci dice che è San Giorgio. Allora non esistevano le ostie e la comunione veniva data con dei pezzi di pane, come si fa ancora oggi in Grecia e in quei luoghi dove si svolge la liturgia ortodossa bizantina.
Nel V secolo l’impero romano si disgrega e rimane solo la parte orientale. I Vandali, dal nord Europa, passano attraverso la Francia, la Spagna, lo Stretto di Gibilterra e conquistano l’Africa Settentrionale, forse fino ad Alessandria d’Egitto, formando un regno di cui farà parte anche la Sardegna che, quindi, si stacca dall’impero romano. L’isola rimarrà a lungo una provincia d’Africa.
I Vandali erano ariani, ossia cristiani che però non credevano a tutti i dogmi della Chiesa di Roma, ad esempio nella verginità di Maria e davano a Cristo un aspetto umano. I cattolici riconoscono tre entità consustanziali: Padre, Figlio e Spirito Santo ed è ciò che si recita nel Credo. Gli Ariani vedono il Figlio non all’altezza del Padre e prevaleva la parte umana. Inoltre non credevano nel papa e nei martiri.
Alcune popolazioni erano tolleranti, come i Goti, pur occupando l’Italia, non hanno mai creato problemi ai cattolici; invece i vandali, che non amavano combattere e non erano abili governanti, assunsero l’arianesimo come propria identità nazionale e condussero la loro politica mischiandola con la religione, prendendo una decisione rigorosa: chi non era ariano doveva lasciare il territorio. Fu così che circa 200 vescovi e fedeli africani furono mandati in esilio in Sardegna e poi in Corsica. Questa nuova ondata di religione cristiana che arrivò, e in parte si fermò a Cagliari, occupò anche l’interno dell’isola e diffuse nelle campagne il cristianesimo. Le zone più arretrate, lontane dalla città, ricevettero dunque un impulso da questi vescovi e si convertirono, mentre nelle vicinanze del Gennargentu, i Barbaricini mantennero il loro paganesimo per molto tempo ancora.
Vicino a Santa Caterina di Pittinurri (Oristano) c’è il complesso di Cornus con una chiesa, il battistero, la residenza del vescovo e una chiesa per le cerimonie funebri circondata dal cimitero. L’archeologia, con lo studio dei materiali, consente di datare queste strutture all’epoca dell’arrivo dei vescovi africani.
Giustiniano, imperatore di Costantinopoli, decise di eliminare i vandali e le altre popolazioni barbariche e di riconquistare i territori per ricomporre l’intero impero romano. La Francia e la Spagna rimasero comunque in mano rispettivamente dei merovingi e dei visigoti.


San Basilio e i monaci orientali 2° parte di 3
di Rossana Martorelli

La Sardegna diventa bizantina ma fa parte della provincia d’Africa. Giustiniano ha tre linee di programma:
1)i confini erano estesi e bisognava proteggerli con l’impianto di una serie di fortezze. Una prima linea lungo il confine in Bulgaria, Ungheria, Romania, altre fortezze in Turchia (per difendersi dalla temibile Persia), lungo la Siria e in Africa settentrionale. In Sardegna dapprima si fortificano le città, che all’epoca erano portuali, e in seguito si protessero le vie principali, da Cagliari a Porto Torres e da Cagliari a Olbia passando per l’interno, quindi attraverso la Marmilla, la Trexenta e costeggiando il Gennargentu. La Sardegna era il granaio dal quale provenivano le derrate alimentari per l’esercito e nei prodotti agricoli possiamo inserire anche l’attività vinicola. Nelle zone collinari si praticava l’allevamento e si sentì la necessità di proteggere questa area strategica. Spesso si recuperarono le vecchie ville romane, che vennero assegnate a funzionari militari dell’impero bizantino. Oltre agli ufficiali e alle famiglie, nelle nuove fortezze si sistemò la guarnigione militare e tutti coloro, come coloni e agricoltori, che dovevano contribuire alle vettovaglie. Queste ville quindi avevano una duplice funzione: controllo militare della via e mantenimento delle attività agricole. Se i nemici fossero riusciti a forzare la prima linea difensiva bisognava sbarrare la strada con un’altra linea fortificata. Nasceva così una linea parallela di altre fortezze e postazioni di guardia.
2)Il secondo obiettivo era l’unificazione religiosa. Decise dunque di eliminare l’arianesimo e mettere tutto l’impero bizantino sotto l’autorità della Chiesa di Roma. Solo nel 1054 ci sarà la scissione fra bizantini e ortodossi. Il territorio fu completamente cristianizzato, anche se qualche sacca di paganesimo rimase comunque, soprattutto nei territori interni. In questo periodo si assisteva alla vicenda di Gregorio Magno, uno dei papi più importanti della storia. Nella sua opera di evangelizzazione cercò di raggiungere anche i luoghi più lontani, aiutandosi con messi che arrivarono fino all’Irlanda. In Sardegna si nota una fitta corrispondenza con il vescovo di Cagliari Gianuario, continuamente rimproverato da Gregorio perché non si preoccupava delle campagne. Pare che le sacche di paganesimo fossero numerose e che le zone interne non avessero una guida, facendo riferimento soprattutto ai Barbaricini che, come si legge negli scritti, adoravano pezzi di legno (totem) e pietre (menhir). È in questo periodo in cui si iniziò la costruzione di chiesette in campagna. Apparentemente isolate, fungevano da raccordo per i vicini paesi e per le ville dei militari. A volte all’interno delle ville abbiamo ambienti adibiti a luoghi di culto.
3)L’ultimo aspetto fu quello di scrivere un corpus di leggi, il Corpus iuris civilis, ancora oggi alla base del diritto che studiamo noi, e applicarlo a tutto l’impero.

La Sardegna rientra nei due primi filoni: la militarizzazione delle postazioni con gestione anche economica del territorio, e la cristianizzazione con l’edificazione di diverse chiese campestri. Fra le chiese costruite nel periodo bizantino in Sardegna si ricordano San Saturnino e San Giovanni a Tharros. L’arrivo degli arabi fu un grosso problema per l’impero bizantino. Questo popolo partì dalla penisola araba agli inizi del VI secolo indirizzandosi verso il Mediterraneo, considerato il baricentro economico del mondo antico. Conquistò Gerusalemme, Damasco, altre terre nel medio oriente, puntando su Costantinopoli, ma le imponenti fortificazioni della città erano invalicabili. Si indirizzarono allora verso l’Africa settentrionale, arrivando a conquistare Cartagine nel 697 d.C., capitale della provincia d’Africa della quale faceva parte anche la Sardegna. Sebbene alla fine del VII secolo tutta l’Africa settentrionale sia caduta sotto gli arabi, la Sardegna riuscì a difendersi e a mantenere l’indipendenza, diversamente da Cartagine, che fu distrutta e mai più ricostruita (i suoi resti oggi sono visitabili vicino a Tunisi).
La Sardegna in questo periodo ha come referente Costantinopoli, ma vista la lontananza e il fatto che Mediterraneo era infestato dalle navi arabe, iniziò una fase di incremento economico locale. Per sopravvivere non si poteva più comprare dall’esterno e regioni come la Trexenta divennero importanti perché favorirono la produzione locale di agricoltura, allevamento e ceramica.
Mentre i Vandali e gli Ostrogoti lasciarono praticamente libera la possibilità di scelta religiosa, limitandosi ad esiliare gli infedeli, gli arabi distrussero chiese e conventi e, soprattutto in oriente, chi riuscì a fuggire portò in salvo tesori e immagini sacre. Il tragitto di questi religiosi in fuga passò per l’Africa settentrionale per arrivare nell’Italia meridionale, in Sicilia e in Sardegna. Fu così che arrivarono quei monaci orientali che prima avevano i monasteri nella penisola anatolica, in Siria e in Palestina. Tuttora in Sicilia sono conservate moltissime testimonianze. Fino all’XI secolo rimane problematico risalire agli avvenimenti e possiamo parlare di periodo buio in Sardegna. Fa parte dell’impero bizantino ma l’organizzazione risente della lontananza di Costantinopoli e inizia una disgregazione. Progressivamente si formano i 4 giudicati di Cagliari, Arborea, Torres e Gallura. Il giudicato di Cagliari è quello che cade per primo e verrà diviso fra i pisani, mentre nell’ultima fase arrivarono i catalani e gli aragonesi. C’è dunque un passaggio di culture perché si passa dai romani, ai vandali germanici, ai bizantini mediorientali, ai giudicati locali, ai pisani toscani e agli spagnoli.
Quando arrivarono i monaci orientali, il monachesimo era già conosciuto in Sardegna ma era di tipo occidentale. I primi arrivarono con Fulgenzio nel periodo dei vandali, uno dei 200 esuli, che introduce il monachesimo di tipo agostiniano. Il sistema si basa sulla preghiera, sul colloquio diretto con Dio, ma si lascia qualche spazio per il lavoro materiale e si lavora soprattutto nel campo culturale. Ci sono biblioteche e si copiano i codici.
Qualche decennio dopo, Gregorio Magno, con le sue lettere, influenzò molto il monachesimo, lasciando testimonianze di comunità monastiche che venivano fondate da privati cittadini nelle proprie case. Spesso si trattava di volontà testamentarie, ossia chi moriva offriva la propria casa affinché si fondasse una comunità maschile o femminile. Anche l’epoca di Gregorio Magno è attribuibile al monachesimo occidentale, in particolare di tipo cenobitico, dove le persone vivevano in comunità e non in solitudine. Il monachesimo greco è, già in partenza, ascetico. Nacque alla metà del III secolo e si sviluppò sotto Costantino, soprattutto nel deserto dell’Egitto. La spinta fu data dal fatto che Costantino che, quando fu eletto imperatore, introdusse la tolleranza religiosa, favorendo le cosiddette conversioni facili perché il cristianesimo diventò quasi una moda. Alcune persone non gradirono questa svolta perché vedevano cristiani non convinti e i più estremisti lasciarono le grandi città come Alessandria, uno dei poli culturali più importanti dell’antichità, per andare nel deserto. Non avendo di che vivere morivano facilmente e per sopravvivere costruivano delle piccole celle isolate, mentre non c’erano monasteri comunitari. Questo monachesimo ascetico è fatto di meditazione, contemplazione e preghiera, non era previsto il lavoro manuale. In seguito vennero fondate comunità simili a quelle occidentali ma l’aspetto ascetico rimase a lungo tempo.
Fra le testimonianze del monachesimo orientale in Sardegna è un’epigrafe in greco che risale all’età bizantina eseguita su un sarcofago romano più antico. Viene menzionata una “greca monastria”, interpretato come “monasteri greci”, ossia bizantini orientali. Abbiamo anche delle fonti scritte che ci parlano di comunità di monaci orientali a Cagliari, forse temporaneamente.
Un sito importante per il monachesimo orientale è in Egitto, si chiama “Abu Mina” e corrisponde a San Mena, dove attorno al primo monastero si è creata una città, che ha come fulcro una chiesa, il monastero e nelle immediate vicinanze una fonte alla quale i fedeli si recavano per risanarsi in quanto si attribuivano alla sua acqua proprietà mediche. Una delle testimonianze archeologiche è costituita da un’ampollina che raffigura San Mena vestito da militare. Morto in oriente, la leggenda vuole che alcuni soldati che dovevano andare a combattere vicino ad Alessandria portarono sopra un cammello il sarcofago con le reliquie del santo, ma lungo il tragitto l’animale si fermò in un punto ben preciso dove in seguito costruirono la chiesa. Infatti, san Mena è sempre rappresentato mentre prega fra due cammelli. Questa tipologia di ampolline è stata ritrovata anche in Sardegna, probabilmente portate da pellegrini. La circolazione di idee attraverso i viaggi è stata certamente una delle maggiori cause della diffusione del monachesimo orientale anche in Sardegna. Ai monaci orientali viene collegata una serie di luoghi per il tipo di intitolazione; ad esempio Elia era orientale e così viene chiamato il promontorio di Cagliari che da sul mare. In cima c’era un tempio fenicio dedicato ad Astarte ma già nell’Ottocento Giovanni Spano ricordava l’esistenza di un piccolo cenobio abitato da monaci orientali eremiti.
A Siligo c’è Santa Maria di Mesomundu, una chiesetta posta lungo la SS 131, inserita in un complesso termale romano. Di questo luogo abbiamo una notizia importante: quando il giudice di Torres nel 1063 chiese al monastero benedettino di Montecassino l’invio di alcuni monaci per portare in Sardegna la disciplina monastica. I monaci erano già in Sardegna da diversi secoli, ma non quelli benedettini, arrivati più tardi. Il primo luogo che ospitò questi benedettini fu proprio Siligo, che venne tolto ad una comunità orientale. Questa situazione avvenne anche in molti altri luoghi a causa della scissione che avvenne in quel periodo fra la chiesa orientale e quella occidentale. La chiesa di Roma si impegnò proprio nell’eliminare le comunità orientali e concedere le terre ai monaci occidentali, i benedettini. Forse anche la domus de janas di Sant’Andrea Priu, dove nell’ultimo ambiente ci sono una serie di decorazioni di ispirazione orientale, subì la stessa sorte.
Un’iscrizione ritrovata a Cagliari riporta le lettere Monachou ed è riferita certamente ad un monaco greco. Alcune comunità orientali riescono comunque a sopravvivere e ne abbiamo notizia fino al periodo giudicale finale.
San Basilio è un luogo importante per il monachesimo orientale. Importante luogo economico e strategico militare, con fertili terreni coltivabili, fu un importante granaio dell’isola. Costituiva una delle seconde linee di fortificazione dopo quelle costiere. Si è pensato che in questo luogo ci fosse una comunità di monaci orientali soprattutto per via del nome. Quando i monaci arrivarono, difficilmente si stabiliscono nelle aree urbane, mentre preferirono dei luoghi isolati dove dedicarsi prevalentemente alla contemplazione e alla preghiera nel silenzio. Inoltre, una delle attività principali di questi monaci diventerà l’agricoltura e quindi si stabilirono generalmente in campagna.


San Basilio e i monaci orientali 3°e ultima parte
di Rossana Martorelli


Basilio di Cesarea nacque in Cappadocia, ai confini con la Turchia nel 330, in pieno periodo costantiniano, e muore nel 379. La sua famiglia è cristiana e, oltre a rifugiarsi nel deserto, i monaci orientali facevano vita monastica anche in famiglia, assorbendone i primi insegnamenti. Grazie alla famiglia benestante studiò a Costantinopoli ed ebbe una notevole preparazione culturale. Gli autori classici (Cicerone ed altri), pur essendo pagani erano tenuti in grandi considerazione per lo stile e la retorica e, in alcuni casi, anche dal punto di vista etico. Nella capitale d’Oriente ebbe contatti con i vescovi e maturò esperienze che mise a frutto al ritorno nella città natale. Si staccò dai ruoli importanti e dagli incarichi politici e lasciò la famiglia per recarsi nel deserto, una costante dell’epoca. Venne sensibilizzato a questo tipo di vita e decise di dedicarsi alla vita monastica. Si accorse che non era possibile esprimere al meglio lo spirito monastico senza fare del bene agli altri. Dei monaci del deserto non condivideva lo spirito individualistico e decise di mettere in piedi una comunità, alla quale diede un taglio medico, ospitando i poveri e gli ammalati e fondando la cosiddetta “basiliade”, una sorta di città-ospedale, che diverrà in seguito il nucleo dell’attuale Cesarea. San Basilio ha scritto molte opere e ciò ha decretato la sua fortuna. Le più importanti sono: le regole morali (un manuale monastico) e le costituzioni monastiche (i principi della sua disciplina monastica). I principi fondamentali sono: i monaci sono tutti uguali, non esiste una gerarchia, devono vivere in povertà lasciando tutto al monastero; è previsto un coordinatore che amministra i beni (l’igumeno), offrono assistenza medica, copiano i codici, leggono le Sacre Scritture e pregano. Questa forma di monachesimo, mista fra eremitismo e vita comunitaria, trova fortuna anche in occidente e i monaci al loro arrivo vennero definiti basiliani. Solo con Papa Innocenzo III, intorno al 1200, l’ordine verrà codificato.

Le dediche delle chiese non sono mai casuali, le comunità agiscono per un martire o un santo legato alla comunità stessa; pertanto anche la chiesa di San Basilio è certamente dimostrazione di un legame fra questo monaco orientale e la comunità che si è creata intorno a lui.
Nel paese esistevano già delle strutture termali e gli scavi hanno mostrato ambienti romani di forma quadrangolare, vasche e canali per l’acqua. Nei tratti murari si notano elementi in mattone e in pietra. Il mattone non è comune in Sardegna, le costruzioni erano prevalentemente in pietra già dall’epoca nuragica; pertanto si tratta di materiale di importazione da Roma; infatti avevano il marchio “officine romane”. C’era anche una produzione in Sardegna ma era di poco conto. Una costante sembra essere l’uso del mattone per strutture termali. Quando arrivarono i monaci, alcune parti degli edifici erano crollate e le ricostruzioni furono eseguite in pietra, integrando i ruderi con murature eseguite con ciò che trovavano nelle vicinanze. Le terme sono sempre collegate ad altre strutture, spesso ville, perché i ricchi proprietari terrieri si facevano costruire residenze dove andare a trascorrere il tempo libero e le terme erano un bene di lusso. Essendo legate alla disponibilità dell’acqua durano nel tempo perché vengono utilizzate anche per altri scopi dalle comunità che si alternano nel tempo. Anche a Dolianova abbiamo la stessa situazione.

A San Basilio c’è una grande vasca e si notano modifiche strutturali degli edifici che suggeriscono varie attività legate al monastero. La villa ha diverse entrate mentre i monasteri sono luoghi chiusi e protetti, quindi si verifica spesso che gli accessi siano tamponati per la trasformazione da villa a monastero. La chiesa attuale di San Basilio è successiva al periodo dei monaci, ma è stata edificata dai monaci provenienti da San Vittore di Marsiglia, chiamati dal Giudice di Cagliari, anche se sicuramente la cappella dei monaci orientali si trova sotto le attuali strutture. Quando arrivarono ricevettero la chiesa di San Saturnino a Cagliari, che diventò la sede del priorato. Questa casa madre aveva una serie di filiazioni sparse nel territorio del Campidano fino ad arrivare nel Sulcis-Iglesiente. Attualmente San Basilio si presenta con un’unica navata ma all’inizio aveva due navate. Sono stati tamponati alcuni archi ed è stata aperta una finestrella. Le chiese a due navate sono molto comuni in Sardegna e in Corsica. Visto che nella liturgia latina la chiesa riproduce la forma della croce, normalmente si presenta con un unico lungo ambiente diviso in navate dispari, nel transetto si trovano l’altare e l’abside che rappresenta la testa della croce, dove stava la testa di Cristo. Le chiese a due navate non hanno centralità e ci si chiede il motivo di questa scelta. Essendo numerose, qualcuno ha pensato che una navata fosse dedicata al battesimo e l’altra alla liturgia, oppure che una delle navate fosse la cappella di un martire. Nel caso delle chiese monastiche si è ipotizzato che una delle navate fosse per i monaci e l’altra per i fedeli. A Cagliari, in Viale Buoncammino, c’è un’altra chiesa a due navate, dedicata ai santi Lorenzo e Pancrazio.
In conclusione possiamo affermare che una comunità di monaci orientali, vicina alle regole di San Basilio, si è stabilita nel territorio del paese di San Basilio, un luogo importante dal punto di vista militare ed economico. A Donori è stata trovata una lastra con scritte delle norme per i commercianti che dalla Trexenta si recava nel porto di Cagliari per vendere le merci. Sono menzionati vegetali e carne, e potevano essere consumati nella città o imbarcati per raggiungere mete lontane, ai tempi dell’imperatore Maurizio, quindi fra la fine del VI e l’inizio del VII secolo, gli stessi anni in cui arrivano i monaci orientali. Resta ancora da dire che molti luoghi frequentati dai monaci orientali sono riconoscibili dalle pitture perché la simbologia e i soggetti sono caratteristici, pertanto quando gli archeologi sono fortunati e riescono a portare alla luce frammenti di intonaco o elementi che riportano tracce colorate si riesce spesso a ricostruire un pezzo di storia della comunità.

Fonte: Atti del convegno di San Basilio nella rassegna "Viaggi e Letture" a cura di Pierluigi Montalbano

venerdì 23 settembre 2011

Le iscrizioni nei bassorilievi dell'Antico Egitto


I documenti eterni di Tebe
di Pierluigi Montalbano

Tebe è tra le ultime capitali dei grandi regni antichi (datati ante il secolo XIII a.C.), è nata a sud a causa delle vicissitudini sofferte dalle capitali che l'hanno preceduta, che scontano la loro presenza nel nord del paese, pressato progressivamente da tre tormentati fronti (occidentale libico, orientale ittita, settentrionale dei popoli del Mediterraneo). Non ha caso Tebe viene anche appellata Pilastro meridionale o Iunu Scemayit, in contrapposizione alla più antica e potente ma saccheggiata Eliopoli, cioè il Pilastro settentrionale o Iunu meht.
Il tempio di Karnak viene così descritto da Schuré: "Il tempio di Ammone Re è un inno di pietra allo Spirito unico ed assoluto, sovrano, del Dio degli dei (L. II, cap. V)". Il tempio colpisce per la magnifica e poderosa serie di 140 colonne che circondano le altre dodici della navata centrale, tutte diligentemente utilizzate per tramandare testi di varia natura. Ad esso, ed al suo sacerdote di Ammon, il re Sole e dio dei pianeti, Ramsete III quando è in vita concede dei territori con le relative rendite, rendendo quei religiosi ancor più potenti che in passato.
Il tempio di Karnak si trova sulla sponda orientale del Nilo, nel punto in cui questi si è creato un secondo breve corso, ed è a poche migliaia di metri da quello di Medinet Habu. Di fronte ha due edifici sacri, il maggiore d'essi è noto come il Grande Tempio di Luxor.
Nel sito detto di Medinet Abu, sulla sponda occidentale del Nilo, trova luogo sia il cosiddetto Palazzo Reale e sia il Tempio di Ramsete III. Il primo, affiancato al lato sud del secondo, è riemerso alla vista grazie agli scavi iniziati a metà degli Anni Venti dall'Istituto Orientale dell'università di Chicago, e condotti da Uvo Hoelscher, John Wilson e Harold Nelson. Esso dista circa un chilometro dall'acqua, ed è circondato da una pianura quadrettata di coltivazioni, mentre ad ovest, cioè alle spalle dell'edificio, iniziano quei brulli rilievi collinari che offrono ripari alla necropoli della Valle dei Re e della Valle delle Regine.
Il tempio è ricchissimo in ogni angolo delle sue mura, e delle colonne di incisioni e rilievi, che mostrano ideogrammi e figure narranti varie gesta, episodi storici e frasi rituali religiose: una pietra parietale mostra ad esempio quattro squadroni di soldati in marcia durante una parata, la prima fila d'uomini è costituito da egiziani, seguiti da tre altre file di mercenari stranieri: Sardi e Filistei, Beduini della Valle del Sinai, Nubiani dal sud dell'impero. I mercenari conoscendo da vicino l'evolversi della realtà sociale politica e religiosa egizia, sapranno al momento opportuno tradire il paese che a lungo ha dato loro mercede.
La Nubia appare un alleato forzato, per i dati che si hanno circa le continue incursioni dei re egizi nel ricco regno del sud, che subisce come accade agli sconfitti anche il fascino dell'arte egiziana nella edificazione di templi e piramidi che nel progetto edilizio molto hanno in comune con quelli costruiti dai potenti vicini del nord. All'epoca del lavoro eseguito su quella parete del tempio costoro sono schierati in campo contro le armate di Libi.
In un'altra parete i medesimi Filistei sono raffigurati con le mani ed i polsi uniti e serrati vicino al proprio collo da un fermo, ligneo o metallico, a forma di pesce (ad indicare che costoro sono stati catturati durante una battaglia navale, sulle acque del Nilo). Il soldato egiziano è raffigurato con abilità mentre trascina il primo dei prigionieri afferrandolo per la coda delle manette a "pesce", cui si associa il prigioniero che volle attaccare il regno del faraone utilizzando, come pesce, le acque del fiume. Altri prigionieri, dei fanti, sono infatti altrove immortalati e beffeggiati con incisioni che li mostrano immobilizzati, braccia al collo, da ferma polsi a forma di leone, animale cui gli Egizi capitava di dare volentieri e per gioco la caccia.
Una diversa scena di guerra che mostra degli arcieri egiziani all'opera rivela l'interesse dell'esecutore dell'incisione per la caratteristica somatica di alcuni prigionieri; essi sono legati e seduti a terra dietro la fila di arcieri, hanno un elmo che pare mostrare un adornamento di due corni e delle guance solcate da forti tratti di scalpello, scavate più che rugose, come di soldati anziani o di una razza ben distinta. Quali nemici sono costoro? Potrebbero anche essere i Siculi come sostiene Pierre Grandet: "trois des bateaux sont montés par des Peleset, reconnaissables à leur casque à aigrette, tandis que les deux autres le sont sans doute par des Sikala, coiffés d'un casque à cornes et à jugulaire, couvrant largement la nuque; tous sont équipés d'armement mycénien" (pag.197). Militi che abitualmente ed a lungo nei secoli si distinguono per l'uso dell'elmo bicorno. Non si può dire molto altro, ma i pensieri non si arrestano: abbiamo in mente gli elmi bronzei con sporgenze custoditi nella Armeria Reale di Torino. In generale, le armi adoperate da una parte dei Popoli del mare - tra questi i Siculi - appaiono, per quello che una disegno inciso può mostrare, di firma o stile miceneo.
Chiudendo qui tale parte del discorso, ricordiamo che a Medinet Habu gli scalpellini dei faraoni hanno lasciato più di 487 metri di ideogrammi. Tanto amore per la stesura di documenti ampiamente merita gli sforzi che dagli Anni Venti l'istituto universitario americano anzidetto a profusione lascia sul suolo egiziano.
Una incisione a basso rilievo descrive così gli avvenimenti notevoli verificatisi durante il quinto anno di regno di Merenptah:
"Il perdente capo dei Libi, il miserabile Merai (Meryuy) figlio di Ded (Dyd) viene dalla terra dei Tehenu (Tjehenu), e seco porta gli arcieri Serden (Shardana), Seskles (Shakalasha?), Eqwes (Aqayuasha), Lukku (Luka), Tursa (Turusha) ed i suoi uomini migliori, ed i suoi figli ha con se, e le mogli". Inseriamo solamente qui un esempio di duplice traduzione delle scuole americana e francese.
"Il Faraone come leone si infuriò a cagione di loro (…). I Nove Archi hanno devastato le frontiere calpestate da ribelli, che si sono insediati nei campi e lungo le rive del grande fiume
da giorni e da mesi (…). Raggiungendo le colline dell'oasi di Farafra (…). Chi li guida liberamente corre per il paese, sempre combattono per saziare il loro stomaco, in Egitto cercano ciò che si può portare alla bocca (…). L'esercito del Faraone protetto da Ammon Râ andò loro incontro coi carri (…). Nessuno dei nemici scampò agli arcieri del Faraone che uccisero per sei ore (…). Merai sconfitto è in fuga a causa della sua viltà (…)".
"I capi arcieri, i capi dei fanti, i carri e le schiere dell'esercito erano ricchi di preda; Annunciarono il loro arrivo asini carichi dei falli dei non circoncisi di Libia, E le mani di quelli che a loro si allearono dai vari paesi, E simili apparvero a pesci morti sull'erba (…)".
"Riportati come prigionieri in Egitto, come la sabbia della spiaggia. Io li ho rinchiusi nelle fortezze, Prostrati sotto il mio nome. Numerosi sono i loro giovani, come girini. Io ho fornito a tutti loro razioni di vestiti ,vitto dai magazzini e dai granai ogni anno".
Gli usali problemi dati dal saccheggio dei villaggi e delle oasi del nord e dell'ovest si rivelano piccola cosa in confronto all'attacco militare portato avanti nuovamente dai Libi nel corso del quinto anno di regno di Ramses III.
"Sono andati a riferire a Sua maestà che le genti di Tjéhénu si sono messi in cammino, facendo una cospirazione e riunendosi senza limiti Lebu, Seped e Mashuash".
"Il Faraone avanza ed il suo nome impaurisce pur le montagne".
"La città fortezza di Ousermatre Meryimen".
"Gli stranieri giunsero dal loro paese dalle isole del centro del mare e si dirigono verso l'Egitto forti del loro numero. Il nemico aveva di nuovo congiurato per perdere la sua vita contro i confini dell'Egitto essi avevano riunito le pianure e le colline ognuno della sua regione".
Le ultime indicazioni sono retrodatate, qui inserite ma copiate dagli scalpellini dopo gli avvenimenti dell'ottavo anno di regno e riportate in un'altra parete del tempio di Medinet Habu, ed aggiunte enfaticamente alle sopraddette. In totale, a Medinet Habu, disponiamo di due serie di bassorilievi (la prima serie ha sei scene e sono all'esterno del tempio, la seconda serie è a cavallo tra i muri sud ed est della seconda "corte") ed un testo, la "Grande iscrizione dell'anno quinto". Altre descrizioni belliche vennero aggiunte copiandole dalle seguenti, inerenti cioè l'ottavo anno di regno di Ramses. Una ricostruzione delle fasi guerresche di tale anno è possibile leggendone la ricostruzione a posteriori (circa 25 anni dopo) nel Papiro Harrys:
"Egli penetra in mezzo a centinaia di migliaia estende le braccia e piazza le sue frecce a suo piacimento, toro combattente, dal cuore fermo, dalle corna aguzze, terrore d'ogni paese: i Paesi del Settentrione, i Peleset ed i Tekker tremano nelle membra, lontani ed isolati dalle loro terre". Eccetera, vedi sopra nel Papiro Harrys.



La "Grande iscrizione dell'anno VIII" di regno per Ramses III recita tra l'altro:
"I paesi stranieri si sono stretti in alleanza nelle loro isole, ed essi si sono messi in viaggioe riversati tutto ad un tratto avidi di razzie. Alcuni paesi non hanno saputo resistere al loro braccio: Hatti, Qodè, Qarkemish, Arzawa, Alashiya sono stati recisi come alberi".
(Gli ultimi due paesi citati sono la futura Cilicia e Cipro, la fedele ed antica vassalla commerciale dell'Egitto).
"Fecero base nel paese di Amurru Tali popoli erano i Peleset, i Tekker, i Sekles, i Derden, gli Uashasha, e posto avevano le loro mani Sull'Egitto, fino al confine della terra sicuri nei loro cuori dicevano: Il nostro volere si compirà. Il cuore di dio, il re degli dei, era pronto a spazzarli via, come uccelli, Cosicché forza egli diede al figlio suo, Ramses".
"Gli stranieri giunsero dal loro paese dalle isole del centro del mare e si dirigono verso l'Egitto forti del loro numero. Il nemico aveva di nuovo congiurato per perdere la sua vita contro i confini dell'Egitto essi avevano riunito le pianure e le colline ognuno della sua regione".
"Uscite le vostre armi, inviate le truppe per distruggere i ribelli paesi stranieri, che ancora non conoscono né l'Egitto né la potenza di mio Ammonemio padre. Fuori le armi e mostratele ai paesi ribelli che non conoscono l'Egitto e li domeremo con la abilità di mio padre Ammone".
"Sua Maestà si avvicina all'orizzonte del padrone dell'universo per chiedere a lui la forza, il coraggio, la potenza. Suo padre Ammone, signore degli dei, gli concede una vitalità nuova e la sua congiunta forza distrugge il paese di Timhiu che aveva violato le sue frontiere. Montu e Seth danno la loro magica protezione alla sua destra ed alla sua sinistra. Oup-Ouaou era dinnanzi a lui per proteggergli il cammino e lo rendeva potente per abbattere i paesi spacconi".
"Ho difeso la frontiera della Fenicia istruendo i principi del luogo. Ho istruito i comandanti delle schiere dei Maruani. Ho fatto predisporre con muraglie fortificate l'imboccatura del Nilo, con battelli da guerra, navi e scorte protette da soldati coraggiosi ed armati da prua a poppa, e da truppe d'assalto da me scelte tra le migliori d'Egitto e simili a leoni ruggenti sui monti. Vi ho aggiunto una serie di carri con soldati selezionati ed usi ai cavalli e pronti a calpestare i soldati stranieri. Ma io sono il valoroso Montu fermo alla loro testa in modo che possa vedere ciò che catturano le mie due mani, il re di Basso e Alto Egitto".
"Un muro di lance li circonda sulle rive, e sono trascinati, abbattuti, uccisi, sono ammassati colà ed i loro battelli affondano con tutti i loro beni. Ora i Paesi stranieri settentrionali che erano nelle loro isole tremano nelle loro membra. Essi hanno penetrato le vie delle foci del Nilo e i loro nasi hanno cessato di respirare pur se desiderano il soffio della vita. sua maestà irrompe su loro, come tempesta agile sul campo di battaglia, e la sua valentia irrompe come paura nel corpo dei nemici che sono distrutti ove sono, stretti al cuore, privati del Ba le loro armi sono sparse sul Grande Verde la freccia regale trafigge chi vuole e il fuggiasco può solo cadere nell'acqua. Ammone Ra ha combattuto e vinto e schiacciato i popoli per lui sotto i suoi sandali. Lui è re di Alto e Basso Egitto Signore delle Due terre".
"Io sono colui che si muove, coraggioso e consapevole della propria potenza, l'eroe che protegge le sue armate nel giorno del combattimento".
"Egli è un grande e potente signore, la sua fama ed il terrore che suscita hanno buttato a terra i Nove Archi. E' come un leone che ruggisce sui monti. Tutto il mondo lo teme a motivo della sua gloria. Egli è simile ad un falco padrone delle sue due ali che percorrono con un solo balzo i fiumi e le terre. Egli è un leopardo che ben conosce la sua preda, che afferra con l'attacco, mentre che le sue due mani straziano il torace di chi ha osato violare i suoi confini. Egli si scatena e si impegna nel combattimento, quindi uccide centinaia di migliaia di uomini calpestati dai suoi cavalli. Per egli le moltitudini sono come cavallette ridotte in polvere come farina".
"La spina dorsale dei Tjéméhu è spezzata fino alla fine dei tempi, i loro piedi hanno finito di violare la frontiera dell'Egitto e coloro che sono fuggiti sono adesso miseri e tremanti. La gente di Tjèmèhu è fuggita di corsa; i Mashuash sono in fuga cacciati dai loro paesi. Sono tutti in fuga dal primo all'ultimo Dyd, Mashken, Meryuy e del pari Ourmer, Tjetmer ed ogni capo nemico che attaccò l'Egitto al seguito dei Libi".
Anche in questa occasione agli sconfitti vengono fatte pronunciare delle espressioni di riconoscimento della colpa e della giustezza della relativa pena:
"Gli dei hanno ordinato di ucciderci tutti poiché noi abbiamo volontariamente violato i loro nomoi, e noi adesso conosciamo la grande forza dell'Egitto".
"Ammirate la grande possanza di mio padre Ammone-Ra, dei popoli avevano rivolto i loro volti contro l'Egitto ed i loro cuori errando si affidavano alla forza delle loro braccia, ma una rete venne predisposta per fermarli. E coloro che si addentrarono entrando fin nelle foci del Nilo caddero come uccelli, colpiti ai fianchi, nel luogo ove erano, braccia e petti lacerati. Io ho fatto sì che possiate contemplare la mia potenza manifestata dalle azioni del mio braccio. Ammone-Ra è rimasto alla mia destra ed alla mia sinistra, la sua fama ed il timore che ispira si emanavano dal mio corpo".
"Nel cuore ho con me il mio dio, il re degli dei, Ammon Râ, eroico dio della forza che più grande è di quella degli altri dei e che la vita stessa, per quanto duri e dalle sue mani ci viene data assieme al destino ed a tutti gli anni".
Il cosiddetto "Poema dell'anno XI" di governo di Ramses III ci descrive una ennesima guerra contro la numerosissima popolazione resa indigente del Mediterraneo a causa della pax hittito-aegiptiaca, e della carestia mondiale del XII secolo a.C. verificatasi forse per una serie di variazioni climatiche avverse all'agricoltura:
"Ascoltatemi in tutto il paese, tutti coloro che sono in vita, le giovani generazioni e gli onorevoli anziani del Paese divino. Io sono figlio della valorosa semenza del dio eroe dalla grande forza, re del Sud e del Nord".
"Io ho sconfitto quei paesi stranieri che hanno violato i miei confini, come compete a chi come re è posto sul trono di Atum. Nessun paese nemico è nei miei pressi e sono sicuro di fronte ad essi come un toro dalle corna aguzze".
"Io ho ricacciato i Nove Archi che calpestavano l'Egitto il ricordo del mio nome genera terrore in quei loro paesi. Io ho atterrato i Tekker, le terre dei Peleset, i Danau, gli Uashasha, I Sekles, e tolto la vita ai Meswes (…) Ho portato in alto il capo chino dell'Egitto".
"Meshesher, figlio di Kaper, come loro capo si prostrò steso ed aperto ai piedi del Faraone, generò terrore per timore di me, la sua gente coi suoi figli e l'esercito erano distrutti ed i suoi occhi non vedevano più la luce (il disco) del sole".
"I guerrieri vennero condotti via, come le donne ed i fanciulli prigionieri, le braccia legate al collo, carichi sulle spalle dei loro averi, mentre buoi e cavalli prendevano la via per l'Egitto".
"Il faraone era una torcia potente che sprigionava fiamme provenienti dal cielo per cercare il loro Ba e recidere le loro radici che erano ancora nei loro paesi".
"Raccogliete codesti prigionieri presi dal valente braccio del faraone e portateli come servi nel tempio di Ammone, Re degli dei che con la sua mano ce li ha consegnati".
Discorso di pietà tenuto dall'umiliato capo dei prigionieri, Mesher, pure in presenza del genitore, il vecchio re Kaper, umiliando così il passato ed il futuro dei vinti:
"La vita ci viene da te donata, signore dell'Egitto e luce dei Nove Archi, Ammone tuo padre ci vuole ai tuoi piedi. Agogniamo di rimanere in vita, respirare ancora l'aria, Ed essere servitori del tuo tempio. Tu sei il nostro signore per l'eternità come lo è tuo padre Ammone".
"La trappola è scattata su noi in presenza di Ramses. Il nostro passo ed il nostro cammino non esistono più mentre che egli si siede sul suo trono. Il nostro dio è stato catturato, tale ad una preda, e noi siamo stati resi un bottino dinanzi a lui, che non si volge, mentre che noi l'imploriamo".
"Guarda. Ho distrutto la tua fama per sempre. Dalla tua bocca non verrà più alcuna minaccia contro l'Egitto". Conclude il "Procreato da Ra", in presenza dei suoi sacerdoti e del proprio popolo provato da anni di razzie e di guerra.

Fonte: www.terraeliberazione.org

Immagini da www.anticoegitto.net

giovedì 22 settembre 2011

Appuntamenti culturali

Ricevo, e volentieri pubblico, una serie di appuntamenti previsti nei prossimi giorni. Le immagini possono essere ingrandite cliccando sopra.

Ardauli























Las Plassas







































Sant'Antioco.





















OTRANTO -
Le pitture preistoriche della grotta dei cervi in mostra fino al 25 settembre a Porto Badisco di Otranto, piazzetta Consiglio dalle 17 alle 19, ingresso gratuito.
Si tratta di copie fotografiche a grandezza naturale (scala 1:1) di alcune delle più significative scene in guano di pipistrello ed ocra rossa realizzate oltre seimila anni fa da uomini del neolitico sulle bianche pareti della grotta scoperta 41 anni fa nel sottosuolo di uno dei posti più belli del Parco Naturale Regionale Costa Otranto-Santa Maria di Leuca.

mercoledì 21 settembre 2011

Sa 'Ena, Sardegna Preistorica. Presentazione libro a Cagliari.



Appuntamento con la cultura a Cagliari.
Venerdì 30 Settembre alle ore 18.00 presso la sala ex allievi di Don Bosco, in Viale Fra Ignazio, il Prof. Franco Laner, ordinario di tecnologia dell'architettura alla IUAV di Venezia, presenterà il suo ultimo libro: "Sardegna Preistorica, SA 'ENA".

Il libro è composto di otto capitoli che trattano argomenti oggetto dell'attuale dibattito fra i cultori dell'archeologia nuragica. In particolare viene dedicato un capitolo al metodo di ricerca ed agli strumenti di indagine che sono quelli della disciplina, Tecnologia dell'architettura, che l'autore insegna a Venezia. Pertanto alcune ipotesi interpretative sono viste da angolazioni non usuali per gli archeologi ed aprono a quell'interdisciplinarietà spesso invocata e necessaria nella ricerca nuragica.
A parte il capitolo sui nuraghi, che conferma il giudizio già espresso in "Accabadora", Angeli, 1999, e lo arricchisce di nuove conferme, assai singolari sono i capitoli sugli antropomorfi, sulle pintadere, sui dolmen, argomento questo abbastanza trascurato della preistoria sarda, specie per i sistemi costruttivi. Un capitolo è dedicato alle Tombe dei Giganti dove viene dato spazio alla simbologia della stele, così come la simbologia la fa da padrona nel capitolo sulle fonti e pozzi. L'ultimo capitolo è dedicato ai Giganti di Monte Prama con ipotesi ricostruttive assai diverse da quelle in atto al Laboratorio di Li Punti, dove è in fase di completamento il lavoro di ricomposizione dei più di cinquemila frammenti.
Il libro, di 185 pagine, a colori, 20 euro, è edito Condaghes, Cagliari, 2011

Ho avuto il piacere di leggere il libro qualche mese fa e apprezzarne i contenuti. L'architetto dimostra che la pietra, la pesante e irremovibile pietra, può esprimere la comunità, l'identità, i legami con passato e futuro. Dal connubio architettura-archeologia fioriscono spunti sorprendenti, e la tanto agognata interdisciplinarietà che molti ricercatori ultimamente applicano nella conduzione di scavi, si dimostra il cavallo vincente per interpretare al meglio i contesti archeologici.
L'autore, affascinato dal pensiero che la Sardegna sia un crocevia mediterraneo, spiega che l'arte del costruire è stata spesso confusa con l'architettura, e afferma che gli edifici più rappresentativi dell'universo sardo sono legati alla sfera del sacro. Ecco, quindi, il nuraghe quadrilobato che diventa rappresentazione del cosmo; le Tombe di Giganti e molte fonti ipogeiche sono stati costruiti "per allora e per sempre"; il colore rosso delle domus de janas diventa "sangue che fluisce dove pulsa la vita; la stele delle TdG diventa un diaframma che separa il regno dei morti da quello dei vivi; le statue giganti di Monte Prama erano telamoni che sostenevano un tempio per l'adorazione del Dio dei sardi, e così via.


Ingresso libero.

martedì 20 settembre 2011

Il culto dei morti nel Neolitico

Il culto dei morti nel Neolitico.

Tracce di una cura dei vivi nei confronti dei morti si hanno già dal Paleolitico, nelle sepolture gli inumati venivano posti in posizione fetale ricoperti di ocra rossa quale simbolo di rinascita.
In Sardegna nel Neolitico e soprattutto in quello recente, questo tipo di attenzione nei confronti del defunto e del suo destino ultraterreno, trovò la sua massima espressione nei vari tipi di sepoltura del periodo come le Tombe a Circolo, i Dolmen e, soprattutto le Domus de Janas.

Queste ultime riproducevano la pianta dei villaggi neolitici e, in molti casi, l’ambiente interno delle abitazioni dei vivi; a tal riguardo la presenza di suppellettili e di vari oggetti di uso quotidiano in funzione di corredo funebre fornisce utilissime informazioni riguardo alle abitudini e allo stile di vita delle popolazioni antiche.
Tra i vari oggetti rinvenuti nelle tombe ipogee destano particolare interesse le statuette rappresentanti una figura femminile in marmo completamente nuda, per la probabile relazione con la bambolina di farina impastata riposta dentro un vaso contenente dei semi di frumento (chiaro simbolo di fertilità) che le ragazze di Ozieri custodivano fino alla metà dell’Ottocento, in occasione della celebrazione del “Comparatico” di San Giovanni (ossia la particolare forma di unione sacra fra un ragazzo e una ragazza).
La presenza di queste statuette nel corredo tombale va probabilmente inserita nella corrente culturale della statuaria neolitica del Mediterraneo e delle aree extramediterranee legate culturalmente con la figura femminile nuda e, in molti casi, con l’enfatizzazione degli attributi sessuali legati alla fertilità. Tra i luoghi dove avviene tale rappresentazione ricordiamo, oltre all’Italia, Malta, Egitto predinastico, Creta, Anatolia, Isole Cicladi, Grecia, Serbia, Bosnia, Tracia e Cipro. Pur variando gli stili tipici di ogni area, è degno di nota il fatto che gli idoletti femminili nudi si diffusero enormemente in periodo neolitico in concomitanza con la cosiddetta “rivoluzione agricola” (non dimentichiamo che la festa di San Giovanni ha connotati chiaramente pagani legati alla religiosità agraria).
La destinazione funeraria di questi idoletti è stata riscontrata anche nelle necropoli di Creta, Micene e Tirinto, Malta, Tracia, Francia e Penisola Iberica.
L’interpretazione data a questi oggetti di culto è varia, alcuni hanno pensato che fossero dei doni riservati ai defunti di sesso maschile per trovare consolazione nell’aldilà, ma questa teoria è stata confutata dalla presenza degli stessi idoletti nei sepolcri di famiglia dove trovarono posto individui di entrambi i sessi.
La teoria più accreditata e più probabile è che le piccole statue rappresentassero la Dea Madre (enfatizzazione degli attributi sessuali legati alla fertilità), protettrice del viaggio e della permanenza nel mondo ultraterreno.
Il defunto veniva affidato al ventre della Madre Terra, sistemato in posizione fetale e ricoperto di ocra rossa con la speranza di una rinascita nel mondo dei morti. I nostri antenati guardavano alla morte come a un momento di passaggio da uno stato di esistenza ad un altro diversi ma non disgiunti tra loro, una soluzione di continuità e di contiguità.
È evidente il collegamento tra il ciclo di morte e rinascita umano e quello relativo al mondo agricolo, con la morte e la rinascita della natura che nel corso dei secoli, nonostante le sovrapposizioni culturali e religiose continua ancora oggi a manifestarsi nei vari riti religiosi con chiari connotati arcaici.
Il culto dei morti si riscontra con una certa continuità culturale fino all’epoca nuragica.

Fonte: Il Mulino del Tempo.

venerdì 16 settembre 2011

Isole protostoriche nella costa di fronte a Brindisi

Scogli di Apani
di Angela Cinquepalmi, Riccardo Guglielmino, Teodoro Scarano


Il toponimo Scogli di Apani identifica due piccole isole poste a meno di 50 m l’una dall’altra, aventi una superficie complessiva pari a 1,5 ha ca. e localizzate a poco più di 500 m dalla riva, 15 km ca. a N di Brindisi; esse ricadono nel territorio comunale dello stesso capoluogo e sono all’interno della Riserva Naturale dello Stato e Area Marina Protetta di Torre Guaceto. I due scogli raggiungono una quota massima di pochi metri s.l.m., allo stesso modo del vicino promontorio di Torre Guaceto e degli omonimi isolotti (fig. 2, A).



In letteratura archeologica gli Scogli di Apani sono noti limitatamente alla loro associazione con l’insediamento protostorico identificato negli anni ’60 nell’area del promontorio di Torre Guaceto; all’epoca delle indagini di Rittatore (Rittatore Vonwiller 1965, 1967; Fusco et alii 1966; Guerreschi 1966) si segnalava infatti, in entrambe le aree la presenza di livelli archeologici (messi in luce dall’azione erosiva degli agenti meteo-marini) e materiali per lo più riferibili ad orizzonti culturali della media e tarda età del Bronzo (Punzi 1968; Cafiero 1973).


Le indagini del gruppo dell’Università del Salento (Dipartimento di Beni Culturali e Scuola Superiore ISUFI - Settore Patrimonio Culturale), in collaborazione con il Dipartimento di Geologia e Geofisica dell’Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari, sono state avviate nel 2007 con un primo intervento di prospezione subacquea e terrestre : in questo contesto sono state posizionate e rilevate su una base cartografica georeferenziata le evidenze archeologiche individuate (anche a seguito di verifica di segnalazioni edite e/o inedite) oltre che i numerosi markers geo-archeologici riconosciuti effettuando anche una stima preliminare dell’estensione e della consistenza delle aree interessate da depositi antropici di età romana, tardoantica e protostorica (Scarano 2008).


Nelle estati del 2008 e del 2009 si sono svolte poi, sul maggiore degli Scogli di Apani, le prime due campagne di scavo stratigrafico (Scarano et alii 2009, 2010 cds). Lo scavo ha interessato due differenti aree (Saggi A e B) aventi un’estensione complessiva di 120 mq ca. ed ha permesso di accertare la presenza di strutture e materiali riferibili ad un villaggio databile ad una fase avanzata della locale facies protoappenninica (fig. 1, A-B). Espliciti sono, infatti, i dati riferibili alla presenza di strutture di abitato (capanne 1 e 2), i cui spazi interni sono delimitati da buche di palo ed evidenziati da abbondanti resti di intonaco delle pareti, oltre che da numerosi contenitori ceramici ad impasto frammentati sui piani pavimentali. Tali capanne, al cui interno si sono rinvenuti anche numerosi manufatti in argilla, osso, selce e pietre dure, sono state distrutte da un incendio i cui effetti sono evidenziati dalla cottura dell’intonaco delle pareti, dalla presenza di resti vegetali carbonizzati (soprattutto ghiande di quercia e Vicia Faba var. minor) e dalla ricottura e deformazione di alcuni contenitori ceramici (fig. 2, B-C). È stato peraltro possibile individuare parte di un percorso ad acciottolato posto pochi metri a S/SW della capanna 1 (Saggio A); tale sistemazione sembrerebbe da riferire ad un’area posta lungo il fronte interno di quanto resta di una struttura muraria in pietrame a secco costruita presumibilmente a difesa dell’abitato dal lato di terra. Tale muratura, andata ormai in gran parte distrutta a causa dell’azione erosiva degli agenti meteo-marini, si conserva oggi per una lunghezza di 15 m ca., uno spessore massimo poco inferiore ai 10 m ed un’altezza massima dal piano di fondazione di 3 m ca., e parrebbe presentare un fronte interno con paramenti a scarpa.


Alcuni tratti della stessa struttura muraria sono visibili anche sull’altro Scoglio di Apani ed indicano un’originaria estensione di questa rovina ben maggiore dell’attuale. La presenza di un insediamento protostorica sugli Scogli di Apani e quella di un secondo insediamento sul vicino promontorio di Torre Guaceto concorrono ad una ricostruzione paleo-geografica del contesto territoriale costiero piuttosto diversa da quella attuale e forniscono un contributo determinante allo studio delle dinamiche insediative della prima metà del II millennio a.C. L’analisi dei markers geo-archeologici indica infatti per questo periodo un livello del mare di almeno di 3-4 m inferiore rispetto a quello attuale e, quindi, una linea di riva avanzata anche di qualche centinaio di metri ed una maggiore disponibilità di terra emersa. Tali condizioni suggerirebbero la ricostruzione di un contesto nel quale la costa a N del promontorio di Torre Guaceto sarebbe stata molto meno frastagliata di oggi e l’odierna ampia rada a S si sarebbe presentata, probabilmente, come un’estesa piana costiera, ricca di specchi d’acqua alimentati dai canali Reale e Apani e con gli isolotti (i tre di Torre Guaceto e i due Scogli di Apani) uniti alla terraferma. L’area degli Scogli di Apani, in particolare, potrebbe essere stata l’estremità di una penisola che delimitava sul lato E un bacino paralitorale che si allungava per diverse centinaia di metri in direzione N/NW.
Una profonda “lama” (posta tra il promontorio di Torre Guaceto e gli omonimi isolotti, ed oggi completamente sommersa dal mare) consentiva alle imbarcazioni di accedere ad un sicuro approdo presso il versante S del promontorio di Guaceto, protetto dai venti settentrionali dominanti nell’area (Scarano et alii 2008).

giovedì 15 settembre 2011

Akrotiri, Santorini: la Pompei Minoica


Traduzione di Pierluigi Montalbano

Come a Pompei, la copertura vulcanica del sito archeologico di Akrotiri a Santorini, ha consentito all'antico insediamento di non disintegrarsi nel tempo. Il sito è stato ritrovato per caso, quando fu costruito nel 1860 il canale di Suez. I lavoratori delle cave di Santorini hanno scoperto le rovine sotto le ceneri vulcaniche, ma gli scavi presso il sito non cominciarono fino al 1967. Un crollo sfortunato del tetto nel 2005, che ha ucciso un turista britannico, ha causato la chiusura del sito. E' programmata la riapertura nel 2011.

Akrotiri è chiamato da alcuni come la “Pompei minoica” a causa della somiglianza della distruzione dal vulcano e delle forme avanzate di architettura e di idraulica. E' uno dei più importanti insediamenti preistorici nel Mar Egeo. Analizzando i diversi elementi trovati fra le rovine, gli archeologi sono stati in grado di individuare quali paesi commerciarono nel porto di Akrotiri fino a quando non fu coperto dalla lava alla fine del XVI a.C.

Alcuni ipotizzano che Akrotiri potrebbe essere la città perduta di Atlantide. Tuttavia, è largamente accettato che la città faceva parte della civiltà minoica di Creta concentrata a Cnosso. Akrotiri ha avuto anche rapporti commerciali con la Grecia continentale, Cipro, Siria, Egitto, e le altre isole nella zona. Gli affreschi scoperti negli scavi ritraggono sfilate di barche in quello che doveva essere un porto mercantile molto affollato.
Gli archeologi hanno scoperto un complesso sistema di drenaggio, edifici a più piani, opere d'arte, vasi di creta per il cibo e la conservazione del vino, e mobili, tutti testimoni di una civiltà balneare florida che risale circa al 3000 a.C. Ad oggi, solo un oggetto d'oro è stato trovato: uno stambecco scoperto sotto il pavimento di una casa.

Gli scavi nel sito archeologico di Akrotiri a Santorini sono in corso, quindi ci sono impalcature ovunque per stabilizzare le pareti, le finestre e le porte che altrimenti potrebbero crollare. Un WC scavato, illustrato nei cartelli di presentazione all’interno del sito, è stato lasciato in vista per dimostrare come fosse avanzato il sistema idraulico e di drenaggio.

Gli abitanti avevano avvertito che il vulcano sarebbe scoppiato e lasciarono l’isola, forse spaventati dai forti terremoti che precedettero la massiccia eruzione. Non sono stati scoperti resti umani e non sono stati trovati beni preziosi o gioielli. Fuggirono dall'isola con i loro averi, ma lasciarono sul posto strumenti e recipienti di stoccaggio, a testimonianza che uscirono dalla zona abbastanza rapidamente. Alcuni dei vasi di terracotta contenevano tracce di olio d'oliva, pesce e cipolle. Non è certo dove andarono, ma avevano stretti legami con Creta e l'Egitto e molto probabilmente proprio lì trovarono rifugio.
Oggi il sito archeologico è coperto da uno splendido edificio permanente per proteggere il lavoro svolto all'interno. Si stima che l'area dell'insediamento è 30 volte più grande della dimensione di ciò che è stato scoperto. Il sito che hanno scelto di scavare ha rivelato uno spaccato affascinante della società antica, e sofisticate tecniche di costruzione fra le quali si notano le case costruite a tre piani, alcune con balcone. Gli affreschi sono stati trasferiti al Museo Archeologico Nazionale di Atene, ma Santorini cerca di riaverle. Gli elementi più piccoli, come mobili, vasi e sculture, sono esposti nel museo archeologico dell'isola. Tuttavia non tutti i manufatti sono stati portati via, e si possono ammirare mentre si cammina lungo le passerelle appositamente costruite durante gli scavi.

Finora sono stati portati alla luce 40 edifici e i musei dell'isola conservano una discreta quantità di reperti e fotografie di dipinti murali.
Fra i quaranta edifici scoperti ad Akrotiri, sei hanno richiesto più attenzione nell’interpretazione perché l'architettura e la funzione di ogni edificio è differente.

Il più grande edificio scoperto finora (Xeste 4) misura tre piani e gli archeologi pensano che sia un edificio pubblico per le sue dimensioni. La scala, su entrambi i lati, aveva frammenti di affreschi raffiguranti uomini in processione.
Il secondo edificio più grande (Xeste 3) aveva almeno due piani, con quattordici camere su ogni piano. Le camere sono decorate con dipinti e alcuni avevano più di una porta. Una camera conteneva un "bacino lustrale", che indica l’utilizzato per una sorta di rituale.
La Casa Occidentale è piccola, ma la costruzione è ben organizzata. Le camere dispongono di locali di stoccaggio, un ampio locale per la tessitura, la cucina e mulino, una sala per la realizzazione di vasi di terracotta, e un gabinetto. Le pareti delle camere sono decorate con affreschi ben conservati.
Un gruppo di quattro case hanno le pareti decorate con gigli e rondini. In questi edifici gli archeologi hanno trovato ceramica importata, pietre preziose e manufatti in bronzo.

L'ultimo degli edifici esaminati mostrava entrambe le pareti dipinte con i pugilatori, il signore e il papiro, e l'affresco delle scimmie.
Anche se le antiche rovine di Akrotiri sono state scoperte nel 1860 dai lavoratori delle cave di roccia vulcanica per il Canale di Suez, gli scavi su larga scala non hanno avuto inizio fino al 1967.
Un archeologo di nome Spiridione Marinatos sospettò l'esistenza di estese rovine sotto le fattorie di Akrotiri e scrisse la sua teoria nel 1936. A causa dello scoppio della seconda guerra mondiale e della guerra civile greca, rimandò le sue esplorazioni. In precedenza la zona era stata distrutta dall'aratura dei campi e non vi erano testimonianze scritte sugli avvenimenti. Un locale, Nikos Pelekis, fungeva da guida per Marinatos e influenzò la decisione di scavare in una posizione arretrata dal mare.
La logica dietro la scelta dei luoghi da scavare è stata che la parte più densa della città doveva sorgere in una zona più protetta, non vicino al porto. I locali sono convinti che l'area portuale ha ancora molte strutture e manufatti sepolti sotto gli strati vulcanici, ma gli archeologi erano più interessati a scoprire il modo di vita quotidiana e la struttura dell'edificio. Hanno scelto una zona a breve distanza dal porto, che era più facilmente difendibile in caso di attacco da parte di invasori.

Gli scavi di Spyridon Marinatos ad Akrotiri sono stati interrotti dopo solo sette anni. Morì nel sito, all'età di 72 anni, di infarto. La sua tomba si trova vicino all'ingresso del sito archeologico coperto. Gli scavi sono stati ripresi sotto la direzione di Doumas Christos nel 1976, e si prevedono diversi decenni di lavoro per scoprire tutto nella zona scelta da Marinatos.
Un test geologico è stato fatto sul sito nel 2005, allo scopo di porre pilastri di sicurezza che poggiano su terreno solido, in modo che la stabilità del tetto non sarebbe un problema in caso di un terremoto.
Con la tomografia ad alta risoluzione, un metodo per ottenere immagini da sotto la superficie con onde di energia, sono state individuate cavità sotterranee artificiali e naturali. Le indagini hanno evidenziato pietre, ceramica, e altri elementi di interesse per gli archeologi.
Prima di forare i pozzi nuovi e impostare altri pilastri che sostengono il tetto, i geologi si affidano alle immagini per scegliere la zona più stabile.

Fonte: Examiner

martedì 13 settembre 2011

L'inizio dell'Età del Ferro nel Sulcis


Testando i paesaggi del Ferro: il caso sulcitano
di Paolo Bernardini

La vasta concentrazione di insediamenti che distingue il territorio sulcitano nel Bronzo è il necessario palcoscenico sul quale introdurre un nuovo protagonista: il paesaggio della successiva Età del Ferro nella regione del Sulcis. Per quanto i processi interni di organizzazione del territorio e di gerarchizzazione degli insediamenti siano ancora privi di approfondimenti di tipo cronologico e diacronico, la distribuzione del popolamento, preso nel suo aspetto generale, indica immediatamente un fervido dinamismo e un sofisticato livello di appropriazione e di gestione del territorio e delle sue risorse da parte di quelle comunità di cultura nuragica che vivono, secondo la felice espressione di Giovanni Lilliu, nella «bella età dei nuraghi». Il medesimo studioso, dopo aver presentato, in un dettagliato studio del 1995, i quadri nuragici del Sulcis nel Bronzo, si scusava con i lettori per non aver potuto dare conto con altrettanta dovizia di dati della successiva Età del Ferro, per la quale venivano indicate linee estremamente generali di sviluppo culturale in linea con il divenire di quella “età delle aristocrazie” propugnata altrove dallo stesso autore. Oggi la situazione non è cambiata di molto; la comprensione dei quadri culturali e organizzativi dell’età nuragica è stata limitata in modo notevole dal prevalente orientamento della ricerca sui contesti di cultura fenicia e punica del territorio sulcitano, in qualche modo sollecitata dalla presenza in questa regione di importanti giacimenti legati alla problematica dell’irradiazione fenicia e del successivo dominio cartaginese. Vi è, in realtà, alla base della settorializzazione delle indagini e della prevalenza di una “specializzazione” sull’altra, una metodologia discutibile di impostazione della ricerca, la quale, fino a tempi recenti, ha avuto poco interesse, sia sul versante degli studi fenicio-punici che di quelli preistorici e protostorici, a indagare i punti sensibili dell’interrelazione e dell’osmosi tra culture ed etnie diverse e che ha frantumato in spesso aridi specialismi un fenomeno storico complesso e variegato, originato dall’incontro e dal confronto di tradizioni, esperienze e attitudini diversificate, ma tutte protagoniste nel forgiare il peculiare processo storico dell’isola. Se gli studi più recenti di preistoria e protostoria valorizzano per la Sardegna in generale e conseguentemente, nella fattispecie, per la regione del Sulcis il dato della forte riduzione delle strutture di insediamento tra la fine del Bronzo e l’avvio del Ferro, spesso letto e interpretato come testimonianza forte di tracollo culturale e di progressiva estinzione della vitalità e della specificità della civiltà nuragica, ciò non significa prefigurare gli scenari dell’Età del Ferro come paesaggi in corso di progressiva desertificazione culturale. Molti siti, in realtà, come la ricerca ha modo di documentare in modo sempre più ampio attraverso le attività di prospezione territoriale, continuano la loro vita e i nuraghi, che vengano o meno costruiti, restaurati o modificati nel loro uso, persistono nel segnare con forza il paesaggio e la percezione di esso come collante culturale e ideologico del territorio. Non si tratta, beninteso, delle isolate e romantiche torri che segnano il nostro presente e, purtroppo, anche e troppo spesso la nostra rappresentazione del passato, ma di architetture ben inserite in un tessuto di popolamento vivo e pulsante tra il Bronzo e il Ferro. Eppure, in una sorta di recupero moderno di vecchi miti, l’isola che si affaccia alla nuova Età del Ferro somiglia sempre di più a quella terra arida e spopolata abitata da grandi uccelli che Aristeo dovrà recuperare alla fertilità e alla produttività umane; soltanto che, in questo caso, il ruolo dell’eroe greco è interpretato dai Fenici, i quali fondano le loro comunità sulle coste di una terra che somiglia in modo sempre più preoccupante a un fondale vuoto di uomini e di culture.

Ma i Phoinikes non conoscono quest’isola vuota di popoli, più vicina alla descrizione di Pausania che alla ricostruzione storica; approdano viceversa in regioni saldamente interrelate con i traffici che uniscono, attraverso il Mediterraneo, il Vicino Oriente e l’Estremo Occidente fin dai tempi del Bronzo Maturo e Finale; in luoghi nei quali non abitano fantasmi, ma comunità ben vive che controllano e gestiscono risorse importanti per il commercio fenicio e di cui le indagini recenti rivelano l’esistenza nella regione oggetto della nostra ricerca: che siano gli indigeni che popolano le aree del nuraghe Meurras e del nuraghe Tzirimagus di Tratalias, quelli che vivono presso il nuraghe Sirai di Carbonia o presso la torre del Castello o nei vasti spazi di Grutti Acqua a Sant’Antioco. Su questi luoghi, dove precoce è la circolazione di ceramica di tradizione micenea e di bronzistica figurata vicino-orientale, i Fenici si affacciano attirati dalle interessanti risorse minerarie disponibili nel Sulcis settentrionale e nell’Iglesiente; la grotta-santuario di Su Benatzu, in territorio di Santadi, documenta in modo evidente questi orizzonti di contatto tra la fine del Bronzo e l’inizio dell’Età del Ferro attraverso una serie di materiali che, per quanto scarni superstiti di un saccheggio prolungato del giacimento archeologico al momento della scoperta, ancora riescono a dar conto della temperie culturale di questi tempi di transizione e mutamento. La frequentazione degli spazi sacri della grotta ha lasciato, tra il X e il IX a.C., un supporto tripode in bronzo di tradizione cipriota elaborato in una bottega indigena che ha arricchito il manufatto di originali pendenti a ghianda e di una teoria di teste taurine; in momenti del IX e dell’VIII a.C. nella grotta vengono deposte ceramiche locali decorate con motivi a cerchielli, come la lucerna a foglia, una navicella in bronzo e un diadema aureo, i cui motivi decorativi ricordano gli splendidi athyrmata che i Fenici esponevano nei porti dell’Egeo. La fibula a doble resorte, quanto resta di dediche di vesti alla divinità, individua con immediatezza il rapporto dell’area atlantica con l’isola, il cui potenziamento si deve all’iniziativa dei Phoinikes; oggetti analoghi si ritrovano a Pitecusa e a Bitia, in questo secondo sito eseguite in ferro bagnato in argento, ornamenti di “uomini in armi” che esibiscono le loro panoplie, tra le quali i caratteristici stiletti da lancio indigeni, vasi da vino etruschi, unguentari greci e di tradizione greca. La scarna bronzistica figurata della regione sulcitana che possiamo ricondurre alle fasi del Ferro fa intravedere sia la vivacità culturale delle botteghe locali, in cui si radicano e fermentano stimoli, suggestioni e mode orientali, sia gli orientamenti ideologici di una committenza che va assumendo connotati di progressiva emergenza e distinzione attraverso la combinazione originale di cifre di tradizione autoctona e di modelli allogeni. I quadri sociali di riferimento, ancora troppo tenui e frammentari, impediscono di definire questi “signori di bronzo” come aristocratici, ma essi, con l’esibizione delle proprie armi e armature o della propria abilità negli athla, appartengono all’itinerario che disegna le nuove società dominanti nell’Età del Ferro nell’area mediterranea e atlantica. Il guerriero che impugna con la sinistra lo scudo con gli spadini applicati e stringe nella destra la spada, oggi non conservata, indossa un’elaborata armatura completa di elmetto cornuto e reca sul dorso, assicurata a due anelli di sospensione, l’asta (o una lancia) con l’insegna familiare o di clan, oggi scomparsa; si tratta plausibilmente non di una veste cerimoniale, da parata, ma della reale panoplia di un uomo che celebra socialmente il proprio protagonismo “gentilizio”. Un secondo personaggio, con il capo coperto da un elmetto crestato, è infagottato in una curiosa corazza borchiata che ricorda i grembiali catafratti degli arcieri di Sardara, per i quali già Lilliu richiamava generiche mode orientalizzanti; i guerrieri sono accomunati anche dagli ornamenti (o protezioni) ad anello che serrano il collo. Questi personaggi hanno, a mio parere, un possibile riferimento “archeologico” nei contesti funebri della necropoli fenicia di Bitia, della fine del VII a.C.: qui i defunti abbinano alle armi in ferro di tipo “interna- zionale” (spade, lance, pugnali) e agli stiletti da lancio e ai pugnali nuragici in tecnica bimetallica (bronzo e ferro) sontuosi ornamenti in metallo: bracciali in argento, fibule e cavigliere in ferro bagnato in argento, anelli in argento con scarabeo inserito nel castone o con cartiglio di tradizione “faraonica”. Sono gli uomini emergenti di quella società sardo-fenicia in formazione, di quelle comunità prodotte da forti processi di interrelazione e commistione culturale che disegnano orizzonti “meticci” di grande vitalità e impulso culturali. L’uomo che usa l’arco tenendosi in piedi sul dorso di un animale, verosimilmente un cavallo, ha una lunga serie di modelli e riferimenti orientali, tra i quali di particolare interesse sono gli esemplari di coroplastica cipriota e fenicia tra Bronzo e successivo Ferro, che presentano l’associazione uomo-cavallo in contesti di tipo agonico; l’arciere saldamente assicurato all’animale per mezzo delle briglie che circondano il bacino e salgono intorno alle spalle dell’atleta. I cavalli dovettero essere certamente rari e preziosi nella Prima Età del Ferro, quindi socialmente e ideologicamente rilevanti per chi li possedeva; se fino a oggi nessuna attestazione del cavallo è stata ritrovata dagli osteologi negli insediamenti fenici, l’animale appare in un contesto indigeno, il santuario di Siligo. Il santuario di Fluminimaggiore, immerso nella verdeggiante vallata di Antas, è lo specchio delle pulsioni della società indigena tra il IX e l’VIII a.C.; all’area sacra fa riferimento, secondo una tipologia e un modello distributivo meglio noti nel celebre santuario di Monte Prama in territorio di Cabras, una serie di tombe individuali a inumazione del tipo a pozzetto, una delle quali ha restituito una figurina di divinità ignuda che impugna la lancia, di sicura influenza egeo-orientale. È il dio padre, babay, che sarà successivamente ripreso dal punico Sid e dal romano Sardus Pater; ma, in questi versanti cronologici, è il dio cacciatore cui sono dedicati, entro fossette rituali, faretrine, fasci di spiedi, figurine di cinghiale e parti e porzioni di animali; un altro bronzo figurato, la cui associazione con la necropoli è soltanto probabile, esibisce, accanto al gesto orientale della preghiera nella mano aperta, il pugnale appeso al petto, probabile segno di status sociale o di identificazione con un gruppo particolare entro la comunità di appartenenza. L’apparizione di tombe singole di cultura indigena, ancora pochissimo rappresentate nell’isola, ma non per questo da considerare, come abbiamo visto, rare o eccezionali, si accompagna, nei casi noti, a espressioni artigianali e culturali di estremo rilievo, come bronzi figurati, arredi di particolare sontuosità la statuaria monumentale, elementi tutti nei quali i fermenti orientali sono ben presenti e profondamente operanti; ma ad Antas vi sono anche uomini che si incontrano con la forza dirompente della scrittura e che cercano di carpirla nella sua essenza magica e nel suo valore sociale; è il caso dello spillone indigeno in bronzo, già ricordato, che conserva una corta iscrizione incisa in lettere fenicie, indicazione forse del nome del dedicante o del possessore. I paesaggi che abbiamo evocato, quelli straordinari di Monte Prama e di Sant’Imbenia o il santuario della valle di Antas, sono paesaggi nei quali sono all’opera potenti strumenti di dialogo e di confronto, sono, in definitiva, paesaggi di potere, in cui si forgia la nuova fisionomia dell’Età del Ferro; ma dobbiamo evocare uno scenario analogo, purtroppo soltanto intuibile, di nuovo nella regione sulcitana, nel sito di Crabonaxia (San Giovanni Suergiu), dove, forse in connessione con una necropoli, appare di nuovo la statuaria monumentale. Qui una ricognizione di superficie ha recuperato, tra le pietre ammucchiate dal dissodamento dei campi, una straordinaria testa umana in pietra arenaria, sormontata da un alto e ricurvo copricapo a lebbadè, ornato da zanne di animale; i tratti del volto, rovinatissimi, conservano ancora un occhio reso con lo stilema del doppio cerchiello e il mento fortemente appuntito; altri frammenti sembrano appartenere a un torso umano, solcato da una bandoliera, mentre più chiara è l’immagine di una palmetta, scolpita a rilievo e parzialmente dipinta in rosso. Anche nel panorama tradizionale delle tombe megalitiche, dette “di giganti”, emergono elementi di novità l’architrave di un sepolcro di questo tipo nel sito di Cramina Lana (San Giovanni Suergiu) conserva una rozza e corsiva figurazione che è forse interpretabile come una scena funeraria, una próthesis: vi appare un carro, una figura umana con le braccia tese e allargate, un’altra figura associata a un cavallo; dal medesimo territorio è nota un’altra lastra simile, con carro e figura con le braccia in alto. I motivi decorativi a triangoli che individuano il carro tornano in una serie di manufatti tipici dell’Età del Ferro, che siano le fiancate di alcune navicelle in bronzo, numerose ceramiche, i modelli di nuraghe o le pintaderas; la figura umana richiama strettamente iconografie orientali, come quelle documentate nel santuario di Santa Cristina a Paulilatino e, soprattutto, la straordinaria figura seduta (in trono?) che leva le braccia in alto dal territorio di Furtei, esposta nel Museo archeologico nazionale di Cagliari. L’associazione dell’altra figura umana con il cavallo richiama di nuovo un possibile contesto di giochi funebri, associati al funerale, secondo modelli già suggeriti per la celebre figura di atleta pugilatore della tomba di Cavalupo di Vulci, datata entro la seconda metà del IX a.C., e forse presenti in alcune iconografie di Monte Prama a Cabras. La società vivace e variopinta che stiamo tentando di evocare in queste pagine, per quanto disperatamente smembrata dal suo tessuto connettivo originario, assomiglia davvero molto poco a una società di “fantasmi”.
L’Età del Ferro è anche, nel divenire del fenomeno storico degli stanziamenti fenici e greci sulle coste mediterranee, il periodo di formazione dei nuovi centri urbani, la genesi della città in questo lungo e articolato processo, gli autoctoni dell’Occidente non sono il topo di campagna davanti al topo di città della famosa fiaba che spesso è divenuta materia di ricostruzione storica. Dobbiamo, per prima cosa, interrogarci su cosa intendiamo, in queste fasi storiche, con il nome “città”; sul tipo o modello di insediamento che nasce attraverso un fenomeno forte e costante di interrelazione che unisce comunità indigene e naviganti provenienti dall’Egeo e dall’Oriente e che modifica entrambi, con pari profondità. Non nasce ora la città che culturalmente, figli dell’era moderna e del colonialismo, siamo portati a riconoscere anche dove non c’è; si formano, viceversa, insediamenti fluidi e flessibili, che continuamente si aprono e si modificano, si riformano e si rigenerano tra precarietà e continuità come le terre che lottano con le maree a Gadir o a Lixus. Sono gli insediamenti aperti del Mediterraneo in perenne movimento, che vivono prima del karum e della polis, che nascono, a volte, dalle loro radici e dalle loro esperienze; la città organizzata e gerarchicamente ordinata e frazionata, la città chiusa e circoscritta sarà in Sardegna, e in tempi diversi e successivi, quella cartaginese. I primi secoli del Ferro (IX e VIII a.C.) sono i tempi dell’insediamento dei saperi condivisi, delle comunità miste che organizzano paesaggi del potere e della conoscenza, di indigeni che incrociano e fondono le loro tradizioni e le loro esperienze con genti altre, che si apprestano ad abitare lontano da casa; questo è il significato vero del termine greco apoikía, che non significa “colonia”, così come interrelazione e osmosi non sono colonizzazione. Nella regione sulcitana Sulky è uno degli insediamenti di cui stiamo parlando, il principale del territorio, fondazione fenicia degli anni 770-750 a.C.; l’abbondante seriazione delle ceramiche fenicie e le associazione con vasi euboici e pitecusani di fase tardo-geometrica e corinzi del protocorinzio antico non lascia dubbi al riguardo. La componente materiale di tradizione autoctona è poco attestata nei livelli dell’insediamento fenicio dell’area dell’Ospizio, anche considerando la circolazione di macine indigene; ma i dati dell’abitato vanno riconsiderati e riletti in parallelo con le indicazioni che provengono dal santuario tofet dell’insediamento, che forniscono elementi più organici e continui sotto questo punto di vista. Il tofet è in realtà il santuario dove si mescolano le etnie, dove circolano, accanto ai vasi fenici, urne di tradizione indigena e altri oggetti, come la mazza in basalto o le punte in ossidiana, che testimoniano dei riti e della pietas di famiglie etnicamente composite; nel santuario, fondato in parallelo alla nascita dell’insediamento e dedicato alla conservazione e alla sopravvivenza della comunità l’elemento indigeno assume, come è ovvio, spessore e rilevanza e una più ampia visibilità archeologica. Ma il fenomeno delle comunità allargate, la rete dell’interrelazione e dell’osmosi, si diffondono in tutta la regione; nella necropoli di Monte Sirai un adolescente è sepolto in un grande vaso che si ritiene, inesplicabilmente, di una cultura preistorica (Monteclaro) scavata e musealizzata ante litteram dai Fenici e non invece, come pare ovvio, oggetto semplice e funzionale della coeva produzione indigena; ceramiche indigene e fenicie si trovano fianco a fianco negli strati d’uso dell’abitato che circonda le maestose torri del nuraghe Sirai; un’enclave fenicia vive a Tsirimagus, all’ombra delle torri e delle cortine di un altro imponente nuraghe; un’altra si organizza ai piedi del nuraghe di Tratalias. È il tempo in cui ceramiche nuragiche si diffondono nel Mediterraneo e nell’Atlantico e in cui le comunità autoctone della Sardegna diventano protagoniste attive della nuova rete mercantile che Fenici e Greci stendono su questi mari. Tutto questo potrebbe definirsi “meticciato”, secondo quanto suggerisce Alfonso Stiglitz ; tutto questo, a mio parere, appartiene alla realtà composita e articolata del processo storico, a un mondo in divenire, a una realtà in cambiamento: changing in progress. Gli indigeni fantasmi che popolerebbero la Sardegna dell’Età del Ferro sono il frutto dell’ideologia moderna; la bella età dei nuraghi dell’Età del Bronzo fu davvero bella, anzi bellissima, ma anche destinata a vivere e a trasformarsi nella nuova dimensione degli anni del Ferro, a comporsi in nuovi fenomeni di cultura e di costume nella cornice di quel mare dinamico e in perenne movimento, strada di incontri, che è il Mediterraneo antico. In una Sardegna dell’Età del Ferro, dove scenari possibili e probabili nascono da necropoli impossibili, si estinguerà finalmente una consuetudine antica: quell’abitudine a dare cronologie incomprensibili e inutili, che collocano in un limbo nebbioso e opaco processi storici precisi e di grande spessore; non vi saranno più nell’isola luoghi e giacimenti legati a tempi senza tempo: quelli collocati, o meglio sospesi, nel “Bronzo Finale-Prima Età del Ferro”.

Fonte: Tharros/Felix 4

Nelle immagini:
Lo spillone con segni di scrittura pubblicato da Bernardini su Tharros/Felix